XIII. Ragioni dell'invio dell'ambasciatore di Cesare al pontefice.
Obiezioni del pontefice alle proposte di Cesare e promesse dell'ambasciatore.
Accordo provvisorio fra il pontefice e Cesare.
La cagione
della venuta sua fu che Cesare, poi che ebbe dato commissione tale al marchese
di Pescara che almanco era in arbitrio suo lo occupare lo stato di Milano,
dubitando che per questo non si facessino in Italia nuovi movimenti, ristrinse
le pratiche dell'accordo col legato Salviato: in modo che tra loro fu fatta
capitolazione, riservata però la condizione della ratificazione del pontefice,
nella quale se gli sodisfaceva della restituzione di Reggio e di Rubiera, e vi
si includeva la difesa e conservazione del duca di Milano, che erano le cose
state principalmente desiderate da Clemente, ma con condizione espressa che,
nel caso della sua morte, non potesse ritenere per sé quel ducato né darlo allo
arciduca suo fratello, ma ne investisse monsignore di Borbone; il quale il
pontefice medesimo, assai inconsideratamente, per conforti dello arcivescovo di
Capua, gli aveva, insieme con Giorgio di Austria fratello naturale di
Massimiliano Cesare, proposto, nel tempo che per la infermità fu quasi
disperata la vita di Francesco Sforza. La quale capitolazione fatta, il legato,
non aspettato che da Clemente avesse la perfezione, non potette o non seppe
negare di dare a Cesare il breve tanto desiderato della dispensa: la quale
essendo stata fatta prima con espressione solamente dello impedimento in
secondo grado senza nominare la figliuola del re di Portogallo, per manco
offendere il re di Inghilterra, o perché, essendo tra loro vincolo doppio di
affinità, non fusse fatta menzione se non del vincolo più potente, fu
necessario farne un'altra che con espressa nominazione delle persone
comprendesse tutti gli impedimenti.
Con la
espedizione di questa confederazione partì il comandatore Errera dalla corte
cesarea, uno giorno o due dipoi che Cesare aveva ricevuto l'avviso della
cattura del Morone: e condotto, il sesto dì di dicembre, innanzi al pontefice,
oltre a molte offerte e fede larghissima della buona disposizione di Cesare,
gli presentò i capitoli [dell'accordo]; del quale se bene i capitoli che
trattavano del sale e delle cose beneficiali del reame di Napoli erano
discrepanti da quello che aveva appuntato col viceré, pure, perché il
principale suo fine era di assicurarsi da' sospetti, gli arebbe accettati se
avesse conosciuto procedersi sinceramente nelle cose del ducato di Milano. Ma
poi che nel capitolo che trattava di Francesco Sforza non si faceva menzione
della imputazione che gli era stata data, né si prometteva di restituire lo
stato tolto né di perdonargli gli errori che avesse commesso (anzi Cesare,
nella conclusione fatta col legato e nella istruzione data a questo suo agente,
non aveva dimostrato di saperne cosa alcuna), fu conosciuta facilmente la
astuzia e arte loro: perché la confederazione e la promessa di conservare e
difendere Francesco Sforza nel ducato di Milano non privava Cesare della
potestà di procedergli contro come suo vassallo, e dichiarare il feudo
divoluto, per la imputazione dello avere macchinato contro alla Maestà sua; e
Borbone, surrogato in caso della sua morte, veniva anche a succedere in caso
della sua privazione, perché dalle leggi è considerata la morte naturale e la
morte civile, della quale dicono morire chi è condennato per tale delitto. Però
rispose il pontefice, con gravissime parole: non avere con Cesare causa alcuna
particolare di discordia, anzi, che di ogni differenza e disputa che potesse
essere tra loro non eleggerebbe mai altro giudice che lui; ma che era anche
necessario fermare in modo le cose comuni che Italia restasse sicura, il che
non poteva essere se non si rilasciava a Francesco Sforza il ducato di Milano;
e gli mostrò le ragioni per le quali quello capitolo così generale non era
bastante; conchiudendo che a lui sarebbe grandissimo dispiacere di essere
necessitato a pigliare nuove deliberazioni, e discostarsi da Cesare col quale
era stato sempre congiuntissimo. Replicò il duca di Sessa che la mente di
Cesare era sincerissima, e che senza dubbio era contento che, non ostante tutto
quello fusse accaduto, il ducato di Milano restasse a Francesco Sforza, ma che
per inavvertenza non era stato disteso il capitolo in ampia forma; ma facesse
il pontefice riformarlo a modo suo, che gli promettevano presentargli in
termine di due mesi la ratificazione, pure che anche egli promettesse che, durante
questo tempo, non conchiuderebbe la lega che si trattava col governo di Francia
e co' viniziani. Fu conosciuto chiaramente per ciascuno che questa offerta non
aveva altro fondamento che il desiderio di guadagnare dilazione di due mesi,
acciò che Cesare avesse spazio di potere meglio deliberarsi e provedere i
rimedi contro a tanta unione; e nondimeno il pontefice, dopo molte dispute e
con grandissimo dispiacere degli altri imbasciadori, acconsentì a questa
dimanda, sì per desiderio di allungare quanto poteva lo entrare nelle spese e
nelle molestie come perché gli pareva che, mentre che il cristianissimo era
prigione, fusse pericolosissima ogni congiunzione che si facesse con la madre,
essendo in potestà di Cesare dissolverla ogni volta che gli piacesse; e questa
dilazione potere pure portare, ancorché poco se ne sperasse, la conclusione
desiderata; e se pure causasse la concordia tra i due re, considerò
profondamente (ancora che molti altri giudicassino in contrario) che meglio era
che si facesse in tempo che Cesare avesse minore necessità; perché quanto fusse
in grado migliore tanto sarebbono più gravi le condizioni che egli porrebbe al
re di Francia; l'asprezza delle quali dava speranza che il re, poiché fusse
liberato, non le avesse a osservare. Fu aggiunto ancora in questo trattato che
nel medesimo tempo non si innovasse né di lavorare né di altro contro al
castello di Milano, se Francesco Sforza si obligava a non offendere e molestare
quegli di fuora; la quale condizione egli non volle accettare.
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