VIII. Difficoltà del re di Francia di ottenere soldati svizzeri. Tristi
condizioni dei milanesi alla mercé delle soldatesche cesaree; speranze nel duca
di Borbone e parole d'un milanese a lui. Vane promesse del duca di Borbone ai
milanesi. Licenza riprovevole delle milizie de' collegati.
Ma, in questo
tempo medesimo, in Lombardia crescevano le difficoltà de' collegati. Perché se
bene de' svizzeri condotti dal castellano di Mus e dal vescovo di Lodi ne
fussino finalmente arrivati allo esercito cinquemila, nondimeno, non parendo
numero bastante al duca di Urbino, si aspettavano quegli i quali, in nome del
re di Francia, erano stati mandati a dimandare da' cantoni; sperando che, se
non per altro, almeno che per cancellare la ignominia ricevuta nella giornata
di Pavia, avessino a essere prontissimi a concedergli; e che per la medesima
cagione i fanti conceduti avessino a procedere alla guerra (massime in tanta
speranza della vittoria) con immoderato ardore. Ma in quella nazione, la quale
pochi anni innanzi, per la ferocia sua e per la autorità acquistata, aveva
avuto opportunità grandissima ad acquistare amplissimo imperio, non era più né
cupidità di gloria né cura degli interessi della republica, ma pieni di
incredibile cupidità si proponevano per ultimo fine dello esercizio militare
ritornare a casa carichi di danari: però, trattando la milizia secondo il
costume de' mercatanti, e i cantoni, o pigliando publicamente le necessità di
altri per occasioni di loro utilità o pieni di uomini venali e corrotti,
concedevano o negavano i fanti secondo questi fini; e i capitani che erano
ricercati di condursi, per avere migliore condizione quanto maggiore vedevano
il bisogno di altri, più si tiravano in alto facendo dimande impudentissime e
intollerabili. Per queste cagioni, avendo il re ricercato i cantoni, secondo i
capitoli della confederazione che aveva con loro, che gli concedessino i fanti
i quali di consenso comune si avevano a pagare co' quarantamila ducati che
sborsava il re di Francia, avevano i cantoni, dopo lunghe consulte, risposto,
secondo l'uso loro, non volergli concedere se prima non erano sodisfatti dal re
di tutto quello doveva loro per conto delle pensioni che era obligato a pagare
ciascuno anno: la quale essendo somma grande, e difficile a pagare con brevità
di tempo, furno necessitati, ottenuta anche non senza difficoltà licenza dai
cantoni, a soldare capitani particolari. Le quali cose, oltre alla dilazione
molto perniciosa, nello stato che erano le cose, non riuscirno con quella
stabilità e riputazione che se si fussino ottenuti dalle leghe.
Con la quale
occasione gli imperiali, non ricevendo intratanto molestia alcuna dagli
inimici, i quali oziosamente dimoravano a Marignano, attendevano con somma
sollecitudine a fortificare Milano; non la città, come facevano da principio
della guerra, ma i ripari e i bastioni de' rifossi; non diffidando più, per
l'animo che avevano preso e per la riputazione diminuita degli avversari, di
potergli difendere. E avendo spogliato delle armi il popolo di Milano e mandate
fuora le persone sospette, non solo non n'avevano più scrupolo o timore ma,
avendolo ridotto in asprissima servitù, erano restati senza pensieri de' pagamenti
de' soldati; i quali, alloggiati per le case de' milanesi, non solo
costrignevano i padroni delle case a provederli quotidianamente del vitto
abbondante e delicato ma eziandio a somministrare loro denari per tutte l'altre
cose delle quali avevano o necessità o appetito; non pretermettendo, per
esserne provisti, di usare ogni estrema acerbità. I quali pesi essendo
intollerabili, non avevano i milanesi altro rimedio che cercare di fuggirsi
occultamente di Milano, perché il farlo palesemente era proibito: donde, per
assicurarsi di questo, molti de' soldati, massime gli spagnuoli, perché ne'
fanti tedeschi era più modestia e mansuetudine, tenevano legati per le case
molti de' loro padroni, le donne e i piccoli fanciulli, avendo anche esposta
alla libidine loro la maggiore parte di ciascuno sesso e età. Però, tutte le
botteghe di Milano stavano serrate, ciascuno aveva occultate in luoghi
sotterranei o altrimenti reconditi le robe delle botteghe le ricchezze delle
case e le ricchezze e ornamenti delle chiese; le quali neanche per questo erano
in tutto sicure, perché i soldati, sotto specie di cercare dove fussino l'armi,
andavano diligentemente investigando per tutti i luoghi della città, sforzando
ancora i servi delle case a manifestarle: delle quali, quando le trovavano, ne
lasciavano a' padroni quella parte pareva loro. Donde era sopramodo miserabile
la faccia di quella città, miserabile l'aspetto degli uomini ridotti in somma
mestizia e spavento: cosa da muovere estrema commiserazione, ed esempio incredibile
della mutazione della fortuna a quegli che l'avevano veduta pochi anni innanzi
pienissima di abitatori, e per la richezza de' cittadini, per il numero
infinito delle botteghe ed esercizi, per l'abbondanza e delicatezza di tutte le
cose appartenenti al vitto umano, per le superbe pompe e suntuosissimi
ornamenti così delle donne come degli uomini, per la natura degli abitatori
inclinati alle feste e a' piaceri, non solo piena di gaudio e di letizia ma
floridissima e felicissima sopra tutte l'altre città di Italia; e ora si vedeva
restata quasi senza abitatori, per il danno gravissimo che vi aveva fatto la
peste, e per quegli che si erano fuggiti e continuamente si fuggivano; gli
uomini e le donne con vestimenti inculti e poverissimi, non più vestigio o segno
alcuno di botteghe o di esercizi per mezzo de' quali soleva trapassare
grandissima ricchezza in quella città, e l'allegrezza e ardire degli uomini
convertito tutto in sommo dolore e timore.
Confortògli
nondimeno alquanto la venuta del duca di Borbone, persuadendosi che, poi che
secondo era fama aveva portato provisione di denari e che per la ritirata dello
esercito de' collegati parevano alquanto diminuite le necessità e i pericoli,
avessi anche in parte a mitigarsi tante gravezze e acerbità; e molto più
sperorono che il duca, al quale era publicato essere dato da Cesare il ducato
di Milano, avesse, per benefizio suo e per conservarsi per interesse proprio
più intere l'entrate e le condizioni della città, a provedere che e' non fussino
più così miserabilmente lacerati. La quale speranza restava loro sola, perché
per gli imbasciadori mandati a Cesare comprendevano non potere aspettare da lui
rimedio alcuno, o perché per essere troppo lontano non potesse per la salute
loro fare quelle provisioni che fussino necessarie o, per essere in lui (come
più volte aveva dimostrato l'esperienza) molto minore la compassione delle
oppressioni e miserie de' popoli che il desiderio di mantenere, per interesse
dello stato suo, l'esercito; al quale non provedendo, a' tempi, de' pagamenti
debiti, non poteva né egli né i capitani proibire che si astenessino dalle
insolenze e dalle ingiurie: e tanto più che i capitani, e per acquistare la
benivolenza de' soldati e perché lo essere ogni cosa in preda era anche con
emolumento loro, non avevano ingrata questa licenza militare; poiché, per
mancare i pagamenti, avevano qualche scusa di tollerarla. Però, congregati
insieme in numero grande tutti quegli che in Milano avevano qualche condizione
più eminente che gli altri, dimostrando nel volto negli abiti ne' gesti lo
stato miserabile della patria e di ciascuno di loro, si condusseno con molte
lacrime e lamenti innanzi al duca di Borbone; al quale uno di loro, a chi fu
imposto dagli altri, parlò, secondo intendo, in questa sentenza:
- Se questa
patria miserabile, la quale ha sempre per giustissime cagioni desiderato
d'avere uno principe proprio, non fusse al presente oppressa da calamità più
acerbe e più atroci che abbia mai alla memoria degli uomini tollerato alcuna
città, sarebbe stata, illustrissimo duca, ricevuta con maraviglioso gaudio la
vostra venuta: perché quale maggiore felicità poteva avere la città di Milano
che ricevere uno principe datogli da Cesare, di sangue nobilissimo, e del quale
la sapienza la giustizia il valore la benignità la liberalità abbiamo, in vari
tempi, noi medesimi molte volte esperimentata? Ma la iniquissima fortuna nostra
ci costrigne a esporre a voi, perché da altri non speriamo né aspettiamo
rimedio alcuno, le nostre estreme miserie, maggiori senza comparazione di
quelle che le città debellate per forza dagli inimici sogliono patire dalla
avarizia dall'odio dalla crudeltà dalla libidine e da tutte le cupidità de'
vincitori. Le quali cose, per se stesse intollerabili, rende ancora più gravi
l'esserci a ogni ora rimproverato che le si fanno [in] pena della infedeltà del
popolo di Milano verso Cesare; come se i tumulti concitati a' dì passati
fussino stati concitati con publico consentimento e non, come è notorio, da
alcuni giovani sediziosi i quali temerariamente sollevorono la plebe, sicura,
per la povertà, di potere perdere, cupida sempre per sua natura di cose nuove;
e la quale, facile a essere ripiena di errori vani, di false persuasioni, si
sospigne all'arbitrio di chi la concita, come si sospigne al soffio de' venti
l'onda marina. Noi non vogliamo, per escusare o alleggerire le imputazioni
presenti, raccontare quali siano state gli anni passati le operazioni del
popolo milanese, dalla prima nobiltà insino alla infima plebe, per servizio di
Cesare: quando la città nostra, per la devozione inveterata al nome cesareo, si
sollevò con tanta prontezza contro a governatori e contro all'esercito del re
di Francia; quando poi con tanta costanza sostenemmo due gravissimi assedi, sottomettendo
volontariamente le nostre vettovaglie le nostre case alle comodità de' soldati,
sostentandogli, perché mancavano gli stipendi di Cesare, prontissimamente co'
danari propri, esponendo con tanta alacrità in compagnia de' soldati le nostre
persone, il dì e la notte, a tutte le guardie a tutte le fazioni militari a
tutti i pericoli; quando, il dì che si combatté alla Bicocca, il popolo di
Milano con tanta ferocia difese il ponte, per il quale passo solo speravano i
franzesi potere penetrare negli alloggiamenti dell'esercito cesareo. Allora da
Prospero Colonna dal marchese di Pescara dagli altri capitani, insino da Cesare
medesimo, era magnificata la nostra fede, esaltata insino al cielo la nostra
costanza. Delle quali cose chi è migliore e più certo testimonio che voi che,
presente nella guerra dello ammiraglio, vedesti, lodasti, anzi spesso vi
maravigliasti di tanta fedeltà, di tanto ardente disposizione? Ma cessi in
tutto la memoria di queste cose, non si compensino i demeriti co' benemeriti.
Considerinsi le azioni presenti: non recusiamo pena alcuna se nel popolo di
Milano apparisce vestigio di malo animo contro a Cesare. Amava certamente il
popolo di Milano grandemente Francesco Sforza come principe stato dato da
Cesare, come quello del quale il padre l'avolo il fratello erano stati nostri
signori, e per l'espettazione che s'aveva della sua virtù; e per queste cagioni
ci fu molestissimo lo spoglio suo, fatto subitamente senza conoscere la causa,
non essendo noi certificati che avesse macchinato contro a Cesare, anzi
affermandosi, per lui e per molti altri, essere stata più presto cupidità di
chi allora governava l'esercito che commissione cesarea: e nondimeno la città
tutta giurò in nome di Cesare, sottoponendosi alla ubbidienza de' capitani. Questa
è stata la deliberazione della città di Milano, questo il consentimento
publico, questo il consiglio, e specialmente della nobiltà; la quale che
ragione, che giustizia, che esempio consente che abbia a essere per i delitti
particolari con tanta atrocità lacerata? Ma non apparì anche ne' dì medesimi
de' tumulti la fede nostra? perché, nella sollevazione della moltitudine, chi
altri che noi si interpose con l'autorità e co' prieghi a fargli deporre
l'armi? chi altri che noi, l'ultimo dì del tumulto, persuase a' capi e a'
giovani sediziosi che si partissino della città? alla moltitudine, che si
sottomettesse alla ubbidienza de' capitani? Ma e la commemorazione delle opere
nostre e la giustificazione dalle calunnie opposteci sarebbe forse necessaria o
conveniente se i supplìci che noi patiamo fussino corrispondenti a' delitti de'
quali siamo accusati, o almanco se non li trapassassino di molto; ma che
differenza è dall'una cosa all'altra! Perché noi abbiamo ardire di dire,
giustissimo principe, che se i peccati di ciascuno di noi fussino più gravi che
fussino mai stati i peccati e le sceleratezze commesse da alcuna città verso il
suo principe, che le pene, anzi l'acerbità de' supplìci che noi immeritamente
sopportiamo, sarebbono maggiori senza proporzione di quello che avessimo
meritato. Abbiamo ardire di dire che tutte le miserie tutte le crudeltà tutte
le immanità (taciamo per onore nostro delle libidini) che abbia mai, alla
memoria degli uomini, sopportate alcuna città alcuno popolo alcuna
congregazione d'abitatori, raccolte insieme tutte, siano una piccola parte di
quelle che, ogni dì ogni ora ogni punto di tempo, sopportiamo noi; spogliati in
uno momento di tutta la roba nostra, costretti gli uomini liberi, con tormenti
con carceri private con catene messe a' corpi di molti de' nostri dai soldati,
a provedergli del vitto continuamente, a uso non militare ma di prìncipi, a
provedergli di tutte quelle cose che caggiono nella cupidità loro, a pagare
ogni dì a loro nuovi danari; li quali essendo impossibile a pagare, gli
costringono con minacci con ingiurie con battiture con ferite: in modo che non
è alcuno di noi che non ricevesse per somma grazia, per somma felicità, nudo, a
piede, lasciate in preda tutte le sostanze, potersi salvo della persona fuggire
da Milano, con condizione di perdere in perpetuo e la patria e i beni. Desolò,
a tempo de' proavi nostri, Federigo Barbarossa questa città, crudelissimo
contro agli abitatori contro agli edifici contro alle mura: e nondimeno, che
furono le miserie di quegli tempi comparate alle nostre? non solo per
tollerarsi più facilmente la crudeltà dello inimico come più giusta che la
crudeltà ingiusta dell'amico, ma eziandio perché uno dì, due dì, tre dì,
saziorono l'ira e la acerbità del vincitore, finirono i supplìci de' vinti; noi
già perseveriamo più di uno mese in queste acerbissime miserie, accrescono ogni
ora i nostri tormenti e, simili a dannati nell'altra vita, sopportiamo senza
speranza di fine quello che prima aremmo creduto essere impossibile che la
condizione umana tollerasse. Speriamo pure che la magnanimità tua, la tua
clemenza abbia a soccorrere a tanti mali, che abbia a provedere che una città
diventata leggittimamente tua, commessa alla tua fede, non sia con tanta
immanità totalmente distrutta; che comperando con questa pietà gli animi
nostri, meritando perpetua memoria di padre e risuscitatore di una città sì
memorabile per tutto il mondo, fonderai più in uno dì il principato tuo con la
benivolenza e con la divozione de' sudditi che non fanno gli altri prìncipi nuovi
in molti anni con l'armi e con le forze. La somma della orazione nostra è che,
se per qualunque cagione la volontà tua è aliena da liberarci da tanta
crudeltà, se qualche impedimento ti interrompe, che noi ti supplichiamo con
tutti gli spiriti che voi spigniate addosso a tutto questo popolo, a tutti noi
a ognuno a ogni sesso a ogni età, il furore l'armi il ferro e l'artiglierie
dello esercito: perché a noi sarà incredibile felicità essere impetuosamente
morti, più presto che continuare nelle miserie e ne' supplìci presenti; né sarà
manco celebrata la pietà tua, se in altro modo non puoi soccorrerci, che
infamata la loro immanità; né a noi manco lieto il terminare in questo modo la
nostra infelicissima vita, né manco allegra a quegli che ci amano la nostra
morte che soglia essere a' padri e a' parenti la natività de' figliuoli e degli
altri congiunti cari. -
Seguitorono
queste parole miserabili le lamentazioni e i pianti di tutti gli altri. A'
quali il duca rispose con grandissima mansuetudine, dimostrando avere sommo
dispiacere delle loro infelicità né minore desiderio di sollevare e beneficare
quella città e tutto il ducato di Milano; scusando che quello che si faceva non
solo era contro alla volontà di Cesare ma ancora contro alla intenzione di
tutti i capitani, e che la necessità, per non avere avuto modo a pagare i
soldati, gli aveva indotti più presto a consentire questo che ad abbandonare
Milano, o mettere in pericolo la salute dello esercito, e tutto lo stato che
aveva Cesare in Italia in preda degli inimici. Avere portato seco qualche
provisione di denari, ma non tanta che bastasse, per l'essere creditori di
molte paghe; nondimeno, che se la città di Milano gli provedesse di trentamila
ducati per la paga di uno mese, che condurrebbe l'esercito ad alloggiare fuora
di Milano: affermando che, se bene sapeva che altre volte fussino stati
ingannati di simili promesse, potrebbeno starne sicurissimi alla parola e alla
fede sua; e aggiugnendo, pregare Dio che se mancasse loro gli fusse levato il
capo dal primo colpo dell'artiglieria degli inimici. La quale somma, benché
alla città tanto esausta fusse gravissima, nondimeno trapassando tutte l'altre
calamità la miseria dello alloggiare i soldati, accettata la condizione
proposta, cominciorono con quanta più prestezza potettono a provedergli. Ma
benché una parte de' soldati, ricevuti i danari secondo che si pagavano, fusse
mandata ad alloggiare ne' borghi di porta Romana e di porta Tosa, per guardare
i ripari e attendere a fortificargli (come anche si lavorava alla trincea di
verso il giardino, nel luogo nel quale fu fatta da Prospero Colonna), nondimeno
ritenevano, non meno che quegli che erano restati dentro, i medesimi
alloggiamenti e continuavano nelle medesime acerbità; o non tenendo conto
Borbone della sua promessa o non potendo, come si crede, resistere alla volontà
e alla insolenza de' soldati, fomentati anche da alcuni de' capitani, che
volentieri, o per ambizione o per odio, difficultavano i suoi consigli. Della
quale speranza privato il popolo di Milano, non avendo più né dove sperare né
dove ricorrere, cadde in tanta disperazione che è cosa certissima alcuni, per
finire tante acerbità e tanti supplizi morendo, poiché vivendo non potevano, si
gittorono da luoghi alti nelle strade, alcuni miserabilmente si sospeseno da se
stessi: non bastando però questo a mitigare la rapacità e la fiera immanità de'
soldati.
Erano in questo
tempo molto miserabili le condizioni del paese, lacerato con grandissima
empietà dai soldati de' collegati; i quali, aspettati prima con grandissima
letizia da tutti gli abitatori, aveano per le rapine ed estorsioni loro
convertita la benivolenza in sommo odio: corruttela generale della milizia del
nostro tempo, la quale, preso esempio dagli spaguoli, lacera e distrugge non
manco gli amici che gli inimici. Perché se bene per molti secoli fusse stata
grande in Italia la licenza de' soldati, nondimeno l'avevano in infinito
augumentata i fanti spagnuoli, ma per causa se non giusta almeno necessaria, perché
in tutte le guerre di Italia erano stati malissimo pagati: ma (come [per] gli
esempli, benché abbino principio escusabile, si procede sempre di male in
peggio) i soldati italiani, benché non avessino la medesima necessità perché
erano pagati, seguitando l'esempio degli spagnuoli, cominciorono a non cedere
in parte alcuna alle loro enormità. Donde, con grande ignominia della milizia
del secolo presente, non fanno i soldati più alcuna distinzione dagli inimici
agli amici; donde non manco desolano i popoli e i paesi quegli che sono pagati
per difendergli che quegli che sono pagati per offendergli.
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