XIII. Capitolazione fra il pontefice ed i Colonna. Notizia della vittoria
dei turchi sugli ungheresi; effetti sul pontefice. Perfidia dei Colonnesi
contro il pontefice; tumulto provocato in Roma; tregua fra il pontefice, gli
imperiali ed i Colonnesi. Conseguenza di essa in Lombardia; partenza dei
soldati tedeschi e spagnuoli da Cremona.
Ma a Roma
succederono cose di grandissimo momento, causate non per virtù di armi ma per
insidie e per fraude, con ignominia grande del pontefice e con disordinare le
speranze di Lombardia; dove si sperava, per l'acquisto di Cremona, condurre a
fine la impresa di Genova e di potere, secondo i disegni fatti prima, fare due
diversi alloggiamenti intorno a Milano. Perché dopo la rotta ricevuta a Siena,
non sperando il pontefice potere travagliare con grandi effetti i Colonnesi, e
avendo volto l'animo ad assaltare con maggiori forze, come è detto, il regno di
Napoli, e da altro canto non sperando i Colonnesi né gli agenti di Cesare
potere fare effetti notabili contro a lui, e desiderando ancora di torgli tempo
insino a tanto venisse il viceré con l'armata di Spagna, mandato a Roma
Vespasiano Colonna, alla fede del quale il papa credette, avevano, a' ventidue
di agosto, capitolato insieme: che i Colonnesi rendessino Anagnia e gli altri
luoghi presi; ritirassino le genti nel reame di Napoli, né tenessino più
soldati nelle terre le quali posseggono nel dominio ecclesiastico; non
pigliassino l'armi a offesa del pontefice se non come soldati di Cesare, nel
quale caso fussino tenuti a deporre in mano del pontefice gli stati che hanno
nella giurisdizione ecclesiastica; potessino liberamente servire Cesare contro
a ciascuno alla difensione del reame napoletano; e da altro canto il pontefice
perdonasse a tutti l'offese fatte, abolisse il monitorio fatto al cardinale
Colonna, non offendesse gli stati loro né gli lasciasse offendere dagli Orsini.
Sotto la quale capitolazione mentre che il papa, tenendo conto più che di altro
della fede di Vespasiano, incauto si riposa, avendo licenziato i cavalli e
quasi tutti i fanti che aveva soldato, e quegli pochi che gli restavano mandati
ad alloggiare nelle terre circostanti, e raffreddato anche i disegni dello
assaltare il regno di Napoli, le spesse querele e protesti che avevano da
Cremona e da Genova (donde era significato che, se i progressi de' confederati
non si interrompevano con potente diversione, quelle città non potevano più
sostenersi); però, non avendo modo a fare scopertamente guerra gagliarda e che
partorisse rimedi sì subiti, volsono l'animo e i pensieri a opprimere con
insidie il pontefice.
Le quali mentre
che si preparano, acciò che alla afflizione che aveva per le cose proprie si
aggiugnesse anche l'afflizione per le cose publiche, sopravenneno nuove che
Solimanno ottomanno principe de' turchi aveva rotto in battaglia ordinata
Lodovico re di Ungheria, conseguendo la vittoria non manco per la temerità
degli inimici che per le forze sue; perché gli ungheri, ancora che pochissimi
di numero a comparazione di tanti inimici, confidatisi più nelle vittorie avute
qualche volta per il passato contro a' turchi che nelle cose presenti,
persuasono al re, giovane di età ma di consiglio anche inferiore alla età, che
per non oscurare la fama e l'antica gloria militare de' popoli suoi, non
aspettato il soccorso che veniva di Transilvania, si facesse incontro agli
inimici, non recusando anche di combattere in campagna aperta, nella quale i
turchi per la moltitudine innumerabile de' cavalli sono quasi invitti.
Corrispose adunque l'evento alla temerità e imprudenza: fu rotto l'esercito
raccolto di tutta la nobiltà e uomini valorosi di Ungheria, commessa di loro
grandissima uccisione, morto il re medesimo e molti de' principali prelati e
baroni del regno. Per la quale vittoria tenendosi per certo che il turco avesse
a stabilire per sé tutto il regno di Ungheria con grandissimo pregiudizio di
tutta la cristianità, della quale quello reame era stato moltissimi anni lo
scudo e lo antemurale, si commosse il pontefice maravigliosamente: come negli
animi già perturbati e afflitti fanno maggiore impressione i nuovi dispiaceri
che non fanno negli animi vacui dalle altre passioni. Però, rivolgendo nella
mente sua nuovi pensieri, e dimostrando ne' gesti nelle parole e nella effigie
del volto smisurato dolore, chiamati i cardinali in concistorio, si lamentò
efficacissimamente con loro di tanto danno e ignominia della republica
cristiana; alla quale non era mancato egli di provedere, sì col confortare e
supplicare assiduamente i prìncipi cristiani della pace sì col soccorrere in
tanti altri gravi bisogni suoi quel regno di non piccola quantità di denari.
Essere stata, per la difesa di quel regno e per il pericolo del resto de'
cristiani, molto incomoda e importuna la guerra presente, e averlo egli detto e
conosciuto insino da principio; ma la necessità averlo indotto (poiché vedeva
essere sprezzate tutte le condizioni oneste della quiete e sicurtà della sedia
apostolica e di Italia) a pigliare l'armi, contro a quello che sempre era stata
sua intenzione: perché e la neutralità usata per lui innanzi a questa
necessità, e le condizioni della lega che aveva fatta, risguardanti tutte al
benefizio comune, dimostrare a bastanza non lo avere mosso alcuna
considerazione degli interessi propri e particolari suoi e della sua casa. Ma
poiché a Dio, forse a qualche buono fine, era piaciuto che e' fusse ferito il
corpo della cristianità, e in tempo che tutti gli altri membri di questo corpo erano
distratti da altri pensieri che da quello della salute comune, credere la
volontà sua essere che per altra via si cercasse di sanare sì grave infermità.
E però, toccando questa cura più allo offizio suo pastorale che ad alcuno
altro, avere disposto, posposte tutte le considerazioni della incomodità del
pericolo e della dignità sua, procurata il più presto potesse e con qualunque
condizione una sospensione dell'armi in Italia, salire in su l'armata e andare
personalmente a trovare i prìncipi cristiani, per ottenere da loro, con
persuasioni con prieghi con lagrime, la pace universale de' cristiani.
Confortare i cardinali ad accingersi a questa espedizione, e ad aiutare il
padre comune in sì pietoso offizio; pregare Dio che fusse favorevole a sì santa
opera: la quale quando per i peccati comuni non si potesse condurre a
perfezione, gli piacesse almeno concedergli grazia che, nel trattarla, innanzi
ne fusse escluso dalla speranza gli sopravenisse la morte; perché nissuna
infelicità nissuna miseria gli potrebbe essere maggiore che perdere la speranza
e la facoltà di potere porgere la mano salutare in incendio tanto pernicioso e
tanto pestifero. Fu udita con grande attenzione ed eziandio con non minore
compassione la proposta del pontefice, e commendata molto; ma sarebbe stata
commendata anche molto più se le parole sue avessino avuta tanta fede quanta in
sé avevano degnità; perché la maggiore parte de' cardinali interpretava che,
avendo prese l'armi contro a Cesare nel tempo che già, per le preparazioni
palesi de' turchi, era imminente e manifesto il pericolo dell'Ungheria, lo
commovesse più la difficoltà nella quale era ridotta la guerra che il pericolo
di quel reame: di che non si potette fare vera esperienza.
Perché i
Colonnesi, cominciando a eseguire la perfidia disegnata, avevano mandato Cesare
Filettino seguace loro con dumila fanti ad Anagnia, dove per il pontefice erano
dugento fanti pagati; con dimostrazione, per occultare i loro pensieri, di
volere pigliare quella terra. Ma avendo in fatto altro animo, occupati tutti i
passi, e fatto estrema diligenza che a Roma non venissino altri avvisi de'
progressi loro, raccolte le genti mandate intorno ad Anagnia, e con quelle e
con l'altre loro, che erano in tutto circa ottocento cavalli e tremila fanti,
ma quasi tutte genti comandate, camminando con grande celerità, né si
presentendo in Roma cosa alcuna della venuta loro, arrivativi la notte che
precedeva il dì vigesimo di settembre, preseno improvisamente tre porte di
Roma; ed entrati per quella di San Giovanni Laterano, essendovi in persona non
solo Ascanio e don Ugo di Moncada, perché il duca di Sessa era morto molti
giorni innanzi a Marino, ma ancora Vespasiano, stato mezzano della concordia e
interpositore, per sé e tutti gli altri, della sua fede, e il cardinale Pompeio
Colonna, traportato tanto dalla ambizione e dal furore che avesse cospirato
nella morte violenta del pontefice, disegnando anche, come fu comune e costante
opinione, costretti con la violenza e con l'armi i cardinali a eleggerlo,
occupare con le mani sanguinose e con l'operazioni scelerate e sacrileghe la
sedia vacante del pontefice. Il quale, intesa che già era giorno la venuta
loro, che già erano raccolti intorno a San Cosimo e Damiano, pieno di terrore e
di confusione, cercava, vanamente, di provedere a questo tumulto; perché né
aveva forze proprie da difendersi, né il popolo di Roma, parte lieto de' suoi
sinistri parte giudicando non attenere a sé il danno publico, faceva segno di
muoversi. Perciò, accresciuto l'animo degli inimici, venuti innanzi, si
fermorono con tutte le genti a Santo Apostolo, donde spinseno per ponte Sisto
in Trastevere circa cinquecento fanti con qualche cavallo; i quali, ributtato
dopo qualche resistenza Stefano Colonna di Pilestrina dal portone di Santo
Spirito, che soldato del pontefice era ridotto quivi con dugento fanti, si
indirizzorono per Borgo vecchio alla volta di San Piero e del palazzo
pontificale, essendovi ancora dentro il pontefice. Il quale, invano chiamando
l'aiuto di Dio e degli uomini, inclinando a morire nella sua sedia, si
preparava, come già aveva fatto Bonifazio ottavo nello insulto di Sciarra
Colonna, di collocarsi con l'abito e con gli ornamenti pontificali nella
cattedra pontificale; ma rimosso con difficoltà grande da questo proposito dai
cardinali che gli erano intorno, che lo scongiuravano a muoversi, se non per sé
almanco per la salute di quella sedia e perché nella persona del suo vicario
non fusse sì sceleratamente offeso l'onore di Dio, si ritirò insieme con alcuni
di loro, de' suoi più confidenti, in Castello, a ore diciassette, e in tempo
che già non solo i fanti e i cavalli venuti prima ma eziandio tutto il resto
della gente saccheggiavano il palazzo e le cose e ornamenti sagri della chiesa
di San Piero: non avendo maggiore rispetto alla maestà della religione e allo
orrore del sacrilegio che avessino avuto i turchi nelle chiese del regno di
Ungheria. Entrorono dipoi nel Borgo, del qual saccheggiorono circa la terza
parte; non procedendo più oltre per timore dell'artiglierie del Castello.
Sedato poi il tumulto, che durò poco più di tre ore perché in Roma non fu fatto
danno o molestia alcuna, don Ugo, sotto la fede del pontefice e ricevuti per
statichi della sicurtà sua i cardinali Cibo e Ridolfi nipoti cugini del
pontefice, andò a parlargli in Castello; dove usate parole convenienti a
vincitore, propose condizioni di tregua. Sopra che, essendo differita la
risposta al dì seguente, fu conchiusa la concordia, cioè tregua, tra il
pontefice in nome suo e de' confederati e tra Cesare, per quattro mesi, con
disdetta di due altri mesi, e con facoltà a' confederati di entrarvi infra due
mesi; nella quale fussino inclusi non solo lo stato ecclesiastico e il regno di
Napoli ma eziandio il ducato di Milano i fiorentini i genovesi i sanesi e il
duca di Ferrara, e tutti i sudditi della Chiesa mediate e immediate. Fusse
obligato il pontefice ritirare subito di qua da Po le genti sue che erano
intorno a Milano, e rivocare dall'armata Andrea Doria con le sue galee, e gli
imperiali e i Colonnesi a levare le genti di Roma e di tutto lo stato della
Chiesa e ritirarle nel reame di Napoli; perdonare a Colonnesi e a chiunque
fusse intervenuto in questo insulto; dare per statichi della osservanza Filippo
Strozzi e uno de' figliuoli di Iacopo Salviati, il quale si obligò a mandarlo a
Napoli infra due mesi, sotto pena di trentamila ducati. Alla quale tregua
concorse l'una parte e l'altra cupidamente: il pontefice per non essere in
Castello vettovaglia da sostentarsi; don Ugo, benché reclamando i Colonnesi,
perché gli pareva fatto assai a benefizio di Cesare, e perché quasi tutta la
gente con che era entrato in Roma, carica della preda, si era dissipata in
diverse parti.
Da questa
tregua si interroppeno tutti i disegni di Lombardia e tutto il frutto della
vittoria di Cremona: perché non ostante che, quasi ne' medesimi dì, arrivasse
allo esercito con le lancie franzesi il marchese di Saluzzo, nondimeno,
mancando le genti del pontefice, che per la tregua, il settimo dì di ottobre,
si ritirorono la maggiore parte a Piacenza, si disordinò non meno il disegno
del mandare gente a Genova che il disegno fatto di strignere Milano con due
eserciti. Dette anche qualche disturbo che il duca d'Urbino, fatto che ebbe
l'accordo con quegli di Cremona, non aspettata la consegnazione andò in
mantovano, ancora che già sapesse la tregua fatta a Roma, a vedere la moglie; e
avendo consentito alle genti che erano in Cremona prorogazione di tempo a
partirsi, aspettò la partita loro intorno a Cremona tanto tempo che non fu allo
esercito prima che a mezzo il mese di ottobre, con gravissimo detrimento di
tutte le faccende; perché si trattava di mandare gente a Genova, ricercate più
che mai da Pietro Navarra e dal proveditore dell'armata viniziana, ed essendo
nello esercito, ricongiunte vi fussino le genti viniziane, tante forze che
bastavano a fare questo effetto senza partirsi di quello alloggiamento. Perché
e col marchese di Saluzzo erano venute cinquecento lancie e quattromila fanti,
e vi si aspettavano di giorno in giorno i duemila fanti grigioni condotti per
l'accordo che si fece con loro; e il pontefice, ancora che facesse palese
dimostrazione di volere osservare la tregua, nondimeno, avendo occultamente
diversa intenzione, aveva lasciato nello esercito quattromila fanti sotto
Giovanni de' Medici, sotto pretesto che fussino pagati dal re di Francia: scusa
che aveva apparente colore, perché Giovanni de' Medici era continuamente
soldato del re, e sotto suo nome riteneva la compagnia delle genti d'arme.
Partironsi finalmente le genti di Cremona, della quale città fu consegnata la
possessione a Francesco Sforza; e i tedeschi col capitano Curadino se ne
andorono alla volta di Trento: ma i cavalli e i fanti spagnuoli, avendo passato
Po per tornarsene nel regno di Napoli, ed essendo fatta loro qualche difficoltà
dal luogotenente di concedere le patenti e i salvocondotti sufficienti (perché
era molesto al pontefice che andassino a Napoli), preso allo improviso il
cammino per la montagna di Parma e di Piacenza, e dipoi ripassato con celerità
il Po alla Chiarella, si condussono salvi nella Lomellina e dipoi a Milano. Né
solo partì dalle mura di Milano, per l'osservanza della tregua, il luogotenente
con le genti del pontefice, ma eziandio si discostò da Genova Andrea Doria con le
sue galee: contro alle quali erano, pochi dì prima, usciti di Genova seimila
fanti tra pagati e volontari (perché in Genova erano quattromila fanti pagati),
con ordine di assaltare prima secento fanti, i quali con Filippino dal Fiesco
erano in terra, sperando che rotti quegli le galee, perché il mare era molto
turbato, non si potessino salvare; ma Filippino aveva fatto, nella sommità
delle montagne appresso a Portofino, tali fortificazioni di ripari e di
bastioni che gli costrinse a ritirarsi con non piccolo danno. E nondimeno, non
molti dì poi, non so sotto quale colore, Andrea Doria con sei galee ritornò a
Portofino, per continuare insieme con gli altri nell'assedio marittimo di
Genova.
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