XVII. Brevi del pontefice a Cesare e risposte di questo; offerte del
generale di San Francesco al pontefice di trattare la tregua a nome di Cesare;
trattative di tregua e provvedimenti di guerra del pontefice; mutamento di
contegno del viceré verso il pontefice. Maggiori esigenze di Cesare per la pace
coi collegati. Capitolazione del duca di Ferrara con Cesare.
Nella quale
freddezza delle cose di Lombardia, procedente non tanto dalla stagione
asprissima dell'anno quanto dalla difficoltà che aveva Borbone di pagare le
genti, per la quale erano, per la provisione de' denari, vessati e tormentati
maravigliosamente i milanesi (per la quale necessità Ieronimo Morone, condannato
alla morte, compose, la notte precedente alla mattina destinata al supplicio,
di pagare ventimila ducati, al quale effetto era stata fatta la simulazione di
decapitarlo; co' quali uscito di carcere diventò subito, col vigore del suo
ingegno, di prigione del duca di Borbone suo consigliere e, innanzi passassino
molti dì, quasi assoluto suo governatore), erano tra il papa e il viceré grandi
i trattati di tregua o di pace; ma più veri e più sostanziali i disegni del
viceré di fare la guerra, preso animo, poi che fu arrivato a Gaeta, dai
conforti de' Colonnesi e dallo intendere che il pontefice, perduto totalmente
d'animo ed esausto di denari, appetiva grandemente l'accordo, e predicando a
tutti la sua povertà e il suo timore, né volendo creare cardinali per denari
come era confortato da tutti, accresceva l'ardire e la speranza di chi
disegnava di offenderlo. Perché il pontefice, il quale non era entrato nella
guerra con la costanza dell'animo conveniente, aveva scritto insino il vigesimo
sesto dì di giugno [un brieve a Cesare] acerbo e pieno di querele, escusandosi
di essere stato necessitato da lui alla guerra; ma parendogli, poi che l'ebbe
espedito, che fusse troppo acerbo, ne scrisse subito un altro più mansueto,
commettendo a Baldassare da Castiglione suo nunzio che ritenesse il primo; il
quale, già arrivato, era stato presentato il decimosettimo dì di settembre; fu
dipoi presentato l'altro, e Cesare separatamente, benché in una espedizione
medesima, rispose all'uno e all'altro secondo le proposte: allo acerbo
acerbamente, al dolce dolcemente. Aveva avidamente prestato orecchi al generale
di San Francesco, il quale, andandosene, quando si mosse la guerra, in Spagna,
ebbe dal papa imbasciate dolci a Cesare; e di nuovo ritornato a Roma, per
commissione di Cesare, aveva riferito assai della sua buona mente: e che
sarebbe contento venire in Italia con cinquemila uomini e, presa la corona
dello imperio, passare subito in Germania per dare forma alle cose di Luter,
senza parlare del concilio; accordare co' viniziani con oneste condizioni;
rimettere in due giudici diputati dal papa e da lui la causa di Francesco
Sforza, il quale se fusse condannato, dare quello stato al duca di Borbone;
levare lo esercito di Italia, pagando il papa e i viniziani trecentomila scudi o
più per le paghe corse (pure, che questo si tratterebbe per ridurlo a somma più
moderata); restituire al re i figliuoli, avuto da lui in due o più termini due
milioni d'oro: mostrava essere facile lo accordare col re d'Inghilterra, per
non essere somma grande e il re di Francia averla già offerta. E per trattare
queste cose, le quali il pontefice comunicò tutte con gli oratori franzesi e
viniziani, offeriva il generale tregua per otto o dieci mesi, dicendo avere da
Cesare il mandato amplissimo in sé e nel viceré o in don Ugo. Per la quale
esposizione il pontefice, udito Pignalosa e intesa la partita del viceré dal
Porto di Santo Stefano, mandò il generale a Gaeta per trattare seco; perché e i
viniziani non arebbono recusata la tregua, pure che vi avesse consentito il re
di Francia: il quale non se ne dimostrava alieno, anzi la madre aveva mandato a
Roma Lorenzo Toscano, dimostrando inclinazione alla concordia nella quale
fussino compresi tutti. E parendogli nissuna pratica potere essere bene sicura
senza la volontà di Borbone, mandò a lui per le medesime cagioni uno suo
limosiniere che era a Roma; il quale il duca poco dipoi rimandò al pontefice a
trattare. E nondimeno, nel tempo medesimo, non abbandonando la provisione
dell'armi, mandò Agostino Triulzio cardinale legato allo esercito di Campagna;
e preparandosi ad assaltare eziandio per mare il regno di Napoli, e per difesa
propria, arrivò, il terzo di dicembre, a Civitavecchia Pietro Navarra, con
ventotto galee del pontefice de' franzesi e de' viniziani: nel quale tempo, o
poco poi, era, con l'armata delle vele quadre arrivato Renzo da Ceri a Savona,
mandato dal re di Francia per cagione della impresa disegnata contro al reame
di Napoli. E da altro canto, Ascanio Colonna con dumila fanti e trecento
cavalli venne in Valbuona, a quindici miglia di Tivoli, dove sono terre dello
abate di Farfa e di Giangiordano. Mandò anche il pontefice, pochi dì poi,
l'arcivescovo di Capua al viceré; il quale anche, insino al vigesimo dì di
ottobre, aveva mandato a Napoli, sotto nome delle cose degli statichi, e
particolarmente di Filippo Strozzi. Ma il viceré, intesa la debolezza del
pontefice, non parlava più umanamente. Preseno a' dodici di dicembre i
Colonnesi, co' quali era il cardinale, Cepperano, che non era guardato, e le genti
loro sparse per le castella di Campagna; e da altro canto Vitello, con le genti
del pontefice, ridotto fra Tivoli, Palestrina e Velletri. Presono poi
Pontecorvo, non guardato, e Ascanio poi dette la battaglia invano a Scarpa,
castello della badia di Farfa, luogo piccolo e debole: ed egli e il cardinale
con quattromila fanti correvano per Campagna, ma ributtati da qualunque voleva
difendersi. Accostossi dipoi Cesare Filettino con mille cinquecento fanti, di
notte, ad Alagnia; nella quale intromessi già furtivamente da alcuni uomini
della terra cinquecento fanti, per una casa congiunta alle mura, furono
ributtati da Gianlione da Fano, capo de' fanti che vi aveva il pontefice. Tornò
poi il generale dal viceré, e riportò che egli consentirebbe alla tregua per
qualche mese, acciò che intratanto si trattasse la pace, ma dimandare denari e,
per sicurtà, le fortezze di Ostia e di Civitavecchia. Ma in contrario di lui
scrisse l'arcivescovo di Capua (giunto a Gaeta dopo la partita sua, e forse
mandatovi con malo consiglio dal pontefice) che il viceré non voleva, più
tregua ma pace col pontefice solo o con il pontefice e co' viniziani,
pagandogli denari per mantenere lo esercito per sicurtà della pace, e poi
trattare tregua con gli altri: o perché veramente avesse mutato sentenza o per
le persuasioni, come molti dubitorono, dello arcivescovo.
Nel quale tempo
Paolo da Arezzo, arrivato alla corte di Cesare co' mandati del pontefice, de'
viniziani e di Francesco Sforza (dove anche il re di Inghilterra volle che per
la medesima causa della pace andasse l'auditore della camera, perché vi era
anche prima il mandato del re di Francia), lo trovò variato di animo, per avere
avuto avviso della arrivata de' tedeschi e dell'armata in Italia. Però,
partendosi dalle condizioni ragionate prima, dimandava che il re di Francia
osservasse in tutto l'accordo di Madril, e che la causa di Francesco Sforza si
vedesse per giustizia da i giudici deputati da lui. Così la intenzione di
Cesare riceveva variazione dai successi delle cose; e le commissioni date lui
a' ministri suoi che erano in Italia avevano, per la distanza del luogo, o
espressa o tacita condizione di governarsi secondo la varietà de' tempi e delle
occasioni. Però il viceré, avendo deluso più dì con pratiche vane il pontefice,
né voluto consentire una sospensione d'armi per pochi dì, tanto si vedesse
l'esito di questo trattato, partì, a' venti, da Napoli per andare alla volta
dello stato della Chiesa, proponendo nuove condizioni estravaganti dello
accordo. Seguitò, l'ultimo dì dell'anno, la capitolazione del duca di Ferrara,
fatta per mezzo di uno oratore suo, col viceré e con don Ugo, che aveva il
mandato da Cesare; benché con poca sodisfazione di quello oratore, astretto
quasi con minacce e con acerbe parole dal viceré di consentire: che il duca di
Ferrara fusse obligato con la persona e con lo stato contro a ogni inimico di
Cesare; fusse capitano generale di Cesare in Italia con condotta di cento
uomini d'arme e di dugento cavalli leggieri, ma obligato a mettergli insieme
co' danari propri, i quali gli avessino a essere o restituiti o accettati ne'
conti suoi: che per la dota della figliuola naturale di Cesare, promessa al
figliuolo, ricevesse di presente la terra di Carpi e la fortezza di Novi,
appartenente già ad Alberto Pio, ma che le entrate, insino alla consumazione
del matrimonio, si compensassino con gli stipendi suoi; e che Vespasiano
Colonna e il marchese del Guasto rinunziassino alle ragioni vi pretendevano:
pagasse, recuperato che avesse Modona, dugentomila ducati, ma che in questi si
computassino quegli che dopo la giornata di Pavia aveva pagati al viceré; ma
non recuperando Modona gli fussino restituiti tutti i denari che prima aveva
sborsato: fusse Cesare obligato alla sua protezione, né potesse fare pace senza
comprendervi dentro lui, con l'assoluzione delle censure e delle pene incorse
poi che si era declarato confederato di Cesare; e delle incorse innanzi, fare
ogni opera per fargliene consentire. Così, nella fine dell'anno mille
cinquecento ventisei, tutte le cose si preparavano a manifesta guerra.
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