LIBRO DICIOTTESIMO.
I. L'anno mille cinquecento ventisette ricco di avvenimenti e di sciagure.
Movimenti delle milizie imperiali riunitesi nell'Emilia. Vicende di guerra
nello stato pontificio. Richieste di aiuti del pontefice ai collegati e al re
d'Inghilterra; dubbi dei collegati per le trattative del pontefice col viceré.
Sarà l'anno
mille cinquecento ventisette pieno di atrocissimi e già per più secoli non
uditi accidenti: mutazioni di stati, cattività di prìncipi, sacchi
spaventosissimi di città, carestia grande di vettovaglie, peste quasi per tutta
Italia grandissima; pieno ogni cosa di morte di fuga e di rapine. Alle quali
calamità nessuna difficoltà ritardava a dare il principio che le difficoltà che
aveva il duca di Borbone di potere muovere di Milano i fanti spagnuoli. Perché
avendo convenuto insieme che Antonio de Leva rimanesse alla difesa del ducato
di Milano con tutti i fanti tedeschi che prima vi erano (nella sostentazione
de' quali si erano consumati tutti i danari raccolti da' milanesi, e quegli
riscossi per virtù delle lettere che aveva portate di Spagna) e con mille
dugento fanti spagnuoli e con qualche numero di fanti italiani sotto Lodovico
da Belgioioso e altri capi, e forse con qualche parte dei fanti tedeschi,
restavano i fanti spagnuoli; i quali, non avendo ricevuti danari in nome di
Cesare, ma sostentati con le taglie e con le contribuzioni, e avendo in preda
le case e le donne de' milanesi, continuavano volentieri nel vivere con tanta
licenza; ma non potendo negarlo direttamente, dimandavano di essere prima
sodisfatti degli stipendi corsi insino a quello dì. Promessono finalmente di
seguitare la volontà del duca, ricevute prima da lui cinque paghe: ma era molto
difficile il farne provisione, non bastando né i minacci né il votare delle
case né le carceri a riscuotere danari da' milanesi: dove anche, per nutrire
l'esercito, erano citati gli assenti, e i beni di quelli che non comparivano
erano donati a' soldati. Finalmente, superate tutte le difficoltà, passorno le
genti imperiali, il penultimo dì di gennaio, il fiume del Po, e il seguente dì
una parte de' tedeschi, i quali prima avevano passata la Trebbia, ripassatala,
andorono ad alloggiare a Pontenuro; il resto dell'esercito si fermò di là da
Piacenza: essendo allo incontro il marchese di Saluzzo a Parma, e con tutte le
genti distese per il paese. E il duca di Urbino, venuto a Casalmaggiore (avendo
i viniziani rimesso in arbitrio suo il passare Po), cominciava a fare passare
le genti; affermando, in caso che gli imperiali andassino, come da Milano si
aveva avvisi, alla volta di Toscana, di volere passare in persona con seicento
uomini d'arme novemila fanti e cinquecento cavalli leggieri, ed essere prima di
loro a Bologna; e che il simile facesse, con la sua gente e con quella della
Chiesa, il marchese di Saluzzo. Soprastette l'esercito imperiale circa venti
dì, parte di qua parte di là da Piacenza, sopratenendolo in parte la difficoltà
de' denari (de' quali insino a quel dì non avevano i tedeschi avuto alcuno dal
duca di Borbone) parte l'avere egli inclinazione di porsi a campo a Piacenza,
forse più per le difficoltà del procedere innanzi che per altra cagione. Però
instava col duca di Ferrara che lo accomodasse di polvere per l'artiglierie e
che venisse a congiugnersi seco, offerendo mandargli incontro cinquecento
uomini d'arme e il capitano Giorgio con seimila fanti. Alla quale dimanda
rispose il duca essere impossibile mandargli la polvere per il paese inimico,
né potere senza pericolo tentare di unirsi seco per essere tutte le genti della
lega in luogo vicino; ma quando tutte queste cose fussino facili, dovere
considerare, Borbone, non potere fare cosa più comoda agli inimici e più
desiderata da loro che attendere a perdere tempo intorno a quelle terre a una a
una; e considerare, quando non pigliasse Piacenza, o se pure la pigliasse ma
con lunghezza di tempo, dove resterebbe la sua riputazione, dove il modo di
proseguire la guerra, avendo tanto mancamento di denari e di tutte le
provisioni: il benefizio di Cesare, la via unica della vittoria essere
camminare verso il capo, condursi, lasciato ogni altra impresa indietro, una
volta, a Bologna; donde potrebbe deliberare o di cercare di sforzare quella
terra, a che non gli mancherebbeno gli aiuti suoi, o di passare più innanzi
alla volta di Firenze o di Roma.
Le quali cose
mentre si trattano, e che Borbone provede a denari non solo per finire il
pagamento degli spagnuoli ma eziandio per dare qualche cosa a' fanti tedeschi,
a' quali credo che al partire da Piacenza desse due scudi per uno, era accesa
gagliardamente la guerra nello stato della Chiesa; essendo nel campo
ecclesiastico andato nuovamente Renzo da Ceri che era venuto di Francia, e il
campo del papa era vicino al viceré che era a' confini di Cepperano; dove
alcuni fanti italiani roppono trecento fanti spagnuoli. Ma nel modo della
difesa dello stato ecclesiastico era varietà di opinioni. Perché Vitello,
innanzi alla venuta di Renzo, aveva consigliato il pontefice che, abbandonata
la provincia della Campagna, si mettessino in Tivoli dumila fanti, in
Pelistrina dumila altri, e che il resto dello esercito si fermasse a Velletri
per impedire l'andata del viceré a Roma. La qual cosa essendo già deliberata,
Renzo, sopravenendo, dannò il riserrarsi in Velletri, per essere terra grande e
male reparabile, e per non lasciare procedere gli inimici tanto innanzi; ma che
l'esercito si fermasse a Fiorentino, che non avendo a guardare tanti luoghi
sarebbe più grosso, ed era luogo per proibire che gli inimici non venissino più
innanzi: il quale consiglio approvato, si messeno in Frusolone, residenza
principale della Campagna, lontano da Fiorentino cinque miglia, mille ottocento
fanti, di quegli di Giovanni de' Medici la più parte, che avevano preso il
cognome delle bande nere, con Alessandro Vitello, Giovambatista Savello e
Pietro da Birago condottieri di cavalli leggieri. Ma in questo mezzo i
Colonnesi avevano occultamente indotto Napolione Orsino, abbate di Farfa, a
pigliare l'armi in terra di Roma, come soldato di Cesare; la quale cosa
dissimulando il pontefice, al quale ne era penetrata occultamente la notizia, e
da chi prima aveva ricevuto danari, tiratolo con arte a andare a incontrare
Valdemonte, quando veniva di Francia, lo fece prendere appresso a Bracciano e
metterlo prigione in Castello Santangelo.
Attendeva il
pontefice a provedere danari, né gli bastando i modi ordinari vendeva i beni di
molte chiese e luoghi pii; e supplicando a' prìncipi, ottenne di nuovo dal re
di Inghilterra trentamila ducati, i quali gli portò maestro Rossello suo
cameriere: col quale venne Robadanges, con diecimila scudi mandati dal re di
Francia per conto della decima; la quale il papa stretto dalla necessità gli
aveva concesso, con promissione di dargli, oltre a' pagamenti de' quarantamila
scudi alla lega e de' ventimila al papa ciascuno mese, trentamila ducati di
presente e trentamila altri fra uno mese. Commesse anche il re di Inghilterra a
maestro Rossello che intimasse al viceré e al duca di Borbone una sospensione
d'armi, per dare tempo al trattato della pace che secondo la volontà di Cesare
si teneva in Inghilterra, altrimenti protestargli la guerra: e pareva allora
che quel re, cupido del matrimonio della figliuola col re di Francia,
inclinasse al favore de' collegati; il quale matrimonio subito che fusse
succeduto, prometteva di entrare nella lega e rompere la guerra in Fiandra.
Pareva anche molto inclinato particolarmente al beneficio del pontefice; ma non
si potevano sperare i rimedi pronti da uno principe che non misurava bene le
forze sue e le condizioni presenti d'Italia, e che anche non si era fermato in
una determinata volontà; ritirandolo sempre in parte la speranza datagli da
Cesare di mettere in sua mano la pratica della pace, benché non
corrispondessino gli effetti: perché essendo andato a lui per questo effetto
l'auditore della camera, ancora che Cesare si sforzasse di persuadergli con
molte arti questa essere la sua intenzione, nondimeno, aspettando di intendere
prima quel che per la passata de' tedeschi e dell'armata fusse succeduto in
Italia, non dava risposta certa, mettendo eccezione ne' mandati de' collegati
come se non fussino sufficienti. Mandò anche il re a Roma, per favorire la
impresa del regno di Napoli, Valdemonte fratello del duca del Loreno, che per
l'antiche ragioni del re Renato pretendeva alla successione di quello reame. Ma
al pontefice noceva appresso a confederati il trattare continuamente la
concordia col viceré, dubitando che a ogn'ora non convenisse seco, e però
parendo quasi inutile al re di Francia e a' viniziani tutto quello che
spendessino per sostenerlo: la quale suspizione accresceva il timore estremo
che appariva in lui e i protesti cotidiani di non potere più sostenere la
guerra, aggiunto all'ostinazione di non volere creare cardinali per denari, né
aiutarsi, in tanta necessità e in tanto pericolo della Chiesa, co' modi
consueti, eziandio nelle imprese ambiziose e ingiuste, agli altri pontefici.
Donde il re e i viniziani, per essere preparati a qualunque caso, si erano
particolarmente riobligati di non fare concordia con Cesare l'uno senza
l'altro; per la quale cagione il re, e per la speranza grande datagli dal re di
Inghilterra di fare con lui, se convenivano del parentado, movimenti grandi
alla prossima primavera, diventava più negligente a' pericoli d'Italia.
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