V. Sfiducia del pontefice per l'esito della guerra e per gli scarsi aiuti
del re di Francia e degli altri collegati; suoi timori per Firenze e per lo
stato della Chiesa; suoi accordi con i rappresentanti di Cesare. Incauti
provvedimenti del pontefice, troppo fiducioso negli accordi conchiusi;
ostinazione dell'esercito imperiale nel volere seguitare la guerra.
Inosservanza della tregua da parte dell'esercito imperiale. Il viceré,
rassicurato il pontefice, tratta a Firenze con inviati del Borbone.
In questo stato
essendo da ogni banda ridotte le cose, il pontefice, invilito per non avere
denari (alla quale difficoltà non voleva porre rimedio col creare nuovi
cardinali), invilito per non succedere secondo i primi disegni la impresa del
regno, perché già le genti sue per mancamento di vettovaglia si erano ritirate
a Piperno, invilito perché le provisioni de' franzesi amplissime di parole
riuscivano, ogni dì più, scarsissime di effetti, come continuamente avevano
fatto dal primo dì insino all'ultimo di tutta la guerra. Perché, oltre alla
tardità usata per il re in mandare il primo mese della guerra i quarantamila
ducati, in espedire le cinquecento lancie e l'armata marittima, oltre al non
avere voluto rompere, come era obligato, la guerra di là da' monti, disegnato
per uno de' fondamenti principali di ottenere la vittoria, mancò eziandio nelle
promesse fatte quotidianamente. Aveva promesso di pagare al pontefice, oltre
alla contribuzione ordinaria, ventimila ducati ciascuno mese, perché rompesse
la guerra al reame di Napoli; ed essendo dipoi succeduta la tregua fatta per lo
insulto di don Ugo e de' Colonnesi, confortandolo a non osservare la tregua,
gli aveva riconfermato la medesima promessa, per servirsene o per la guerra di
Napoli o per la difesa propria, e mandargli Renzo da Ceri, venuto appresso a
lui per la difesa di Marsilia in grande estimazione: le quali cose, benché
promesse insino al quinto dì di ottobre, si differirono tanto, per la tardità
loro per i pericoli terrestri e per gli impedimenti del mare, che Renzo non
prima che 'l quarto dì di gennaio arrivò a Roma senza danari, e dieci dì poi
arrivorono ventimila ducati; de' quali avendone ritenuti Renzo quattromila per
le spese fatte da sé e sua pensione, diecimila per la impresa dello Abruzzi,
soli seimila ne pervennono nel pontefice: il quale sotto queste promesse aveva,
quasi tre mesi innanzi, rotta la tregua. Promesse il re di pagargli per la
concessione della decima, fra otto dì, scudi venticinquemila e trentacinquemila
altri fra due mesi; ma di questi non ricevé mai il pontefice se non novemila
portati da Robadanges. Partì dal re di Francia, il duodecimo dì di febbraio,
Pagolo d'Arezzo; al quale, per dare maggiore animo alla guerra, promesse, oltre
a tutti i predetti, ducati ventimila: i quali, mandati dietro a Langes non
passorono mai Savona. Era obligato il re per i capitoli della confederazione a
mandare dodici galee sottili; diceva averne mandate sedici, ma il più del tempo
tanto male provedute e senza uomini da porre in terra che non partivano da
Savona: le quali se, nel principio che si roppe la guerra contro al reame di
Napoli, si fussino congiunte subito con le galee del pontefice e de' viniziani,
arebbono, secondo il giudicio comune, fatto grandissimi progressi. L'armata de'
grossi navili, certamente molto potente, benché molte volte promettesse
mandarla verso il regno, per quale si fusse cagione, non si discostò mai dalla
Provenza o da Savona; e dopo avere concorso a dare due paghe a' fanti del
marchese di Saluzzo, concordò co' viniziani, i quali tenevano minore numero di
gente che quelle alle quali erano obligati, che 'l pagamento loro si traesse
della contribuzione de' quarantamila ducati. E i conforti e gli aiuti del re di
Inghilterra erano troppo lontani e troppo incerti. Vedeva i viniziani tardi ne'
pagamenti delle genti; per colpa de' quali i fanti di Saluzzo e i svizzeri, che
alloggiavano in Bologna, erano quasi inutili. Spaventavano le variazioni e il
modo del procedere del duca d'Urbino, per la quale [cosa] conosceva non si
avere a fare ostacolo alcuno che l'esercito imperiale non passasse in Toscana;
donde, per la mala disposizione del popolo fiorentino, per lo avere i cesarei
aderente la città di Siena, comprendeva cadere in gravissimo pericolo lo stato
di Firenze ed eziandio quello della Chiesa. Queste ragioni lo commosseno:
benché dopo molte pratiche e fluttazioni di animo, perché conosceva anche
quanto fusse pernicioso e pericoloso il separarsi da' collegati e rimettersi
alla discrizione degli inimici. Nondimeno, non essendo aiutato a bastanza da
altri né volendo aiutarsi quanto arebbe potuto da se medesimo, e prevalendo in
lui il timore più presente, né sapendo fare con l'animo resistenza alle
difficoltà e a' pericoli, [si risolvé] ad accordare col Fieramosca e con
Serone, che erano in Roma per questo effetto in nome del viceré, di sospendere
l'armi per otto mesi, pagando allo esercito imperiale sessantamila ducati:
restituissensi le cose tolte della Chiesa e del regno di Napoli e de'
Colonnesi, e a Pompeio Colonna la degnità del cardinalato, con l'assoluzione
dalle censure (delle quali condizioni niuna fu più grave al pontefice, e alla
quale condiscendesse con maggiore difficoltà): e avessino facoltà il re di Francia
e i viniziani a entrarvi fra certo tempo; nel quale entrandovi, uscissino i
fanti tedeschi di Italia; non vi entrando, uscissino dello stato della Chiesa
ed eziandio di quello di Ferrara: pagassensi quarantamila ducati a' ventidue
del presente, il resto per tutto il mese; e che il viceré venisse a Roma: il
che al papa pareva quasi uno assicurarsi della osservanza di Borbone.
Fatto
l'accordo, si richiamorono subito da ciascuna delle parti tutte le genti e
l'armata del mare, e si restituirono le terre occupate, procedendo il pontefice
con buona fede alla osservanza (le condizioni del quale erano molto superiori
nel regno di Napoli); ma all'Aquila i figliuoli del conte di Montorio,
diffidando potervi stare sicuri altrimenti, liberorono il padre, il quale
subito, col favore della fazione imperiale, ne scacciò i figliuoli e la fazione
avversa. Arrivò poi il viceré a Roma; per la venuta del quale il pontefice,
giudicandosi assicurato del tutto della osservanza della concordia, licenziò con
pessimo consiglio tutte le genti che nelle parti di Roma erano agli stipendi
suoi, riservandosi solamente cento cavalli leggieri e dumila fanti delle bande
nere: dandogli a questo maggiore animo il persuadersi che il duca di Borbone
fusse inclinato alla concordia, per le difficoltà che aveva a procedere nella
guerra (perché sempre aveva dimostrato a lui desiderarla) e per una sua lettera
al viceré, intercetta dal luogotenente, per la quale lo confortava a concordare
col pontefice quando si potesse farlo con onore di Cesare. Al quale ritornò,
pochi dì dopo la giunta del viceré, a significare le cose fatte e a trattare
della pace [il generale di San Francesco].
Ma molto
diversamente procedevano le cose intorno a Bologna: perché avendo il pontefice,
subito dopo la stipulazione della tregua, espedito Cesare Fieramosca a Borbone
perché approvasse la concordia, e ricevuto che avesse i danari levasse
l'esercito del territorio della Chiesa, si scopersono, forse in Borbone ma
senza dubbio ne' soldati, infinite difficoltà, dimostrandosi ostinati a volere
seguitare la guerra, o perché s'avessino proposto speranza di grandissimo
guadagno o perché i danari promessi del pontefice non bastassino a sodisfargli
di due paghe; e però molti credettono che se fussino stati centomila ducati
arebbono facilmente accettata la tregua. Quel che ne fusse la cagione certo è
che, dopo la venuta del Fieramosca, non cessavano di predare il bolognese come
prima e fare tutte le dimostrazioni degli inimici; e nondimeno Borbone, il
quale faceva fare le spianate verso Bologna, e il Fieramosca davano speranza al
luogotenente che non ostante tutte le difficoltà l'esercito accetterebbe la
tregua, affermando Borbone essere necessitato a fare le spianate per
intrattenere l'esercito con la speranza del procedere innanzi, insino a tanto
l'avesse ridotto al desiderio suo, il quale era di conservarsi amico del
pontefice. E nondimeno, nel tempo medesimo, venivano, per ordine del duca di
Ferrara, allo esercito provisioni di farine guastatori carri polvere e
instrumenti simili; il quale si gloriò poi né i danari dati loro né tutti
questi aiuti passare il valore di sessantamila ducati. E da altra parte, il
duca di Urbino, simulando di temere che quello esercito, accettata la tregua,
non si volgesse al Pulesine di Rovigo, ritirò le genti viniziane di là dal Po a
Casale Maggiore.
Stettono così
sospese le cose otto dì. Finalmente, o perché questa fusse stata sempre la
intenzione del duca di Borbone o perché non fusse in potestà sua comandare
all'esercito, scrisse Borbone al luogotenente che la necessità lo costrigneva,
poiché non poteva ridurre alla volontà sua i soldati, di camminare innanzi; e
così mettendo a esecuzione andò, il dì seguente che fu l'ultimo dì di marzo, ad
alloggiare al ponte a Reno, con tanto ardore della fanteria che venendo nel
campo uno uomo mandato dal viceré per sollecitare Borbone che accettasse la
tregua sarebbe, se non si fusse fuggito, stato ammazzato dagli spagnuoli. Ma
maggiore fu la dimostrazione contro al marchese del Guasto; il quale, essendosi
partito dallo esercito per andare nel reame di Napoli, mosso o da
indisposizione della persona o per non contravenire, secondo che scrisse al
luogotenente, alla volontà di Cesare come gli altri, o da altra cagione, fu
bandito dallo esercito per rebelle. Per la venuta del duca di Borbone al ponte
a Reno, il marchese di Saluzzo e il luogotenente, essendo già certi che gli
inimici andavano verso la Romagna, lasciata una parte de' fanti italiani alla
guardia di Bologna, non senza difficoltà di condurre i svizzeri (per il
pagamento de' quali fu necessitato il luogotenente prestare a Giovanni Vitturio
diecimila ducati), si indirizzorono, la notte medesima, col resto dello
esercito a Furlì, dove entrorono il terzo dì di aprile, lasciato in Imola
presidio sufficiente a difenderla. Sotto la quale città passò, il quinto dì, il
duca di Borbone per alloggiare più basso sotto la strada maestra. Ma come a
Roma pervenne la certezza che Borbone non aveva accettata la tregua, il viceré,
dimostrandone grandissima molestia, e persuadendosi che, secondo aveva ricevuto
gli avvisi primi, procedesse perché fusse necessaria maggiore somma di danari,
mandò uno suo uomo a offerire, di più, ventimila ducati, quali pagava delle
entrate di Napoli; ma dipoi, inteso essere stato in pericolo, partì il terzo dì
d'aprile da Roma per abboccarsi con Borbone, avendo promesso al pontefice che
costrignerebbe Borbone ad accettare la tregua, se non con altro modo, col
separare da lui le genti d'arme e la maggiore parte de' fanti spagnuoli. Ma
arrivato a sei dì in Firenze, si fermò quivi per trattare con uomini mandati da
Borbone, come in luogo più opportuno; essendo già certo non si potere fermare
lo esercito se non pagandogli molto maggiore somma di denari, e avendo questi a
pagarsi da' fiorentini, sopra i quali il pontefice aveva lasciato tutto il
carico di provedervi.
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