VI. Vanità delle speranze del pontefice per la conclusione della tregua;
opera del suo luogotenente perché non sia abbandonato dai collegati; incertezza
di questi. Terre di Romagna prese dal Borbone; comunicazione del viceré al
Borbone della conferma della capitolazione conchiusa a Roma. Il Borbone passa
l'Apennino; il luogotenente del pontefice convince i collegati a passare in
Toscana; maggior sicurezza di Firenze e maggior pericolo per Roma. Il pontefice
fiducioso nella tregua licenzia le milizie.
Augumentavano
queste varietà sommamente le difficoltà e i pericoli del pontefice, anzi già
l'avevano augumentate molti dì: perché, nella incertitudine delle deliberazioni
del duca di Borbone e di quello che avesse a partorire la venuta del viceré,
aveva necessità degli aiuti de' collegati; i quali raffreddavano le azioni sue,
sollecitandogli in contrario la instanza e gli stimoli del suo luogotenente
perché il pontefice con tutte le parole e dimostrazioni manifestava il
desiderio sommo che aveva dello accordo e la speranza grande che aveva che per
l'opere del viceré dovesse succedere; e il luogotenente, da altro canto,
comprendendo per molti segni che la speranza del pontefice era vana, e
conoscendo che il raffreddarsi le provisioni de' collegati metteva in
manifestissimo pericolo le cose di Firenze e di Roma, faceva estrema instanza
col marchese di Saluzzo e co' viniziani per persuadere loro che l'accordo non
arebbe effetto e confortargli che, se non per rispetto di altri almanco per
interesse loro proprio, non abbandonassino le cose del pontefice e di Toscana;
né dissimulando, per avere maggiore fede, che il papa ardentemente desiderava e
cercava la tregua, e imprudentemente, non conoscendo le fraudi aperte degli
imperiali, vi sperava; e che quando bene, col dargli aiuto, non ottenessino
altro che facilitargli le condizioni dello accordo, essere questo a loro
grandissimo benefizio, perché il papa, aiutato da loro, accorderebbe per sé e
per i fiorentini con condizioni che nocerebbeno poco alla lega, abbandonato,
sarebbe costretto per necessità obligarsi a dare agli imperiali somma
grandissima di denari e qualche contribuzione grossa mensuale, che sarebbeno
quelle armi con le quali in futuro si farebbe la guerra contro a loro: e però
dovere, se non volevano nuocere a se stessi, qualunque volta Borbone si movesse
per offendere la Toscana, muoversi anche essi con tutte le forze loro per
difenderla. Stava molto perplesso il marchese di Saluzzo in questa
deliberazione; ma molto più vi stavano perplessi i viniziani, perché, scoperta
a tutti la pusillanimità del pontefice, tenevano per certo che, eziandio dopo
gli aiuti avuti di nuovo da loro, qualunque volta potesse conseguire lo accordo
lo abbraccierebbe senza rispetto de' confederati, e che però fussino astretti a
cosa molto nuova: aiutarlo per fargli facile il convenire con gli inimici
comuni. Consideravano che lo abbandonarlo causerebbe maggiore pregiudizio alle
cose comuni; ma giudicavano mettersi in manifesto pericolo le genti loro, tra
l'Apennino e gli inimici e nel paese già diventato avverso, se, mentre che
erano in Toscana, il pontefice stabilisse o di nuovo facesse l'accordo; e
poteva anche nel senato quella dubitazione che il pontefice non facesse
instanza che le genti loro passassino in Toscana, per costrignergli ad
accettare, per pericolo di non le perdere, la sospensione. Le quali perplessità
aveva con minore difficoltà rimosse il luogotenente dall'animo del marchese,
ancora che molti del suo consiglio, per timore di non mettere le genti in
pericolo, lo confortassino al contrario: però, come prima era stato pronto a
venire a Furlì così non recusava, se il bisogno lo ricercasse, di passare in
Toscana. Stavanne molto più sospesi i viniziani; i quali, per tenere il papa e
i fiorentini in qualche speranza e da altro canto essere pronti a pigliare i
partiti di giorno in giorno, ordinorno che il duca di Urbino partisse il quarto
dì di aprile da Casalmaggiore, mandando la cavalleria per la via di Po dalla
parte di là e la fanteria per il fiume. Il quale, dimostrando qualche timore
per la andata degli imperiali in Romagna, mandò dumila fanti de' viniziani a
guardia del suo stato; benché per molti si dubitasse, e per il pontefice
particolarmente, che secretamente non avesse promesso a Borbone di non gli dare
impedimento al passare in Toscana.
Il duca di
Borbone in questo mezzo, cercando da ogni parte vettovaglie, delle quali era in
somma necessità, mandò una parte dello esercito a Cotignuola: la quale terra
benché forte di muraglia, battuta che l'ebbe [con] pochi colpi, ottenne per
accordo: perché gli uomini della terra, come molti altri luoghi di Romagna,
temendo delle rapine de' soldati amici, gli avevano recusati. Presa Cotignuola,
mandò a Lugo i quattro cannoni; e per provedersi di vettovaglie e per
impedimento dell'acque, soprastette tre o quattro dì in su il fiume di Lamone;
dipoi, il terzodecimo dì di aprile, passato il Montone, alloggiò a Villafranca,
lontana cinque miglia da Furlì: nel quale dì il marchese di Saluzzo svaligiò
cinquecento fanti, quasi tutti spagnuoli, che andavano sbandati cercando da
vivere, verso Monte Poggiuoli, come andava per la necessità quasi tutto il
resto dello esercito. Alloggiò Borbone, il quartodecimo dì, sopra strada alla
volta di Meldola, cammino da passare in Toscana per la via di Galeata e di Val
di Bagno; sollecitandolo molto i sanesi, che gli offerivano copia di
vettovaglie e di guastatori; e camminando con l'abbruciare i tedeschi tutti i
paesi donde passavano, assaltorono la terra di Meldola, che si arrendé e
nondimeno fu abbruciata. Il quale dì ebbe la nuova che il viceré, con
consentimento del La Motta mandato a questo effetto da lui, aveva, il dì
dinanzi, capitolato in Firenze: che, non si partendo nelle altre cose anzi
riconfermando la capitolazione fatta in Roma, dovesse il duca di Borbone
cominciare infra cinque dì prossimi a ritirarsi con l'esercito e, che, subito
si fusse ritirato al primo alloggiamento, gli fussino pagati da' fiorentini
ducati sessantamila, a' quali il viceré ne aggiugneva ventimila; pagassinsegli
altri settantamila per tutto maggio prossimo, de' quali il viceré per cedola di
mano propria obligò Cesare a restituirne cinquantamila: ma questi ultimi non si
pagassino se prima non fusse liberato Filippo Strozzi, e assoluto Iacopo
Salviati dalla pena de' trentamila ducati, come il viceré aveva promesso al
pontefice, non ne' capitoli della tregua ma sotto semplici parole.
Non ritardò
questa notizia il duca di Borbone dallo andare innanzi, né la notizia ancora
che il viceré si era partito di Firenze per condursi a lui e per stabilire
tutte le cose che fussino necessarie: perché il viceré e per molte altre
cagioni desiderava la concordia, e perché (per quello che io ho udito da uomini
degni di fede) trattava che l'esercito si voltasse subito contro a' viniziani,
non per occupare le città del loro imperio ma per occupare la città medesima di
Vinegia; sperando, con le barche e con gli uomini periti di quella navigazione
che arebbe dal duca di Ferrara, e con le zatte che essi fabbricherebbono,
poterla opprimere. E benché il viceré avesse promesso a Roma di rimuovere da
Borbone la cavalleria e la maggiore parte de' fanti spagnuoli, nondimeno,
mentre che si trattava in Firenze, recusava di farlo, dicendo non volere essere
causa della ruina dello esercito di Cesare: anzi andò ad alloggiare il
sesto[decimo] dì, a Santa Sofia, terra della valle di Galeata suddita a'
fiorentini; e sforzandosi, con la celerità e con la fraude, di prevenire che
nel passare delle alpi non gli fusse fatto ostacolo alcuno (nelle quali, per il
mancamento delle vettovaglie, qualunque sinistro avesse avuto era bastante a
disordinarlo), avendo ricevuto, il decimo settimo dì, a San Piero in Bagno,
lettere dal viceré e dal luogotenente, della venuta sua, rispose all'uno e
all'altro di loro averlo quello avviso trovato in alloggiamento tanto disagiato
che era impossibile aspettarlo quivi, ma che il dì seguente l'aspetterebbe a
Santa Maria in Bagno sotto l'alpi: mostrandosi, massime nelle lettere al
luogotenente, desiderosissimo dello accordo e di fare conoscere al pontefice il
suo buono animo e la sua divozione, benché altrimenti avesse nella mente. Andò
il viceré il dì destinato; e il medesimo dì il luogotenente, insospettito del
camminare di Borbone, acciò che non prima entrassino gli inimici in Toscana che
il soccorso, persuaso al marchese di Saluzzo con molte ragioni l'andare
innanzi, e confutati efficacemente Giovanni Vitturio proveditore viniziano
appresso al marchese e gli altri (i quali, per timore che le genti non si
mettessino in pericolo, dimandavano che innanzi che si passasse in Toscana si
desse sicurtà per dugentomila ducati o pegni di fortezze), lo condusse con
tutte le genti a Berzighella: donde scrisse al pontefice avere tanto pronta la
disposizione del marchese che non dubitava più di farlo passare con le sue
genti in Toscana, e che teneva per certo che quelle de' viniziani farebbono il
medesimo; ma che quanto per la passata loro si assicuravano le cose di Firenze
tanto si mettevano in pericolo quelle di Roma, perché Borbone, non gli restando
altra speranza, sarebbe necessitato voltarsi a quella impresa, e trovandosi più
propinquo a Roma, sarebbe difficile che il soccorso che si mandasse pareggiasse
la sua prestezza, per passare in due alloggiamenti l'Apennino.
Al quale caso
essendosi anche prima preparati, co' viniziani e col duca d'Urbino, i
fiorentini, avevano dato speranza e poi promesso, in caso che le genti loro
passassino in Toscana, entrare nella lega, obligarsi a pagare certo numero di
fanti, e non accordare con Cesare eziandio quando volesse il pontefice; e al
duca d'Urbino, che passato il Po a Ficheruolo si era condotto a' tredici dì al
Finale e poi a Corticella, avevano, per Palla Rucellai mandato a trattare
queste cose, offerto di restituirgli le fortezze di Santo Leo e di Maiuolo.
Però fu manco difficile avere gli aiuti pronti come venne l'avviso che il
viceré non solo non aveva trovato nel luogo destinato il duca di Borbone (il
quale facendosi beffe di lui aveva, il dì medesimo, atteso a passare l'alpi) ma
ancora era stato in grave pericolo di non essere morto dai contadini del paese,
sollevati e tumultuosi per i danni e per le ingiurie ricevute dallo esercito:
perché il marchese ancora che il duca d'Urbino, tiratolo a parlamento a Castel
San Piero, cercasse di interporre o difficoltà o dilazione, fu pronto a passare
l'alpi, in modo che a' ventidue alloggiò al Borgo a San Lorenzo in Mugello; e
il duca di Urbino, non potendo onestamente discostarsene né volendo tirare a sé
tutto il carico, veduta la prontezza de' franzesi, e sapendosi i viniziani
essersi rimessi in lui (con commissione però, se subito che arrivasse in
Toscana i fiorentini non facessino la confederazione, di ripassare subito
l'esercito), passò ancora egli e alloggiò, il vigesimo quinto dì del mese, a
Barberino.
Borbone
intanto, passate il medesimo dì l'alpi, alloggiò alla Pieve a Santo Stefano; la
quale terra dallo assalto de' suoi si difese francamente: e al pontefice, per
intrattenerlo con le medesime arti e avere maggiore occasione di offenderlo,
mandò uno uomo suo a confermare il desiderio che aveva di accordare seco, ma
che veduta la pertinacia delle sue genti l'accompagnava per minore male; ma che
lo confortava a non rompere le pratiche dello accordo, né guardare in qualche
somma più di denari. Ma era superfluo l'usare col pontefice queste diligenze:
il quale, credendo troppo a quello desiderava, e troppo desiderando di
alleggerirsi della spesa, subito che ebbe avviso della conclusione fatta in
Firenze, con la presenza e consentimento del mandatario di Borbone, aveva
imprudentissimamente licenziati quasi tutti i fanti delle bande nere; e
Valdemonte, come in sicurissima pace, se ne era andato per mare alla volta di
Marsilia.
|