VII. Il Borbone presso ad Arezzo; deliberazioni dei collegati. Tumulto in
Firenze; pericolosa condizione della città; come il tumulto viene sedato;
calunnie contro il luogotenente del pontefice. Gravi conseguenze del tumulto
per le operazioni dei collegati. Nuova confederazione del pontefice col re di
Francia e coi veneziani.
Trovandosi
adunque tutti gli eserciti in Toscana, e intendendosi da i collegati che
Borbone era andato in uno dì dalla Pieve a Santo Stefano ad alloggiare alla
Chiassa presso ad Arezzo, che fu il vigesimoterzo dì, cammino di diciotto
miglia, si consultò tra' capitani, che convenneno a Barberino, quello che fusse
da fare, e facendo instanza molti di loro, e gli agenti del pontefice e de'
fiorentini, che gli eserciti uniti si trasferissino in qualche alloggiamento di
là da Firenze, per tôrre a Borbone la facoltà di accostarsi a quella città, fu
risoluto che il dì seguente, lasciate le genti per riposarle ne' medesimi
alloggiamenti, i capitani andassino a l'Ancisa lontana tredici miglia da
Firenze, per trasferirvi dipoi le genti se lo trovassino alloggiamento da fermarvisi
sicuramente, come affermava Federico da Bozzole autore di questo consiglio. Ma
essendo l'altro dì in cammino, e già propinqui a Firenze, uno accidente
improviso e da partorire, se non si fusse proveduto, gravissimi effetti, dette
impedimento grande a questa e all'altre esecuzioni che si sarebbeno fatte.
Perché, essendo
in Firenze grandissima sollevazione d'animo e quasi in tutto il popolo
malissima contentezza del presente governo, e instando la gioventù che, per
difendersi, secondo dicevano, da' soldati, i magistrati concedessino loro
l'armi, innanzi se ne facesse deliberazione, il dì ventisei, nato nella piazza
publica certo tumulto quasi a caso, la maggiore parte del popolo e quasi tutta
la gioventù armata cominciò a correre verso il palagio publico. E dette fomento
non piccolo a questo tumulto o la imprudenza o la timidità di Silvio cardinale
di Cortona; il quale avendo ordinato di andare insino fuora della città a
incontrare il duca di Urbino per onorarlo, non mutò sentenza, ancora che,
innanzi che si movesse, avesse inteso essere cominciato questo tumulto: donde
spargendosi per la città egli essere fuggito, furono molti più pronti a correre
al palazzo; il quale occupato dalla gioventù e piena la piazza di moltitudine
armata, costrinseno il sommo magistrato a dichiarare rebelli con solenne
decreto Ippolito e Alessandro nipoti del pontefice, con intenzione di
introdurre di nuovo il governo popolare. Ma intratanto, entrati in Firenze il
duca e il marchese con molti capitani e con loro il cardinale di Cortona e
Ippolito de' Medici, e messi in arme mille cinquecento fanti, che per sospetto
erano stati tenuti più dì nella città, fatta testa insieme si indirizzorono
verso la piazza; la quale, abbandonata subito dalla moltitudine, pervenne in
potestà loro: benché, tirandosi sassi e archibusi da quegli che erano nel
palagio, nessuno ardiva di fermarvisi, ma tenevano occupate le strade
circostanti. Ma parendo al duca d'Urbino le genti che erano in Firenze non
essere abbastanza a espugnare il palazzo e giudicando essere pericoloso, se non
si espugnasse innanzi alla notte, che il popolo ripreso animo non tornasse di
nuovo in su l'armi, deliberò, con consentimento di tre cardinali che erano
presenti, Cibo, Cortona e Ridolfi, e del marchese di Saluzzo e de' proveditori
viniziani, congregati tutti nella strada del Garbo contigua alla piazza,
chiamare una parte delle fanterie viniziane che erano alloggiate nel piano di
Firenze vicine alla città. Donde preparandosi pericolosa contesa, perché lo espugnare
il palazzo non poteva succedere senza la morte di quasi tutta la nobiltà che vi
era dentro, e anche era pericolo che, cominciandosi a mettere mano all'armi e
all'uccisioni, i soldati vincitori non saccheggiassino tutto il resto della
città, si preparava dì molto acerbo e infelice per i fiorentini; se il
luogotenente con presentissimo consiglio non avesse espedito questo nodo molto
difficile, perché avendo veduto venire inverso loro Federigo da Bozzole,
immaginandosi quel che era, partendosi subito dagli altri, se gli fece incontro
per essere il primo a parlargli: della quale cosa, benché paresse di niuno
momento, ebbe origine principale il liberarsi quel dì la città di Firenze da
così evidente pericolo. Era Federigo nel principio del tumulto andato in palagio,
sperando di quietare, con l'autorità sua e con la grazia che aveva appresso a
molti della gioventù, questo tumulto; ma non facendo frutto, anzi essendogli
dette da alcuni parole ingiuriose, non aveva avuto piccola difficoltà a
ottenere, dopo spazio di più ore, che lo lasciassino partire. Però uscito del
palagio pieno di sdegno, e sapendo quanto, per le piccole forze e piccolo
ordine che vi era, fusse facile di espugnarlo, veniva per incitare gli altri a
combatterlo subitamente. Ma il luogotenente, dimostrandogli con brevissime
parole quanto sarebbono molesti al pontefice tutti i disordini che
succedessino, e di quanto detrimento alle cose comuni de' confederati, e quanto
fusse meglio l'attendere più tosto a quietare che ad accendere gli animi, e perciò
essere pernicioso il dimostrare al duca di Urbino e agli altri tanta facilità
di espugnare il palagio, lo tirò senza difficoltà talmente nella sentenza sua
che Federico, parlando agli altri come precisamente volle il luogotenente,
propose la cosa in modo e dette tale speranza di posare le cose senza armi che,
eletta questa per migliore via, pregorono l'uno e l'altro di loro che andando
insieme in palazzo, attendessino a quietare il tumulto, assicurando ciascuno da
quello che potessino essere imputati di avere macchinato, il dì, contro allo
stato: dove andati, col salvocondotto di quegli che erano dentro, non senza
molta difficoltà, gli indusseno ad abbandonare il palagio il quale erano
inabili a difendere. Così, posato il tumulto, tornorono le cose allo essere di
prima. E nondimeno (come è più presente la ingratitudine e la calunnia che la
rimunerazione e la laude alle buone opere) se bene allora ne fusse il
luogotenente celebrato con somme laudi da tutti, nondimeno e il cardinale di
Cortona si lamentò, poco poi, che egli, amando più la salute de' cittadini che
la grandezza de' Medici, procedendo artificiosamente, fusse stato cagione che
in quel dì non si fusse stabilito in perpetuo, con l'armi e col sangue de'
cittadini, lo stato alla famiglia de' Medici; e la moltitudine poi lo calunniò
che, dimostrando, quando andò in palagio, i pericoli maggiori che non erano,
gli avesse indotti, per beneficio de' Medici, a cedere senza necessità.
La
tumultuazione di Firenze, benché si quietasse il dì medesimo e senza uccisione,
fu nondimeno origine di gravissimi disordini; e forse si può dire che se non
fusse stato questo accidente, non sarebbe succeduta quella ruina che poi
prestissimamente succedette: perché il duca di Urbino e il marchese di Saluzzo,
fermatisi in Firenze per la occasione di questo tumulto (benché senza
necessità), non andorono a vedere, secondo la deliberazione che era stata
fatta, l'alloggiamento dell'Ancisa; e il seguente dì Luigi Pisano e Marco
Foscaro, oratore veneto appresso a' fiorentini, veduta la instabilità della
città, protestorono non volere che l'esercito passasse Firenze se prima non si
conchiudeva la confederazione trattata, nella quale dimandavano contribuzione
di diecimila fanti, parendo loro tempo da valersi delle necessità de'
fiorentini. Ma si conchiuse finalmente il vigesimo ottavo dì, rimettendosi a
quella contribuzione che sarebbe dichiarata dal pontefice; il quale si credeva
che già si fusse ricongiunto co' collegati. Aggiunsesi che, essendo venuto il
tempo de' pagamenti de' svizzeri, né avendo Luigi Pisano, secondo le male
provisioni che facevano i viniziani, danari da pagargli, passò qualche dì
innanzi gli provedesse; in modo che si pretermesse il consiglio salutifero di
andare con gli eserciti ad alloggiare all'Ancisa.
Nel quale stato
delle cose il pontefice, inteso lo inganno usato al viceré da Borbone e la
passata sua in Toscana, volto per necessità a' pensieri della guerra, aveva
conchiuso, a' venticinque dì, di nuovo confederazione col re di Francia e co'
viniziani, obligandogli a sovvenirlo di grosse somme di denari, né volendo
obligare i fiorentini o sé ad altro che a quello che comportassino le loro
facoltà; allegando la stracchezza in che era l'uno e l'altro di loro per avere
speso eccessivamente. Le quali condizioni, benché gravi, approvate dagli
oratori de' confederati per separare totalmente il pontefice dagli accordi
fatti col viceré, non erano approvate da' principali: i viniziani improbavano
Domenico Venereo, oratore loro, di avere conchiuso senza commissione del senato
una confederazione di grave spesa e di piccolo frutto, per la vacillazione del
pontefice, il quale pensavano che a ogni occasione tornerebbe alla prima
incostanza e desiderio dello accordo, e il re di Francia esausto di danari, e
intento più a straccare Cesare con la lunghezza della guerra che alla vittoria,
giudicava bastare ora che la guerra si nutrisse con piccola spesa; anzi, se
bene nel principio, quando intese la tregua fatta dal pontefice, gli fusse
molestissima, nondimeno, considerando poi meglio lo stato delle cose,
desiderava che il pontefice disponesse i viniziani, senza i quali egli non
voleva fare convenzione alcuna, ad accettare la tregua fatta.
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