VIII. Deliberazione del Borbone di marciare contro Roma, e lentezza del
pontefice nel prendere provvedimenti. Scarsa sollecitudine dei romani alla
richiesta d'aiuti del pontefice. Deliberazioni dei collegati di inviare milizie
a Roma; fiducia di Renzo da Ceri nella possibilità di difendere Roma, e fiducia
del pontefice in lui. Assalto dell'esercito tedesco a Roma, morte del Borbone;
sacco della città. Milizie de' collegati sotto Roma, donde subito si ritirano.
Ma in questo
tempo il pontefice, al quale era molesto essersi trasferita la guerra in
Toscana ma pure manco molesto che se si fusse trasferita in terra di Roma,
soldava fanti e provedeva a' denari, ma lentamente; disegnando di mandare Renzo
da Ceri con gente contro a' sanesi e anche assaltargli per mare, acciò che Borbone,
implicato in Toscana, fusse impedito a pigliare il cammino di Roma: benché di
questo gli diminuisse ogni dì il timore, sperando che, per le difficoltà che
aveva Borbone di condurre inverso Roma le genti senza vettovaglie e senza
denari, e per l'opportunità che aveva dello stato di Siena, dove almanco si
nutrirebbono i soldati, fusse per fermarsi alla impresa contro a' fiorentini.
Ma, o fusse stato altro il suo primo consiglio, stabilito, come molti hanno
detto, segretissimamente, insino al Finale, con l'autorità del duca di Ferrara
e di Ieronimo Morone, o diffidando, poiché alla difesa di Firenze erano
condotte le forze di tutta la lega, di potere fare frutto in quella impresa, né
potendo anche sostentare più l'esercito senza denari, condotto insino a quel dì
per tante difficoltà con vane promesse e vane speranze, e però necessitato o a
perire o a tentare la fortuna, deliberò di andare improvisamente e con somma
prestezza ad assaltare la città di Roma; dove e i premi della vittoria e per
Cesare e per i soldati sarebbono inestimabili, e la speranza del conseguirgli
non era piccola, poi che [il papa], con cattivo consiglio, aveva licenziato
prima i svizzeri e poi i fanti delle bande nere, e ricominciato sì lentamente
(disperato che fu l'accordo) a provedersi che giudicava non sarebbe a tempo a
raccorre presidio sufficiente.
Partì adunque
il duca di Borbone con tutto l'esercito, il dì vigesimo [sesto] di aprile,
spedito, senza artiglierie senza carriaggi; e camminando con incredibile prestezza,
non lo ritardando né le pioggie, le quali in quegli dì furono smisurate, né il
mancamento delle vettovaglie, si appropinquò a Roma in tempo che appena il
pontefice avesse certa la sua venuta, non trovato ostacolo alcuno né in
Viterbo, dove il papa non era stato a tempo a mandare gente, né in altro luogo.
Però il pontefice, ricorrendo (come prima gli era stato predetto avere a essere
da uomini prudentissimi) nelle ultime necessità, e quando non gli potevano più
giovare, a quegli rimedi i quali, fatti in tempo opportuno, sarebbono stati
alla salute sua di grandissimo momento, creò per danari tre cardinali; i quali
per l'angustia delle cose non gli potettono essere numerati, né, gli fussino
stati numerati, potevano, per la vicinità del pericolo, partorire più frutto
alcuno. Convocò anche i romani, ricercandogli che in tanto pericolo della
patria pigliassino prontamente l'armi per difenderla, e i più ricchi
prestassino danari per soldare fanti, alla quale cosa non trovò corrispondenza
alcuna. Anzi è restato alla memoria che Domenico di Massimo, ricchissimo sopra
a tutti i romani, offerse di prestare cento ducati: della quale avarizia patì
le pene, perché le figliuole andorono in preda de' soldati, egli co' figliuoli
fatti prigioni ebbono a pagare grandissime taglie.
Ma in Firenze,
avuta la nuova della partita di Borbone, la quale, scritta da Vitello che era
in Arezzo, ritardò uno dì più che non era conveniente a venire, si deliberò da'
capitani che il conte Guido Rangone, con i cavalli suoi e con quelli del conte
di Gaiazzo e con cinquemila fanti de' fiorentini e della Chiesa, andasse
subito, spedito, alla volta di Roma, seguitasse l'altro esercito appresso:
sperando che, se Borbone andava con artiglierie, sarebbe questo soccorso a Roma
innanzi a lui; se andava spedito, sarebbe sì presto dopo lui che, non avendo
artiglierie ed essendo mediocre difesa in Roma, dove il papa aveva scritto
avere seimila fanti, sarebbe sopratenuto tanto che arrivasse questo primo
soccorso; il quale arrivato, non era pericolo alcuno che Roma si perdesse. Ma
la celerità di Borbone e le piccole provisioni di Roma pervertirono tutti i
disegni. Perché Renzo da Ceri, al quale il pontefice aveva dato il carico
principale della difesa di Roma, avendo per la brevità del tempo condotto pochi
fanti utili ma molta turba imbelle e imperita, raccolta tumultuariamente dalle
stalle de' cardinali e de' prelati e dalle botteghe degli artefici e delle
osterie, e avendo fatto ripari al Borgo deboli, a giudizio di tutti, ma a
giudizio suo sufficienti, confidava tanto nella difesa che né permettesse che
si tagliassino i ponti del Tevere per salvare Roma, se pure il Borgo e
Trastevere non si potessino difendere; anzi, giudicando essere superfluo il
soccorso, presentita la venuta del conte Guido, gli fece il quarto dì di maggio
scrivere dal vescovo di Verona in nome del pontefice che, per essere Roma
provista e fortificata a bastanza, vi mandasse solamente seicento o ottocento
archibusieri, egli col resto delle genti andasse a unirsi con l'esercito della
lega, col quale unito farebbe più frutto che rinchiuso in Roma: la quale
lettera se bene non fece nocumento alcuno, perché il conte non era tanto
innanzi che potesse essere a tempo, certificò pure quanto male si calcolassino
da lui i pericoli presenti. Ma non fu manco maraviglioso, se è maraviglia che
gli uomini non sappino o non possino resistere al fato, che il pontefice, che
soleva disprezzare Renzo da Ceri sopra tutti gli altri capitani, si rimettesse
ora totalmente nelle sue braccia e nel suo giudizio; e molto più che, solito a
temere ne' minori pericoli, era stato più volte inclinato ad abbandonare Roma
quando il viceré andò col campo a Frusolone, ora, in tanto pericolo,
spogliatosi della natura sua, si fermasse costantemente in Roma, e con tanta
speranza di difendersi che, diventato quasi come procuratore degli inimici,
proibisse non solo agli uomini di partirsene ma eziandio ordinasse non fussino
lasciate uscirne le robe, delle quali molti mercatanti e altri cercavano per la
via del fiume di alleggierirsi.
Alloggiò
Borbone con l'esercito, il quinto dì di maggio, ne' Prati presso a Roma, con
insolenza militare mandò uno trombetto a dimandare il passo al pontefice (ma
per la città di Roma) per andare con l'esercito nel reame di Napoli, e la
mattina seguente in su il fare del dì, deliberato o di morire o di vincere
(perché certamente poca altra speranza restava alle cose sue), accostatosi al
Borgo della banda del monte di Santo Spirito, cominciò una aspra battaglia;
avendogli favoriti la fortuna nel fargli appresentare più sicuramente, per
beneficio di una folta nebbia che, levatasi innanzi al giorno, gli coperse
insino a tanto si accostorno al luogo dove fu cominciata la battaglia. Nel
principio della quale Borbone, spintosi innanzi a tutta la gente per ultima
disperazione, non solo perché non ottenendo la vittoria non gli restava più
refugio alcuno ma perché vedeva i fanti tedeschi procedere con freddezza grande
a dare l'assalto, ferito, nel principio dello assalto, di uno archibuso, cadde
in terra morto. E nondimeno la morte sua non raffreddò l'ardore de' soldati,
anzi combattendo con grandissimo vigore, per spazio di due ore, entrorno
finalmente nel Borgo; giovando loro non solamente la debolezza grandissima de'
ripari ma eziandio la mala resistenza che fu fatta dalla gente. Per la quale,
come molte altre volte, si dimostrò a quegli che per gli esempli antichi non
hanno ancora imparato le cose presenti, quanto sia differente la virtù degli
uomini esercitati alla guerra agli eserciti nuovi congregati di turba
collettizia, e alla moltitudine popolare: perché era alla difesa una parte
della gioventù romana sotto i loro caporioni e bandiere del popolo; benché
molti ghibellini e della fazione colonnese deliberassino o almanco non
temessino la vittoria degli imperiali, sperando per il rispetto della fazione
di non avere a essere offesi da loro; cosa che anche fece procedere la difesa
più freddamente. E nondimeno, perché è pure difficile espugnare le terre senza
artiglieria, restorno morti circa mille fanti di quegli di fuora. I quali come
si ebbeno aperta la via di entrare dentro, mettendosi ciascuno in
manifestissima fuga, e molti concorrendo al Castello, restorono i borghi
totalmente abbandonati in preda de' vincitori; e il pontefice, che aspettava il
successo nel palazzo di Vaticano, inteso gli inimici essere dentro, fuggì
subito con molti cardinali nel Castello. Dove consultando se era da fermarsi
quivi, o pure, per la via di Roma, accompagnati da' cavalli leggieri della sua
guardia, ridursi in luogo sicuro, destinato a essere esempio delle calamità che
possono sopravenire a' pontefici e anco quanto sia difficile a estinguere
l'autorità e maestà loro, avuto nuove per Berardo da Padova, che fuggì dello
esercito imperiale, della morte di Borbone e che tutta la gente, costernata per
la morte del capitano, desiderava di fare accordo seco, mandato fuora a parlare
co' capi loro, lasciò indietro infelicemente il consiglio di partirsi; non
stando egli e i suoi capitani manco irresoluti nelle provisioni del difendersi
che fussino nelle espedizioni. Però il giorno medesimo gli spagnuoli, non
avendo trovato né ordine né consiglio di difendere il Trastevere, non avuta
resistenza alcuna, v'entrorono dentro; donde non trovando più difficoltà, la
sera medesima a ore ventitré, entrorono per ponte Sisto nella città di Roma:
dove, da quegli in fuora che si confidavano nel nome della fazione, e da alcuni
cardinali che per avere nome di avere seguitato le parti di Cesare credevano
essere più sicuri che gli altri, tutto il resto della corte e della città, come
si fa ne' casi tanto spaventosi, era in fuga e in confusione. Entrati dentro,
cominciò ciascuno a discorrere tumultuosamente alla preda, non avendo rispetto
non solo al nome degli amici né all'autorità e degnità de' prelati, ma eziandio
a' templi a' monasteri alle reliquie onorate dal concorso di tutto il mondo, e
alle cose sagre. Però sarebbe impossibile non solo narrare ma quasi immaginarsi
le calamità di quella città, destinata per ordine de' cieli a somma grandezza
ma eziandio a spesse direzioni; perché era l'anno......... che era stata
saccheggiata da' goti. Impossibile a narrare la grandezza della preda,
essendovi accumulate tante ricchezze e tante cose preziose e rare, di
cortigiani e di mercatanti; ma la fece ancora maggiore la qualità e numero
grande de' prigioni che si ebbeno a ricomperare con grossissime taglie:
accumulando ancora la miseria e la infamia, che molti prelati presi da'
soldati, massime da' fanti tedeschi, che per odio del nome della Chiesa romana
erano crudeli e insolenti, erano in su bestie vili, con gli abiti e con le
insegne delle loro dignità, menati a torno con grandissimo vilipendio per tutta
Roma; molti, tormentati crudelissimamente, o morirono ne' tormenti o trattati di
sorte che, pagata che ebbono la taglia, finirono fra pochi dì la vita.
Morirono, tra nella battaglia e nello impeto del sacco, circa quattromila
uomini. Furono saccheggiati i palazzi di tutti i cardinali (eziandio del
cardinale Colonna che non era con l'esercito), eccetto quegli palazzi che, per
salvare i mercatanti che vi erano rifuggiti con le robe loro e così le persone
e le robe di molti altri, feciono grossissima imposizione in denari: e alcuni
di quegli che composeno con gli spagnuoli furono poi o saccheggiati dai
tedeschi o si ebbeno a ricomporre con loro. Compose la marchesana di Mantova il
suo palazzo in cinquantaduemila ducati, che furono pagati da' mercatanti e da
altri che vi erano rifuggiti: de' quali fu fama che don Ferrando suo figliuolo
ne partecipasse di diecimila. Il cardinale di Siena: dedicato per antica
eredità de' suoi maggiori al nome imperiale, poiché ebbe composto sé e il suo
palazzo con gli spagnuoli, fu fatto prigione da' tedeschi; e si ebbe, poi che
gli fu saccheggiato da loro il palazzo, e condotto in Borgo col capo nudo con
molte pugna, a riscuotere da loro con cinquemila ducati. Quasi simile calamità
patirono il cardinale della Minerva e il Ponzetta, che fatti prigioni da'
tedeschi pagorono la taglia, menati prima l'uno e l'altro di loro a processione
per tutta Roma. I prelati e cortigiani spagnuoli e tedeschi, riputandosi sicuri
dalla ingiuria delle loro nazioni, furono presi e trattati non manco
acerbamente che gli altri. Sentivansi i gridi e urla miserabili delle donne
romane e delle monache, condotte a torme da' soldati per saziare la loro
libidine: non potendo se non dirsi essere oscuri a' mortali i giudizi di Dio,
che comportasse che la castità famosa delle donne romane cadesse per forza in
tanta bruttezza e miseria. Udivansi per tutto infiniti lamenti di quegli che
erano miserabilmente tormentati, parte per astrignergli a fare la taglia parte
per manifestare le robe ascoste. Tutte le cose sacre, i sacramenti e le
reliquie de' santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de' loro
ornamenti, erano gittate per terra; aggiugnendovi la barbarie tedesca infiniti
vilipendi. E quello che avanzò alla preda de' soldati (che furno le cose più
vili) tolseno poi i villani de' Colonnesi, che venneno dentro. Pure il
cardinale Colonna, che arrivò (credo) il dì seguente, salvò molte donne fuggite
in casa sua. Ed era fama che, tra denari oro argento e gioie, fusse asceso il
sacco a più di uno milione di ducati, ma che di taglie avessino cavata ancora
quantità molto maggiore. Arrivò, il dì medesimo che gli imperiali preseno Roma,
il conte Guido co' cavalli leggieri e ottocento archibusieri al ponte di
Salara, per entrare in Roma la sera medesima; ma inteso il successo si ritirò a
Otricoli, dove si congiunse seco il resto della sua gente; perché, non ostante
le lettere avute di Roma che disprezzavano il suo soccorso, egli, non volendo
disprezzare la fama di essere quello che avesse soccorso Roma, aveva continuato
il suo cammino. Né mancò (come è natura degli uomini, benigni e mansueti estimatori
delle azioni proprie ma severi censori delle azioni d'altri) chi riprendesse il
conte Guido di non avere saputo conoscere una preclarissima occasione, perché
gli imperiali, intentissimi tutti a sì ricca preda, a votare le case, a
ritrovare le cose occultate, a fare prigioni e a ridurre in luogo salvo i
fatti, erano dispersi per tutta la città, senza ordine di alloggiamenti senza
riconoscere le loro bandiere senza ubbidire i segni de' capitani; in modo che
molti credetteno che se la gente che era col conte Guido si fusse condotta con
prestezza in Roma non solo arebbeno conseguito, presentandosi al Castello non
assediato né custodito di fuora da alcuno, la liberazione del pontefice ma
ancora sarebbe succeduta loro più gloriosa fazione, occupati tanto gli inimici
alla preda che con difficoltà, per qualunque accidente, se ne sarebbe messo
insieme numero notabile: essendo massime certo che, ancora poi per qualche dì,
quando per comandamento de' capitani o per qualche accidente si dava alle armi,
non si rappresentava alle bandiere alcuno soldato. Ma gli uomini si persuadono
spesso che se si fusse fatta o non fatta una cosa tale sarebbe succeduto certo
effetto, che se si potesse vederne la esperienza si troverebbeno molte volte
fallaci simili giudizi.
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