X. Accordi fra il Pontefice e gli imperiali; stretta sorveglianza del
pontefice in Castel Sant'Angelo. Città che malgrado l'accordo rimangono alla
devozione del pontefice; il duca di Ferrara occupa Modena, i veneziani Ravenna
e Cervia, e Sigismondo Malatesta Rimini. Restaurazione del governo popolare in
Firenze. Ragioni di odio dei fiorentini contro i Medici, e persecuzione ai loro
fautori.
Aveva il
pontefice, sperando sempre poco del soccorso, e temendo alla vita propria da'
Colonnesi e da' fanti tedeschi, mandato a Siena a chiamare il viceré, sperando,
anche, da lui migliore condizione: il quale andò cupidamente, credendo essere
capitano dell'esercito. Arrivato a Roma, dove passò con salvocondotto de'
capitani dello esercito, veduto essere contro a sé mala disposizione de' fanti
tedeschi e spagnuoli, i quali dopo la morte di Borbone avevano eletto per capitano
generale il principe di Oranges, non ebbe ardire di fermarvisi; ma andando
verso Napoli, incontrato nel cammino dal marchese del Guasto, don Ugo e
Alarcone, vi ritornò per consiglio loro: e nondimeno, non essendo grato
all'esercito, non ebbe più autorità né nelle cose della guerra né nel trattato
della concordia col pontefice. Il quale finalmente, destituto di ogni speranza,
convenne il sesto dì di giugno con gli imperiali, quasi con quelle medesime
condizioni con le quali aveva potuto convenire prima: che il pontefice pagasse
allo esercito ducati quattrocentomila, cioè centomila di presente, che si
pagavano di denari argento e oro rifuggito nel Castello, cinquantamila fra
venti dì, dugento cinquantamila fra due mesi, assegnando per il pagamento di questi
una imposizione pecuniaria da farsi per tutto lo stato della Chiesa; mettesse
in potestà di Cesare, per ritenerlo quanto paresse a lui, Castel Santo Angelo,
le rocche di Ostia di Civitavecchia e di Civita Castellana, e le città di
Piacenza di Parma e di Modona; restasse egli prigione in Castello con tutti i
cardinali, che erano seco tredici, insino a tanto che fussino pagati i primi
cento cinquantamila, dipoi andassino a Napoli o a Gaeta per aspettare quello
che di loro determinasse Cesare; desse statichi allo esercito per l'osservanza
de' pagamenti (de' quali la terza parte apparteneva agli spagnuoli) gli
arcivescovi sipontino e pisano, i vescovi di Pistoia e di Verona, Iacopo
Salviati, Simone da Ricasoli e Lorenzo fratello del cardinale de' Ridolfi: avessino
facoltà di partirsi sicuramente del Castello Renzo da Ceri, Alberto Pio, Orazio
Baglione, il cavaliere Casale oratore del re di Inghilterra; e tutti gli altri
che vi erano rifuggiti, eccetto il pontefice e i cardinali: assolvesse il
pontefice dalle censure incorse i Colonnesi, e che quando fusse menato fuori di
Roma vi restasse uno legato in nome suo, e l'auditorio della ruota proposto a
rendere ragione. Il quale accordo come fu fatto, entrò nel Castello con tre
compagnie di fanti spagnuoli e tre compagnie di fanti tedeschi il capitano
Alarcone; il quale, deputato alla guardia del Castello e della persona del
pontefice, lo guardava con grandissima diligenza, ridotto in abitazioni anguste
e con piccolissima libertà.
Ma non furono
con la medesima facilità consegnate l'altre fortezze e terre promesse: perché
quella di Civita Castellana era custodita in nome de' collegati; quella di
Civitavecchia recusò di consegnare Andrea Doria, benché n'avesse comandamento
dal pontefice, se prima non gli erano pagati quattordicimila ducati, de' quali
diceva di essere creditore per gli stipendi suoi. A Parma e a Piacenza andò in
nome del pontefice Giuliano Leno romano, architettore, in nome de' capitani
Lodovico conte di Lodrone, con comandamento alle città di obbedire alla volontà
di Cesare; benché da altra parte avesse fatto occultamente intendere loro il
contrario: le quali città, aborrendo lo imperio degli spagnuoli, recusorono di
volergli ammettere. Ma i modonesi non erano più in potestà propria, perché il
duca di Ferrara, non pretermettendo l'occasione che gli davano le calamità del
pontefice, minacciando di dare il guasto alle biade già mature, gli costrinse a
dargli il sesto dì di giugno la città; non senza infamia del conte Lodovico
Rangone, il quale, benché il duca avesse seco poca gente, se ne partì, non
fatto segno alcuno di resistenza: e disprezzò in questo il duca l'autorità de'
viniziani, i quali lo confortavano a non fare, in tempo tale, innovazione
alcuna contro alla Chiesa. E nondimeno essi, non contenendo se medesimi da
quello che dissuadevano agli altri, avuta intelligenza co' guelfi di Ravenna,
mandativi fanti sotto colore di guardarla per timore di quelli di Cotignuola,
appropriorono a sé quella città; e ammazzato furtivamente il castellano,
occuporono anche la fortezza, publicando volerla tenere in nome di tutta la
lega; occuporono e, pochi dì poi, Cervia e i sali che vi erano del pontefice.
Nello stato del quale, non essendo né chi lo guardasse né chi lo difendesse, se
non quanto da se stessi per interesse proprio facevano i popoli, occupò
Sigismondo Malatesta con la medesima facilità la città e la rocca di Rimini.
Ma non avevano
le cose sue avuta nella città di Firenze migliore fortuna. Perché, come vi fu
la nuova della perdita di Roma, il cardinale di Cortona, impaurito per trovarsi
abbandonato da' cittadini che facevano professione di essere amici de' Medici,
non avendo modo, senza termini violenti ed estraordinari, di provedere a'
denari, né volendo per avarizia mettere mano a' suoi, almeno insino a tanto che
si intendesse il progresso degli eserciti che andavano per soccorrere il
pontefice, non lo movendo alcuna necessità, perché nella città erano molti
soldati, e il popolo spaventato per l'accidente seguito della occupazione del
palazzo non arebbe avuto ardire di muoversi, deliberò di cedere alla fortuna;
e, convocati i cittadini, lasciò libera a loro l'amministrazione della
republica, ottenuti certi privilegi ed esenzioni, e facoltà a' nipoti del
pontefice di stare come cittadini privati in Firenze, e abolizione per ciascuno
di tutte le cose perpetrate per il passato contro allo stato. Le quali cose
conchiuse, il sestodecimo dì di maggio, egli co' nipoti se ne andò a Lucca;
dove pentitosi presto del partito preso con tanta timidità, fece pruova di
ritenersi le fortezze di Pisa e di Livorno, le quali erano in mano di
castellani confidenti al pontefice; e nondimeno questi, fra pochi giorni, non
sperando per la cattività del papa soccorso alcuno, ricevuta anche qualche
somma di denari, consegnorono quelle fortezze a' fiorentini. I quali in questo
mezzo, avendo ridotta la città al governo popolare, creorono gonfaloniere di
giustizia per uno anno, e con facoltà di essere confermato insino in tre anni,
Niccolò Capponi, cittadino di grande autorità e amatore della libertà; il
quale, desiderando sopra modo la concordia de' cittadini e che il governo si
riducesse a forma più perfetta che si potesse di republica, convocato il
prossimo dì il consiglio maggiore, nel quale risedeva la potestà assoluta del
deliberare le leggi e di creare tutti i magistrati, parlò in questa sentenza.
Furono
gravissime le parole del gonfaloniere e prudentissimi certamente i consigli, a'
quali se i cittadini avessino prestato fede sarebbe forse durata più lungamente
la nuova libertà. Ma essendo maggiore lo sdegno in chi ricupera la libertà che
in chi la difende, e grande l'odio contro al nome de' Medici per molte cagioni,
e massime per avere avuto a sostentare in gran parte co' danari propri le
imprese cominciate da loro (perché è manifesto avere i fiorentini speso, nella
occupazione e poi nella difesa del ducato di Urbino, ducati più di
cinquecentomila, altanti nella guerra mossa da Leone contro al re di Francia, e
nelle cose che succederono dopo la morte sua dependenti da detta guerra ducati
trecentomila, pagati a' capitani imperiali e al viceré, innanzi la creazione di
Clemente e poi, e ora più di secentomila nella guerra mossa contro a Cesare),
cominciorono a perseguitare immoderatamente quegli cittadini che erano stati
amici de' Medici, perseguitare il nome del pontefice. Scancellorno per tutta la
città impetuosamente le insegne della famiglia de' Medici, affisse eziandio
negli edifizi fabbricati da loro; roppeno le immagini di Leone e di Clemente
che stavano nel tempio della Annunziata, celebrato per tutto il mondo;
costrinseno i beni del pontefice, a esazione di debiti vecchi, non
pretermettendo cosa alcuna, la maggiore parte di loro, appartenente a concitare
lo sdegno del pontefice, e a nutrire divisione e discordia nella città: e
arebbono moltiplicato a maggiori disordini se non si fusse interposta
l'autorità e prudenza del gonfaloniere, la quale però non bastava a rimediare
a' molti disordini.
|