XII. Azione di prìncipi presso Cesare per la liberazione del pontefice. Il
cardinale eboracense in Francia e suoi accordi col re. Condizioni ed inattività
degli eserciti avversari in Italia. Atto degno d'infamia compiuto a Perugia dai
capitani dei confederati. Azioni dei collegati nel Lazio e nell'Umbria.
Aveva in questo
mezzo Cesare, per lettere del gran cancelliere, il quale mandato da lui veniva
in Italia, scrittegli da Monaco (il quale richiamò subito), intesa la cattura
del pontefice; e benché con le parole dimostrasse essergli molestissima,
nondimeno si raccoglieva che in secreto gli era stata gratissima; anzi, non si
astenendo totalmente dalle dimostrazioni estrinseche, non aveva per questo
intermesso le feste cominciate prima per la natività del figliuolo. Ma essendo
la liberazione del pontefice desiderata ardentissimamente dal re di Inghilterra
e dal cardinale eboracense, e per la autorità loro risentendosene anche il re
di Francia (il quale altrimenti, se avesse recuperato i figliuoli, si sarebbe
poco commosso per i danni del pontefice e di tutta Italia), mandorono
congiuntamente, l'uno e l'altro, oratori a Cesare a dimandargli la sua
liberazione, come cosa appartenente comunemente a tutti i prìncipi cristiani, e
come debita particolarmente da Cesare, sotto la fede del quale era stato da'
suoi capitani e dal suo esercito ridotto in tanta miseria; e in questo tempo
medesimo ricercorono i cardinali che erano in Italia, che insieme co' cardinali
che erano di là da' monti si congregassino in Avignone, per consultare in tempo
tanto difficile quel che s'avesse a fare per beneficio della Chiesa: i quali,
per non si mettere tutti in mano di prìncipi tanto potenti, recusorono, benché
con diverse escusazioni, di andarvi. E da altra parte il cardinale de'
Salviati, legato appresso al re di Francia, ricercato dal pontefice che andasse
a Cesare per aiutare le cose sue, alla venuta di don Ugo (il quale si era
convenuto nella capitolazione che vi andasse), ricusò di farlo, come se fusse
cosa perniciosa che tanti cardinali fussino in potestà di Cesare, ma mandò per
uno suo cameriere la istruzione ricevuta da Roma allo auditore della camera; il
quale riportò benignissime parole ma incerta e varia risoluzione. Arebbe Cesare
desiderato che la persona del pontefice fusse condotta in Spagna; nondimeno, e
perché era pure cosa piena di infamia e per non irritare tanto l'animo del re
di Inghilterra, e perché tutti i regni di Spagna, i quali, e principalmente i
prelati e i signori, detestavano molto che dallo imperadore romano, protettore
e avvocato della Chiesa, fusse, con tanta ignominia di tutta la cristianità,
tenuto in carcere quello che rappresentava la persona di Cristo in terra, però,
avendo risposto a quegli oratori benignamente, e alla instanza che gli facevano
della pace essere contento che la trattasse il re di Inghilterra (il che da
loro fu accettato), mandò il terzo dì di agosto il generale in Italia e, di poi
quattro dì, [Veri] di Migliau, l'uno e l'altro, secondo si diceva, con
commissione al viceré per la liberazione del pontefice e restituzione di tutte
le terre e fortezze occupategli. Per la sostentazione del quale consentì anche
che il nunzio suo gli mandasse certa somma di danari, esatta dalla collettoria
di quegli reami i quali nelle corti avevano denegato di dare a Cesare danari.
Passò in questo
tempo, che era di luglio, il cardinale eboracense a Cales con milledugento
cavalli; incontra il quale il re di Francia, volendo riceverlo
onoratissimamente, mandò il cardinale del Loreno. Andò dipoi il re in Amiens a'
tre di agosto, dove il seguente dì entrò Eboracense con grandissima pompa;
accrescendogli ancora la estimazione lo avere portato seco trecentomila scudi
per le spese occorrenti, e per prestarne al re di Francia, bisognando.
Trattossi tra loro quel che apparteneva alla pace e quello che apparteneva alla
guerra. E ancora che i fini del re di Francia fussino diversi da quegli del re
di Inghilterra (perché per conseguire i figliuoli arebbe lasciato il pontefice
e Italia in preda) nondimeno era stato necessitato promettergli di non fare
accordo alcuno con Cesare senza la liberazione del pontefice. Però, avendo
mandato Cesare al re di Inghilterra gli articoli della pace, gli fu risposto,
in nome comune, che accetterebbono la pace con la restituzione de' figliuoli,
pagandogli in certi tempi due milioni di ducati, la liberazione del pontefice e
dello stato ecclesiastico, la conservazione di tutti gli stati e governi di
Italia come erano di presente, e finalmente la pace universale. E si convenne
tra loro che, accettando Cesare questi articoli, la figlia di Inghilterra si
desse per moglie al duca d'Orliens, perché andrebbe innanzi il matrimonio del
re con la sorella di Cesare; ma non succedendo la pace, si desse per moglie al
re; i quali articoli mandati, denegorono di concedere salvocondotto a uno uomo
quale Cesare dimandava di mandarvi, rispondendo bastare gli fussino stati
mandati quegli articoli. La quale conclusione fatta, fu, il decimo ottavo dì di
agosto, giurata e publicata solennemente la pace e la confederazione tra l'uno
re e l'altro. Deliberorono che la guerra di Italia si facesse gagliardamente,
avendo per obietto principale la liberazione del pontefice, ma rimettendo
liberamente i modi e i mezzi del proseguirla nel consiglio di Lautrech; il
quale, innanzi alla partita sua, aveva ottenuto dal re tutte l'espedizioni
domandate: perché il re si metteva a fare sforzo ultimo, e quasi perentorio.
Volle ancora Eboracense che in campo andasse per il suo re il cavaliere Casale,
al quale si indirizzassino i trentacinquemila ducati pagava ciascuno mese, per
essere certo vi fusse il numero intero degli alamanni. Così stabilito il modo
della guerra di Italia, e mandate unitamente le risposte in Spagna, partì
Eboracense, spedito alla partita sua il protonotario Gambero al pontefice, per
confortare a farlo suo vicario universale in Francia in Inghilterra e in
Germania, mentre stava in prigione: a che il re di Francia dimostrava
consentire ma in segreto contradiceva.
Facevansi
intratanto poche fazioni di guerra in Italia, essendo grande l'espettazione
della venuta di Lautrech. Perché l'esercito imperiale, disordinato e deposta
l'ubbidienza a' capitani, grave agli amici e alle terre arrendute, non si
movendo, non era agli inimici di alcuno terrore; i fanti spagnuoli e gli
italiani, fuggendo la contagione della peste, si stavano sparsi intorno a Roma;
il principe di Oranges con cento cinquanta cavalli era andato a Siena, per
quale si voglia cagione; dove prima aveva mandato alcuni fanti, perché il
popolo di quella città, sollevato da capi sediziosi, aveva tumultuosamente
saccheggiate le case de' cittadini del Monte de' nove e ammazzato Pietro
Borghesi, cittadino di autorità, insieme con uno figliuolo e sedici o diciotto
altri. In Roma restavano solamente i tedeschi pieni di peste; i quali essendo
stati sodisfatti con grandissima difficoltà dal pontefice de' primi cento
cinquantamila ducati, parte con danari parte con partiti fatti con mercatanti
genovesi sopra le decime del regno di Napoli e sopra la vendita di Benevento,
dimandavano, per il resto de' denari dovuti, altre sicurtà e altro assegnamento
che la imposizione in su lo stato ecclesiastico, cose impossibili al pontefice
incarcerato; [e] dopo molti minacci fatti agli statichi, e il tenergli
incatenati con grandissima acerbità, gli condussono ignominiosamente in Campo
di Fiore, dove rizzate le forche, come se incontinente volessino prendere di
loro quello supplicio. Uscirono dipoi tutti di Roma senza capitani di autorità,
per allargarsi e rinfrescarsi più che per fare fazioni di importanza: e avendo
saccheggiato le città di Terni e Narni, Spuleto si accordò di dare loro passo e
vettovaglia. Però l'esercito de' collegati, per sicurtà di Perugia, andò ad
alloggiare a Pontenuovo di là da Perugia; il quale prima alloggiava in sul lago
di Perugia, ma diminuito, rispetto alle obligazioni de' collegati, molto di
numero; perché col marchese di Saluzzo erano trecento lancie e trecento arcieri
franzesi tremila svizzeri e mille fanti italiani, col duca d'Urbino cinquanta
uomini d'arme trecento cavalli leggieri mille fanti alamanni e dumila italiani:
scusandosi, impudentemente e contro alla verità, i viniziani, che supplivano
alle loro obligazioni con le genti tenevano nel ducato di Milano. Avevanvi i
fiorentini ottanta uomini d'arme cento cinquanta cavalli leggieri e quattromila
fanti, necessitandogli a stare meglio proveduti che gli altri il timore che
avevano continuamente che l'esercito imperiale non assaltasse la Toscana: però
pagavano a' tempi debiti le genti loro, di che facevano il contrario tutti gli
altri. Ma il duca d'Urbino, oltre alle sue antiche difficoltà, era in
grandissimo dispiacere e quasi disperazione, sapendo che il re di Francia e
Lautrech, tassandolo eziandio di infedeltà, non parlavano onoratamente di lui,
ma molto più perché era in malissimo concetto appresso a' viniziani; i quali,
insospettiti o della fede o della instabilità sua, avevano messa diligente
guardia alla moglie e al figliuolo, che erano in Vinegia, perché non partissino
senza licenza loro; e dannavano scopertamente il suo consiglio, che era che
Lautrech, senza tentare le cose di Lombardia, andasse verso Roma. Però dormiva
ogni cosa oziosamente in quello esercito, avendo per grazia che gli imperiali
non venissino più innanzi: i quali, non molto poi, ricevuti dal marchese del
Guasto, che andò all'esercito, due scudi per uno, se ne ritornorono, i
tedeschi, male concordi con gli spagnuoli, a Roma, restando gli spagnuoli e gli
italiani distesi ad Alviano, Attigliano, Castiglione della Teverina e verso
Bolsena; ma diminuito tanto il numero massime de' tedeschi, per la peste, che
si credeva che in tutto l'esercito di Cesare non fussino restati più che
diecimila fanti.
Ma innanzi alla
partita loro feciono i capitani de' confederati uno atto degno di eterna
infamia. Perché essendo Gentile Baglione ritornato in Perugia con volontà di
Orazio, il quale, affermando che le discordie tra loro erano perniciose a
tutti, aveva dimostrato di riconciliarsi seco, vi andò, con consentimento di
tutti i capitani, Federigo da Bozzole a fargli intendere che, avendo presentito
che egli trattava occultamente con gli inimici, intendevano di assicurarsi di
lui; [e] ancoraché egli si giustificasse, e promettesse di andare a Castiglione
del Lago, lo lasciò in guardia a Gigante Corso, colonnello de' viniziani; ma la
sera medesima fu ammazzato, con due nipoti, da alcuni satelliti di Orazio, e
per sua commissione: il quale fece, ne' medesimi dì, ammazzare fuora di Perugia
Galeotto fratello di Braccio e nipote anche egli di Gentile.
Mandorono di
poi gente per entrare in Camerino, inteso essere morto il duca; ma era
prevenuto Sforza Baglione in nome degli imperiali, e vi entrò dipoi Sciarra
Colonna per conto di Ridolfo genero suo, figliuolo naturale del duca morto.
Assaltorono dipoi il marchese di Saluzzo e Federico con molti cavalli e con
mille fanti, di notte, la badia di San Piero vicina a Terni, dove erano
Pietromaria Rosso e Alessandro Vitello con dugento cavalli e quattrocento
fanti: la quale impresa per sé temeraria, perché con tale presidio non era
espugnabile se non con l'artiglierie, rendé felice o la fortuna o la imprudenza
o l'avarizia di quegli condottieri; i quali, avendo il dì medesimo mandati
cento cinquanta archibusieri a spogliare uno castello vicino, si erano privati
delle genti necessarie alla difesa. Però, benché si fussino difesi molte ore,
si detteno a discrezione; salvo però Piermaria Rosso e Alessandro Vitello con
le robe loro, feriti l'uno e l'altro di archibusi, il primo in una gamba
l'altro in una mano. Nel quale tempo avendo rotto il fiume del Tevere per tre o
quattro bocche, inondò con grandissimo danno il campo della lega; il quale andò
ad alloggiare verso Ascesi, essendo ancora gli imperiali fra Terni e Narni. Per
la partita loro i collegati fattisi innanzi, alloggiò il duca di Urbino a
Narni, i franzesi a Bevagna; le bande nere, governate da Orazio Baglione, capitano
generale della fanteria de' fiorentini, non avendo ricevuto alloggiamento,
entrate nella terra di Montefalco la saccheggiorono. Assaltò poi una parte di
questi fanti le Presse, nel quale castello erano ritirati Ridolfo da Varano e
Beatrice sua moglie; i quali non potendo difendersi si arrenderono a
discrezione: benché poco dipoi recuperassino la libertà, perché Sciarra, non
potendo più sostenersi in Camerino per le molestie riceveva da quello esercito,
si convenne di relassarlo, ricuperando il genero e la figliuola. Tentorono
anche il marchese di Saluzzo e Federigo, con la cavalleria franzese e con
dumila fanti, di svaligiare furtivamente la cavalleria spagnuola, alloggiata in
Monte Ritondo, e in Lamentano, senza guardie e senza scolte, secondo riferiva
Mario Orsino, cammino di tre giornate; ma scoperti, perché procedettono con
poco ordine, non tentata la fazione tornorno indietro, avendo disegnato, per
privargli della facoltà del fuggire, di tagliare in uno tempo medesimo il ponte
del Teverone.
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