XIII. Scarsa attività degli eserciti in Lombardia. Azioni del Lautrech in
Piemonte. Resa di Genova al re di Francia. Resa di Alessandria ai francesi.
L'acquisto di Alessandria causa di discordia fra i collegati. Presa e sacco di
Pavia; deliberazione del Lautrech di marciare verso Roma e verso il reame di
Napoli. Condizioni poste da Cesare per la concordia e sue speranze di lieti
successi.
Non erano state
molto diverse da queste, tutta la state, le operazioni de' soldati di
Lombardia: dove le genti de' viniziani e del duca, congiunte insieme appresso a
Milano con intenzione di tagliare i grani di quello contado, avevano rotto la
scorta delle vettovaglie, morti cento fanti, presi trenta uomini d'arme e
trecento cavalli tra utili e inutili; ma non procederono più oltre contro a'
frumenti, perché le genti de' viniziani, secondo il costume loro, presto
diminuirono. Andrea Doria con l'armata sua si era ritirato verso Savona, i
genovesi avevano recuperata la Spezie.
Ma cominciorono
poi a riscaldare le cose di Lombardia per la passata di Lautrech nel Piemonte
con una parte dell'esercito; il quale per non stare ozioso, mentre aspetta il
resto, si pose a campo, ne' primi dì del mese di agosto, alla terra del Bosco
nel contado di Alessandria, nella quale erano a guardia mille fanti, la
maggiore parte tedeschi. Difendevansi con somma ostinazione, perché Lautrech,
sdegnato che avevano morti alcuni svizzeri, recusava di accettargli se non si
rimettevano liberamente alla sua discrezione; e somministrava loro spessi aiuti
e dava animo Lodovico conte di Lodrone, proposto alla difesa di Alessandria,
perché nel Bosco erano rinchiusi la moglie e i figliuoli. Finalmente, vessati
dì e notte dalle artiglierie, e temendo delle mine, poi che ebbono tollerato
dieci dì tanto travaglio, si rimessono in arbitrio di Lautrech: il quale
ritenne prigioni i capitani, salvò la vita a' fanti, ma con condizione che gli
spagnuoli ritornassino in Spagna per via di Francia, i tedeschi in Germania per
il paese de' svizzeri; e che ciascuno d'essi, secondo l'uso della iattanza
militare, uscisse del Bosco senza arme con una canna in mano; ma al conte
Lodovico restituì liberalmente la moglie e i figliuoli.
Seguitorono
questo acquisto successi prosperi delle cose di Genova. Perché essendo arrivate
in Portofino cinque navi che andavano a Genova, cariche quattro di frumenti e
una di mercatanzie, e perché si conducessino salve essendo andate nove galee da
Genova per accompagnarle, accadde che, avendo avuto avviso che Cesare Fregoso
si accostava per terra a Genova con dumila fanti, vi si ridussono quasi tutti
quegli che erano in Portofino, abbandonando l'armata; il che dette occasione a
Andrea Doria, condotto con tutte le condizioni che aveva dimandate agli
stipendi del re di Francia, di serrarle con le galee sue nel porto medesimo;
dove, conoscendo non potere resistere, disarmorono le galee e messeno le genti
in terra. Così delle nove galee essendone abbruciata una, l'altre vennono in potestà
degli inimici, con le navi cariche di frumenti e con la caracca Iustiniana, che
venuta di levante si diceva essere ricca di centomila ducati. Alla quale
fazione furono anche altre galee franzesi; le quali avendo prese prima cinque
navi cariche di grani, che andavano a Genova, si erano dipoi poste alla Chiappa
a ridosso di Codemonte, fra Portofino e Genova. Ne' quali dì ancora, certi
fanti condotti dagli Adorni per mettergli in Genova furno rotti a Priacroce,
luogo situato in quei monti. Questa calamità, oltre a tante altre perdite e
danni di vari legni, privò i genovesi, ridotti in ultima estremità, totalmente
di speranza di potersi più sostenere; non ostante che ne' medesimi dì Cesare
Fregoso, accostatosi a San Piero della Arena, fusse stato costretto a
ritirarsi: ma spaventandogli più la fame che le forze degli inimici, costretti
dalla ultima necessità, mandorno a Lautrech imbasciadori a capitolare.
Ritirossi Antoniotto Adorno doge nel Castelletto; e posati i tumulti, per opera
massime di Filippino Doria che vi era prigione, la città ritornò sotto il
dominio del re di Francia, il quale vi deputò governatore Teodoro da Triulzi.
Ma il Capella scrive che, infestando Cesare Fregoso Genova per terra, Andrea
Doria con diciassette galee aveva rinchiuso certe navi cariche di frumenti in
uno porto tra Genova e Savona; e mandando i genovesi sei galee per soccorrerle,
il vento spinse Andrea Doria a Savona: però le navi andorno a Genova, e i
soldati uscirno fuora contro al Fregoso. Col quale mentre combattevano, il popolo
genovese cominciò a chiamare Francia; e ritornando i soldati dentro a fermare
il tumulto, gli inimici seguitandogli entrorno nella città con loro.
Accostossi
dipoi Lautrech ad Alessandria, avendo nell'esercito suo la condotta di ottomila
svizzeri, i quali continuamente diminuivano, diecimila fanti di Pietro Navarra
e tremila guasconi, condotti di nuovo in Italia dal barone di Bierna, e tremila
fanti del duca di Milano. Erano in Alessandria mille cinquecento fanti, i quali
per la perdita degli alamanni che erano nel Bosco si erano molto inviliti; ma
essendovi poi entrati, per i colli che erano vicini alla città, cinquecento
fanti con Alberigo da Belgioioso, avevano ripreso animo, e difendevansi
gagliardamente: ma raddoppiata la batteria da più parti, per la venuta
all'esercito delle artiglierie e delle genti de' viniziani (benché né per terra
né per mare corrispondessino al numero al quale erano obligati), e molestandola
ferocemente nel tempo medesimo con le trincee e con le mine, come sempre in
qualunque oppugnazione faceva Pietro Navarra, Batista da Lodrone, non potendo
più difenderla, accordò di potersene andare in Piemonte, e gli alamanni con le
loro robe in Germania, non potendo per sei mesi pigliare soldo contro allo
esercito franzese.
L'acquisto di
Alessandria dimostrò tra i confederati principio di qualche contenzione.
Perché, disegnando Lautrech lasciarvi a guardia cinquecento fanti perché
avessino in qualunque caso uno ricetto sicuro le genti sue, e quelle che
venivano di Francia comodità di raccôrsi e riordinarsi in quella città,
insospettito l'oratore del duca di Milano che questo non fusse principio di
volere occupare per il suo re quello stato, contradisse con parole efficaci e
con protesti; e risentendosene quasi non meno di lui l'oratore viniziano,
interponendosene ancora quello di Inghilterra, cedé Lautrech, benché con grave
indignazione, di lasciarla libera al duca di Milano: cosa che fu forse di molto
pregiudizio a quella impresa, perché è opinione di molti che più
negligentemente attendesse allo acquisto di Milano o per sdegno o per
riservarlo a tempo che, senza rispetto d'altri, potesse tirarlo a suo profitto.
Dopo la perdita
di Alessandria, non essendo dubbio che Lautrech si dirizzerebbe alla impresa di
Milano o di Pavia, è fama che Antonio de Leva, col quale erano centocinquanta
uomini d'arme e cinquemila fanti tra tedeschi e spagnuoli, diffidandosi di
potere difendere Milano con sì poca gente e con tante difficoltà, pensò di ritirarsi
a Pavia; nondimeno, considerando essere poche vettovaglie in Pavia, né potersi
in quella città sostentare l'esercito con le estorsioni, come acerbissimamente
aveva fatto a Milano, deliberò finalmente di fermarvisi, e mandò alla guardia
di Pavia Lodovico da Belgioioso; e a' milanesi, i quali vollono comperare con
danari la licenza di partirsi, la concedette. Ma Lautrech, per rimuovere le
difficoltà le quali potessino ritardarlo, fatta tregua con Cerviglione
spagnuolo il quale era alla guardia di Case, benché molto diminuito di
svizzeri, procedendo innanzi occupò Vigevano; e dipoi fatto uno ponte sopra il
Tesino, e per quello (secondo credo) passato l'esercito, si inviò verso
Benerola, villa propinqua a quattro miglia a Milano; dimostrando di volere andare,
come lo confortavano i viniziani, a campo a quella città, ma veramente risoluto
a quella deliberazione che gli paresse più facile. Ma avendo inteso, come fu
appropinquato a otto miglia a Milano, il Belgioioso avervi la notte dinanzi
mandati quattrocento fanti, in modo che in Pavia non erano restati se non
ottocento, voltato il cammino, andò il dì seguente, che fu il vigesimo ottavo
dì di settembre, al monasterio della Certosa e dipoi con celerità grande si
pose a campo a Pavia; al soccorso della quale città avendo Antonio de Leva,
come intese la mutazione di Lautrech, mandato tre bandiere di fanti, non
potettono entrarvi, in modo che per il piccolo numero de' difensori non pareva
potersi resistere: e nondimeno il Belgioioso, supplicandolo il popolo della città
che permettesse loro che per fuggire il sacco e la distruzione della città si
accordassino, lo recusò. Ma avendo Lautrech continuato di battere quattro dì, e
gittato in terra tanto muro che i pochi difensori non bastavano a ripararlo,
alla fine il Belgioioso mandò uno trombetto a Lautrech; il quale non avendo
potuto parlargli così presto, perché per sorte era andato nel campo de'
viniziani, i soldati accostatisi entrorono nella terra per le rovine del muro:
il che vedendo il Belgioioso, aperta la porta, uscì fuora ad arrendersi a'
franzesi, da' quali fu mandato prigione a Genova. La città andò a sacco, e vi
fu per otto dì continui usata da' franzesi crudeltà grande e fatti molti
incendi, per memoria della rotta ricevuta nel barco. Disputossi poi se era da
andare alla impresa di Milano o da procedere verso Roma. Instavano i fiorentini
che andasse innanzi, per timore che, fermandosi Lautrech in Lombardia, lo
esercito imperiale non uscisse di Roma a' danni loro; contradicevano i
viniziani e il duca di Milano, venuto personalmente a Pavia a fare questa
instanza, allegando la opportunità grande che si aveva di pigliare Milano e il
profitto che se ne traeva ancora alla impresa di Napoli, perché preso Milano
non restava speranza agli imperiali di avere soccorso di Germania, ma restando
aperta questa porta si aveva sempre a temere che, venuto da quella banda grosso
esercito, o non mettesse in pericolo Lautrech o non lo divertisse dalla impresa
di Napoli: il quale rispose essere necessitato a andare innanzi per i comandamenti
del suo re e del re d'Inghilterra, che principalmente l'avevano mandato in
Italia per la liberazione del pontefice. Alla quale deliberazione si crede lo
potesse indurre il sospetto che, se si acquistava il ducato di Milano, i
viniziani, riputandosi assicurati dal pericolo della grandezza di Cesare, non
fussino negligenti ad aiutarlo alla impresa del regno di Napoli; e forse non
meno il parere al re essere utile alle cose sue che Francesco Sforza non
ricuperasse interamente quello stato, acciò che, restando a lui facoltà di
offerire di lasciarlo a Cesare, conseguisse più facilmente la liberazione de'
figliuoli per via di accordo: il quale continuamente si trattava, appresso a
Cesare, per gli oratori franzesi e inghilesi e viniziani.
Ma in questo
trattato nascevano molte difficoltà, perché Cesare faceva instanza che la causa
di Francesco Sforza si vedesse di ragione, e che pendente la cognizione fusse
posseduto da sé tutto lo stato; promettendo in ogni caso di non lo appropriare a
se medesimo: dimandava che i viniziani pagassino allo arciduca il resto de'
dugentomila ducati dovutigli per i capitoli di Vormazia; il che l'oratore
veneto non ricusava, adempiendo l'arciduca e restituendo i luoghi a che era
obligato: dimandava che a' fuorusciti loro, come già era stato convenuto, o
restituissino centomila ducati o consegnassino entrata di cinquemila; pagassino
a lui quello erano debitori per la confederazione fatta seco, la quale voleva
si rinnovasse: restituissino alla Chiesa Ravenna, e rilasciassino quanto
tenevano nello stato di Milano: dimandava a' fiorentini trecentomila ducati,
per le spese fatte e danni avuti per la loro inosservanza: consentiva che il re
di Francia pagasse al re di Inghilterra per lui il debito de' quattrocento cinquantamila
ducati; del resto, insino in due milioni, dimandava staggi: voleva le dodici
galee dal re di Francia per l'andata sua in Italia, ma non più né cavalli né
fanti: e che, subito che fusse stipulata la concordia, si partissino tutte le
genti franzesi di Italia, il che il re recusava se prima non gli erano
restituiti i suoi figliuoli. Le quali dimande quando si sperava mitigasse, lo
fece (secondo il costume suo di non cedere alle difficoltà) più pertinace la
perdita di Alessandria e di Pavia, in modo che, essendo venuto a lui il
quintodecimo dì di ottobre, di Inghilterra, l'auditore della camera, a
sollecitare in nome di quello re la liberazione del pontefice, rispose avere
proveduto per il generale; e che quanto allo accordo non voleva, né per amore
né per forza, alterare le condizioni che aveva proposte prima. Ma certamente si
comprendeva non essere Cesare molto inclinato alla pace, perché contro alla
potenza degli inimici gli davano animo molte cagioni: perché confidava avere a
resistere in Italia, per la virtù del suo esercito e per la facilità del
difendere le terre; potere sempre con piccola difficoltà fare passare nuovi
fanti tedeschi; essere esausti il re di Francia e i viniziani per le lunghe
spese, le provisioni loro (come è consueto nelle leghe) interrotte e diminuite;
confidarsi di potere esigere danari di Spagna a bastanza, con ciò sia che
sostentava la guerra con spese molto minori (per le rapine de' soldati) che gli
avversari, e perché sperava di disunire o di fare più negligenti i collegati
con qualche arte; e finalmente perché molto si prometteva della sua grandissima
felicità, comprovata con la esperienza di molti anni, e pronunziatagli con
innumerabili vaticini insino da puerizia.
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