XIV. Indugi di Lautrech per ordini del re di Francia. Condizioni con cui il
duca di Ferrara si allea ai confederati; entrata del marchese di Mantova nella
confederazione. Posizioni degli eserciti nemici nell'Italia centrale; ancora
della lentezza del Lautrech. Accordi per la liberazione del pontefice dalla
prigionia. Il pontefice a Orvieto.
Ma in questo
tempo Lautrech (per l'autorità del quale, come arrivò in Italia, il duca di
Ferrara aveva operato che i Mariscotti restituissino a' bolognesi Castelfranco,
e che i Bentivogli deponessino l'armi) sollecitava che l'armate marittime,
destinate a assaltare o la Sicilia o il reame di Napoli, procedessino innanzi;
delle quali la viniziana, non essendo le provisioni loro né per terra né per
mare pari alle obligazioni, era a Corfù, e sedici galee dovevano andare a
unirsi con Andrea Doria, il quale aspettava nella riviera di Genova Renzo da
Ceri, destinato co' fanti a quella impresa. Rimandò di poi Lautrech in Francia
quattrocento lancie e tremila fanti, e convenne co' viniziani, i quali
confortava a restituire Ravenna al collegio de' cardinali, e col duca di Milano
che, per difendere quello che si era acquistato, tenessino le genti loro, con
le quali erano Ianus Fregoso e il conte di Caiazzo, in alloggiamento molto
fortificato a Landriano, villa vicina a due miglia a Milano; per la vicinità
de' quali non potendo allargarsi le genti che erano in Milano, si stimava
aversi facilmente a guardare Pavia, Moncia, Biagrassa, Marignano, Binasco,
Vigevano e Alessandria: egli, stabilite queste cose, passò, con mille
cinquecento svizzeri, altanti tedeschi e seimila tra franzesi e guasconi, il
decimo ottavo dì di ottobre, il Po a riscontro di Castel San Giovanni, con
intenzione di aspettare i fanti tedeschi, de' quali era arrivata insino a quel
dì piccola parte, e un'altra banda pure di fanti della medesima nazione, i
quali il re di Francia aveva mandato a soldare di nuovo in luogo de' svizzeri,
già resoluti quasi tutti. Dal quale luogo fu necessitato fare ritornare di là
dal Po Pietro Navarra co' fanti guasconi e italiani, al soccorso di Biagrassa;
alla quale terra, custodita dal duca di Milano, Antonio de Leva, intendendo
essere male proveduta, era, il vigesimo ottavo dì di ottobre, andato a campo
con quattromila fanti e sette pezzi d'artiglierie, e ottenutola il secondo dì
per accordo, si preparava per passare nella Lomellina alla recuperazione di
Vigevano e di Novara; ma intesa la venuta di Pietro Navarra con maggiori forze,
si ritornò a Milano: donde al Navarra fu facile recuperare Biagrassa, nella
quale Francesco Sforza messe migliori provisioni. Vedevasi già manifestamente
differire industriosamente Lautrech il partirsi; e benché allegasse averlo
ritenuto la espettazione de' fanti tedeschi, con una banda de' quali era pure
finalmente venuto Valdemonte (gli altri si aspettavano), e si lamentasse per
tutto delle piccole provisioni de' viniziani, nondimeno si dubitava ne fusse
stato cagione l'aspettare danari di Francia: ma la cagione più vera e più
potente era che il re, sperando la pace, la pratica della quale era stretta con
Cesare, gli aveva commesso che, dissimulando questa cagione, procedesse
lentamente. Da che anche era nato che il re non era stato pronto a pagare la
parte sua degli alamanni, che si conducevano in luogo de' svizzeri, né quegli
che prima erano destinati a venire con Valdemonte.
Con queste o
necessità o escusazioni soprastando Lautrech a Piacenza con le genti alloggiate
tra Piacenza e Parma, si rimosse la difficoltà avuta prima del duca di Ferrara:
il quale che entrasse nella confederazione aveva Lautrech, subito che arrivò in
Italia, fatto instanza grande; cosa da una parte desiderata dal duca per il
parentado che gli era proposto col re di Francia, da altra ritenendolo la
diffidenza che aveva del valore de' franzesi, e il sospetto che il re
finalmente per recuperare i figliuoli non concordasse con Cesare; ma temendo
de' minacci di Lautrech, aveva dimandato che le cose sue si trattassino a
Ferrara, perché voleva maneggiare le cose che tanto gli importavano da se
medesimo. Perciò andorono a Ferrara gli imbasciadori di tutti i collegati, e in
nome de' cardinali congregati a Parma il cardinale Cibo: dove, alla fine, mosso
il duca dal procedere innanzi di Lautrech, sforzatosi di fare capaci il
capitano Giorgio e Andrea di Burgo, che molto onorati e intrattenuti da lui
erano a Ferrara, accordò, ma con condizioni che dimostrorno o la industria sua
nel sapere bene negoziare, e che non invano avesse voluto tirare la pratica
alla presenza sua, o la cupidità grande che ebbeno gli altri di tirarlo nella
confederazione. Nella quale entrò con obligazione di pagare ogni mese, per
tempo di sei mesi, da sei a diecimila scudi secondo la dichiarazione del re di
Francia, il quale dichiarò poi di seimila; e dare a Lautrech cento uomini
d'arme pagati: e da altra parte, si obligorno i confederati alla protezione di
lui e del suo stato; a dargli Cotignuola, tolta poco innanzi da' viniziani agli
spagnuoli, in cambio della città antica e quasi disabitata di Adria, la quale
instantemente dimandava; fargli restituire i palazzi che già possedeva in
Vinegia e in Firenze; permettergli contro ad Alberto Pio l'acquisto della
fortezza di Novi, posta appresso a' confini del Mantuano, la quale allora
teneva assediata; pagassingli i frutti dello arcivescovado di Milano, se gli
imperiali gli molestassino all'arcivescovo suo figliuolo. Obligò il cardinale
Cibo, in nome de' cardinali i quali promettevano la ratificazione del collegio,
il pontefice a rinnovare la investitura di Ferrara, a renunziare alle ragioni
di Modena per la compra fatta da Massimiliano, ad annullare le obligazioni de'
sali, a consentire alla protezione che i collegati preseno di lui, a promettere
per bolle apostoliche di lasciare possedere a lui e a' suoi successori tutto
quello possedeva; e che il pontefice farebbe cardinale il figliuolo, e gli
conferirebbe il vescovado di Modena, vacante per la morte del cardinale
Rangone. Con la quale confederazione si congiunse il parentado di Renea,
figliuola del re Luigi, in Ercole suo primogenito, col ducato di Ciartres in
dota e altre onorate condizioni. Entrò anche il marchese di Mantova, per la
instanza di Lautrech, nella confederazione, benché prima si fusse condotto agli
stipendi di Cesare.
Ma era in
questo tempo indebolito molto l'altro esercito de' confederati, il quale stette
ozioso molti dì tra Fuligno, Montefalco e Bevagna; del quale il duca di Urbino,
intesa la custodia che si faceva in Vinegia della moglie e del figliuolo,
partitosi contro alla commissione del senato per andare in poste a
giustificarsi, ricevuto in cammino avviso della loro liberazione, e che il
senato sodisfatto di lui desiderava non andasse più innanzi, ritornò allo
esercito: nel quale i svizzeri e i fanti del marchese non erano pagati; e i
viniziani, né quivi né in Lombardia, dove erano obligati a tenere novemila
fanti, ne tenevano la terza parte. Ritiroronsi di poi in quello di Todi e
all'intorno; e gli spagnuoli, alla fine di novembre, erano verso Corneto e
Toscanella; i tedeschi a Roma, a' quali era ritornato il principe di Oranges da
Siena: dove, andato vanamente per riordinare quello governo, dimorò poco. Né si
dubita, che se l'esercito imperiale si fusse fatto innanzi, che il duca di
Urbino e il marchese di Saluzzo si sarebbono ritirati con l'esercito alle mura
di Firenze; benché per iattanza spesso parlassino che, per impedire a loro la
venuta in Toscana, farebbeno uno alloggiamento o tra Orvieto e Viterbo o nel
territorio sanese, verso Chiusi e Sartiano. Ma Lautrech, non ostante fussino
arrivati i fanti tedeschi, procedendo, per la espettazione della pratica della
pace, con la consueta tardità, si era fermato a Parma: nella quale città,
benché vi fussino i cardinali, ridotte in potestà sua le fortezze, e riscossi
da tutt'a due quelle città e de' territori loro circa cinquantamila ducati, si
credeva che avesse in animo non solo tenere in potestà sua Parma e Piacenza ma,
perché Bologna dependesse dalla autorità del re, volgere il primato di quella
città nella famiglia de' Peppoli. I quali disegni fece vani la liberazione del
pontefice. Alla quale benché da principio non paresse che Cesare condiscendesse
prontamente, perché dopo la nuova della cattività aveva tardato più di uno mese
a farne deliberazione alcuna, nondimeno, intesa poi la andata di Lautrech in
Italia e la prontezza del re di Inghilterra alla guerra, aveva mandato in
Italia il generale di San Francesco e Veri di Migliau con commissione sopra
questo negozio al viceré; il quale essendo, in quegli dì che arrivò il
generale, morto a Gaeta, fu necessario trattare il negozio con don Ugo di
Moncada, al quale anche si distendeva il mandato di Cesare, e il quale il
viceré aveva sostituito in suo luogo insino a tanto che sopra il governo del regno
venisse da Cesare nuova ordinazione: e avendo il generale comunicato con don
Ugo, andò a Roma, e insieme con lui [Migliau] venuto di Spagna con le medesime
commissioni che il generale. Conteneva questo negozio due articoli principali:
l'uno, che il pontefice sodisfacesse all'esercito creditore di somma
grossissima di denari; l'altro, la sicurtà di Cesare che il pontefice,
liberato, non si aderisse co' suoi inimici; e in questo si proponevano dure
condizioni di statichi e di sicurtà di terre. Trattossi per queste difficoltà
la cosa lungamente: la quale per facilitare, il pontefice aveva spesso
sollecitato e continuamente sollecitava, ma occultamente, Lautrech a farsi
innanzi, affermando essere sua intenzione di non promettere cosa alcuna
agl'imperiali se non forzato, e che in tale caso, uscito di carcere, non
osserverebbe, come prima potesse condursi in luogo sicuro; il che cercherebbe
di fare col dare loro manco comodità potesse; e se pure accordasse, lo pregava
che la compassione de' suoi infortuni e delle necessità facessino la scusa per
lui. La qual cosa mentre che si trattava, gli statichi, con indegnazione
gravissima de' fanti tedeschi, fuggirono occultamente di Roma, alla fine di
novembre. Lunga fu la discettazione sopra questa materia, non essendo anche di
una medesima sentenza quegli che avevano a determinare: perché don Ugo, benché
avesse mandato a Roma Serone suo secretario insieme con gli altri, v'aveva, per
la malignità della sua natura e per avere l'animo alieno dal pontefice, piccola
inclinazione; il generale, tutto il contrario, per la cupidità di diventare
cardinale; Migliau contradiceva come a cosa pericolosa a Cesare, e non potendo
resistere se ne andò, a Napoli; della quale empietà patì le pene, perché ne'
primi dì dello assedio, scaramucciando, fu morto di uno archibuso. Né mancava
il pontefice a se medesimo; perché tirò nella sentenza sua Ieronimo Morone, il
consiglio del quale era in tutte le deliberazioni di grande autorità; conferito
il vescovado di Modena al figliuolo, e promessi a lui certi frumenti suoi che
erano a Corneto, di valore di più di dodicimila ducati. Ma non con minore
industria si fece propizio il cardinale Colonna; promessagli la legazione della
Marca, e dimostrandogli, quando, venuto a Roma, l'andò a visitare nel Castello,
di volere essere a lui principalmente debitore di tanto beneficio; e
artificiosamente instillandogli negli orecchi: che maggiore gloria o che
maggiore felicità potesse desiderare che farsi noto a tutto il mondo essere in
potestà sua deprimere i pontefici, in potestà sua, quando erano annichilati,
fargli ritornare nella pristina grandezza. Dalle quali cose commosso quel
cardinale, elatissimo e ventosissimo per natura, aiutò prontamente la
liberazione; credendo fusse così facile al pontefice, liberato, dimenticarsi di
tante ingiurie come facilmente gli aveva, prigione, raccomandato
umilissimamente con prieghi e con lacrime la sua liberazione. Alleggerì in
qualche parte le difficoltà la nuova commissione di Cesare, il quale instava
che il pontefice si liberasse con più sodisfazione sua che fusse possibile:
soggiugnendo bastargli che, liberato, non aderisse più a' collegati che a lui.
Ma si crede giovasse più che alcuna altra cosa la necessità che avevano, per il
timore della venuta di Lautrech, di condurre quello esercito alla difesa del
reame di Napoli; cosa impossibile se prima non era assicurato degli stipendi
decorsi, in ricompenso de' quali recusavano ammettere tante prede e tanti
guadagni fatti nel tempo medesimo. Questa necessità del provedere a' pagamenti
fu anche cagione che manco si pensasse allo assicurarsi, per il tempo futuro,
del pontefice. Conchiusesi finalmente, credo l'ultimo dì di ottobre dopo lunga
pratica, la concordia in Roma col generale e con Serone in nome di don Ugo, che
poi ratificò: non avversasse il papa a Cesare nelle cose di Milano e di Napoli;
concedessegli la crociata in Spagna, e una decima delle entrate ecclesiastiche
in tutti i suoi regni; rimanessino, per sicurtà della osservanza, in mano di
Cesare Ostia e Civitavecchia, stata prima rilasciata da Andrea Doria;
consegnassegli Civita Castellana, la quale terra, essendo entrato nella rocca
per commissione secretissima del pontefice, benché simulasse il contrario,
Mario Perusco procuratore fiscale, aveva ricusato di ammettere gli imperiali;
consegnassegli eziandio la rocca di Furlì, e per statichi Ippolito e Alessandro
suoi nipoti, e insino a tanto venissino a Parma, i cardinali Pisano, Triulzio e
Gaddi, che furono condotti da loro nel regno di Napoli; pagasse subito a'
tedeschi credo ducati sessantasettemila, agli spagnuoli trentacinquemila, con
questo che lo lasciassino libero con tutti i cardinali, e uscissinsi di Roma e
del Castello, chiamandosi libero ogni volta fusse condotto salvo in Orvieto,
Spoleto o Perugia; e fra quindici dì dopo l'uscita di Roma pagasse altanti
danari a' tedeschi, e il resto poi (che credo ascendeva, co' primi, a ducati
più di trecento cinquantamila) pagasse infra tre mesi a' tedeschi e spagnuoli,
secondo le rate loro. Le quali cose per potere osservare, il pontefice,
ricorrendo per uscire di carcere a quegli rimedi a' quali non era voluto
ricorrere per non vi entrare, creò per danari [alcuni] cardinali, persone la
maggiore parte indegne di tanto onore; per il resto, concedette nel reame di
Napoli decime e facoltà di alienare de' beni ecclesiastici: convertendosi per
concessione del vicario di Cristo (così sono profondi i giudìci divini) in uso
e in sostentazione di eretici quel che era dedicato al culto di Dio. Co' quali
modi avendo stabilito e assicurato di pagare a' tempi promessi, dette anche per
statichi, per la sicurtà de' soldati, i cardinali Cesis e Orsino, che furono
condotti dal cardinale Colonna a Grottaferrata; ed essendo spedite tutte le
cose, e stabilito che il nono dì di dicembre dovessino gli spagnuoli
accompagnarlo in luogo sicuro, egli, temendo di qualche variazione per la mala
volontà che sapeva avere don Ugo, e per ogni altra cagione che potesse
interrompere, la notte dinanzi, uscito segretamente al principio della notte,
in abito di mercatante, del Castello, fu da Luigi da Gonzaga soldato degli
imperiali, che con grossa compagnia di archibusieri l'aspettava ne' Prati,
accompagnato insino a Montefiascone: dove licenziati quasi tutti i fanti, Luigi
medesimo l'accompagnò insino a Orvieto, nella quale città entrò di notte, non
accompagnato da alcuno de' cardinali. Esempio certamente molto considerabile e
forse non mai, da poi che la Chiesa fu grande, accaduto: uno pontefice, caduto
di tanta potenza e riverenza, essere custodito prigione, perduta Roma, e tutto
lo stato ridotto in potestà d'altri: il medesimo, in spazio di pochi mesi,
restituito alla libertà, rilasciatogli lo stato occupato, e in brevissimo tempo
poi ritornato alla pristina grandezza. Tanta è appresso a' prìncipi cristiani
l'autorità del pontificato, e il rispetto che da tutti gli è avuto.
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