XV. Fazioni di guerra in Lombardia. Sfortunata impresa delle navi dei
collegati contro la Sardegna; il Lautrech a Bologna e sue trattative col
pontefice. Condotta contradditoria del pontefice verso gli alleati. Vane
pratiche di pace fra gli ambasciatori dei collegati e Cesare; intimazione di
guerra.
Nel quale tempo
Antonio de Leva, dopo la partita di Lautrech da Piacenza, mandò fuora di Milano
i fanti spagnuoli e italiani, perché si pascessino, perché recuperassino i
luoghi più deboli del paese, e perché aprissino le comodità del condursi le
vettovaglie a Milano; quali presono quella parte del contado di sopra che si
chiama Sepri. Mandò anche Filippo Torniello con mille dugento fanti e con
alcuni cavalli a Novara, nella quale città erano quattrocento fanti del duca di
Milano. Entrovvi il Torniello per la rocca, tenutasi sempre in nome di Cesare;
de' fanti sforzeschi si ridusse una parte in Arona l'altra in Mortara. A' quali
avendo il duca aggiunti altri fanti per la difesa della Lomellina e del paese,
non era libero al Torniello lo allargarsi molto: in modo che, non si facendo
per quella vernata altre fazioni che spesse scaramuccie, attendevano tutti a rubare,
gli amici e i nimici, conducendo a ultimo eccidio tutto il paese.
Eransi anche in
questo tempo congiunte, a Livorno, [le galee d']Andrea Doria e quattordici
galee franzesi con le sedici galee de' viniziani; e avendo ricevuto Renzo da
Ceri con tremila fanti per porre in terra, partirono il terzodecimo dì di
novembre da Livorno: e benché prima fusse stato determinato che assaltassino
l'isola di Sicilia, mutato consiglio, si voltorono alla impresa di Sardigna,
per i conforti, secondo si credette, di Andrea Doria, e perché già avesse nel
petto nuovi concetti. Acconsentì a questa impresa Lautrech, per la speranza che
presa la Sardigna si facilitasse molto l'acquisto della Sicilia. Quello che ne
fusse la cagione, travagliate in mare da tristissimi tempi, separate, andorno
vagando per mare: una delle galee franzesi andò a traverso appresso a' liti di
Sardigna; quattro delle galee viniziane, molto battute, ritornorono a Livorno;
le franzesi scorsono per l'impeto de' venti in Corsica, dove poi in Porto
Vecchio si ricongiunsono seco quattro galee de' viniziani; l'altre otto furono
traportate a Livorno. Finalmente la impresa risolvette, restando insieme in
molta discordia Andrea Doria e Renzo da Ceri. Ma Lautrech, il quale ricevé
quando era in Reggio avviso della, liberazione del pontefice, rilasciata la
fortezza di Parma a' ministri ecclesiastici, andò a Bologna; nella quale città,
arrivato il vigesimo dì del mese medesimo, si fermò aspettando la venuta degli
ultimi fanti tedeschi; i quali pochi dì poi si condussono nel bolognese, non in
numero seimila, come era destinato, ma solamente tremila: e nondimeno soggiornò
venti dì in Bologna, aspettando avviso dal re di Francia dell'ultima
risoluzione circa la pratica della pace, e instando intratanto con somma
diligenza col pontefice, insieme con l'autorità del re di Inghilterra, perché
apertamente aderisse a' collegati.
Al quale ne'
primi che arrivò a Orvieto, essendo andati a lui a congratularsi il duca di
Urbino il marchese di Saluzzo, Federigo da Bozzole (il quale pochi dì poi morì
di morte naturale a Todi) e Luigi Pisano proveditore viniziano, gli aveva con
grandissima instanza ricercati che levassino le genti loro dello stato
ecclesiastico, affermando gli imperiali avergli promesso che si partirebbono
ancora essi dello stato della Chiesa in caso che l'esercito de' confederati
facesse il medesimo. Aveva anche scritto uno breve a Lautrech, [ringraziandolo]
dell'opere fatte per la sua liberazione e dell'averlo confortato a liberarsi in
qualunque modo; le quali opere erano state di tanto momento a costrignere gli
imperiali a determinarsi che non meno si pretendeva obligato al re e a lui che
se fusse stato liberato con l'armi loro, i progressi delle quali arebbe
volentieri aspettato se la necessità non l'avesse indotto, perché continuamente
gli erano mutate in peggio le condizioni proposte, e perché apertamente aveva
compreso non potere se non per mezzo della concordia conseguire la sua
liberazione; la quale quanto più si differiva tanto procedeva in maggiore
precipizio la autorità e lo stato della Chiesa: ma sopra tutto averlo mosso la
speranza d'avere a essere instrumento opportuno a trattare col suo re e con gli
altri prìncipi cristiani il bene comune. Queste furono da principio le sue parole,
sincere e semplici come pareva convenire allo officio pontificale, e di uno
pontefice specialmente che avesse avuto da Dio sì gravi e sì aspre ammonizioni:
nondimeno, ritenendo la sua natura solita, né avendo per la carcere deposte né
le sue astuzie né le sue cupidità, arrivati che furono a lui (già cominciato
l'anno mille cinquecento ventotto) gli uomini mandati da Lautrech e Gregorio da
Casale oratore del re di Inghilterra, a ricercarlo che si confederasse con gli
altri, cominciò a dare varie risposte: ora dando speranza ora scusandosi che,
non avendo né danari né gente né autorità, sarebbe a loro inutile il suo
dichiararsi, e nondimeno a sé potrebbe essere nocivo perché darebbe causa agli
imperiali di offenderlo in molti luoghi, ora accennando di volere sodisfare a
questa dimanda se Lautrech venisse innanzi: cosa molto desiderata da lui perché
i tedeschi avessino necessità di partirsi di Roma; i quali, consumando le
reliquie di quella misera città e di tutto il paese circostante, e deposta
totalmente la obbedienza de' capitani, tumultuando spesso tra loro, ricusavano
di partirsi, dimandando nuovi denari e pagamenti.
Ma alla fine
dell'anno precedente, e molto più nel principio dell'anno medesimo,
cominciorono manifestamente ad apparire vane le pratiche della pace, per le
quali si esacerborono molto più gli animi de' prìncipi: perché, essendo
risolute quasi tutte le difficoltà (con ciò sia che Cesare non negasse di
restituire il ducato di Milano a Francesco Sforza, e di comporre co' viniziani
e co' fiorentini e con gli altri confederati), si disputava solamente quale
cosa s'avesse prima a mettere in esecuzione, o la partita dello esercito del re
di Francia di Italia o la restituzione de' figliuoli. Negava il re di obligarsi
a Cesare, restando a lui Genova, Asti e Edin, a levare l'esercito di Italia, se
prima non recuperava i figli, ma offeriva statichi in mano del re di
Inghilterra, per sicurtà della osservanza delle pene alle quali si obligava se
recuperati i figli non levasse subito l'esercito; Cesare instava del contrario,
offerendo le medesime cauzioni in mano del re di Inghilterra. E disputandosi
chi fusse più onesto che si fidasse dell'altro, diceva Cesare non si potere
fidare di chi una volta l'aveva ingannato; a che rispondevano argutamente gli
oratori franzesi che quanto più si pretendeva ingannato dal re di Francia tanto
manco poteva il re di Francia fidarsi di lui; né la offerta di Cesare, di dare
le sicurtà medesime in mano del re di Inghilterra che offeriva di dare il re di
Francia, essere offerta pari perché anche non era pari il caso, con ciò sia che
fusse di tanto maggiore momento quello che Cesare prometteva di fare che quello
che prometteva il re di Francia, e però non assicurare le sicurtà medesime.
Soggiunseno in ultimo che gli oratori del re di Inghilterra, quali avevano
mandato dal suo re di obligarlo a fare osservare quello che promettesse il re
di Francia, non avevano mandato a obligarlo per l'osservanza di quello
promettesse Cesare; e che, essendo le facoltà loro terminate e con tempo
prefisso, non potevano né trasgredire né aspettare. Sopra la quale disputa non
si trovava risoluzione alcuna, perché Cesare non aveva la medesima inclinazione
alla pace che aveva il suo consiglio, persuadendosi, eziandio perduto Napoli,
poterlo riavere con la restituzione de' figliuoli: ed era imputato molto il
gran cancelliere, ritornato molto prima in Ispagna, di avere turbato con punti
e con sofistiche interpretazioni. Finalmente gli oratori franzesi e inghilesi
deliberorono, secondo le commissioni che avevano in caso della disperazione
della concordia, di dimandare a Cesare licenza di partirsi, e poi subito fare
intimare la guerra. Con la quale conclusione presentatisi, il vigesimo primo dì
di gennaio, seguitandogli gli oratori de' viniziani del duca di Milano e de'
fiorentini, innanzi a Cesare, residente allora con la corte a Burgus, gli
oratori inghilesi gli dimandorono i quattrocento cinquantamila ducati
prestatigli dal loro re, seicentomila per la pena nella quale era incorso per il
ripudio della figliuola e cinquecentomila per le pensioni del re di Francia e
per altre cagioni: le quali cose proposte per maggiore giustificazione, tutti
gli oratori de' collegati gli dimandorono licenza di partirsi. A' quali rispose
che consulterebbe la risposta che avesse a fare, ma essere necessario che,
anche innanzi alla partita loro, gli oratori suoi fussino in luogo sicuro. E
partiti da lui gli imbasciadori, entrorono subito gli araldi del re di Francia
e del re di Inghilterra a intimargli la guerra: la quale avendo accettata con
lieto animo, ordinò che gli imbasciadori del re di Francia de' viniziani e de'
fiorentini fussino condotti a una villa lontana trenta miglia dalla corte, dove
fu posta loro guardia di arcieri e alabardieri, proibito ogni commercio e la
facoltà dello scrivere; a quello del duca di Milano, come a suo suddito, fece
fare comandamento che non partisse dalla corte; a l'inghilese non fu fatta
innovazione alcuna. E così, rotta ogni pratica della pace, restorono accesi
solamente i pensieri della guerra, condotta e stabilita tutta in Italia.
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