XVI. Il Lautrech muove con l'esercito da Bologna per il regno di Napoli.
Ragioni di diffidenza fra il pontefice e i collegati. Il Lautrech sul Tronto;
accordi fra il re di Francia e quello d'Inghilterra restio a portare la guerra
in Fiandra. Sfida dei re di Francia e d'Inghilterra a Cesare. Desiderio del re
d'Inghilterra che sia annullato il matrimonio suo con Caterina d'Aragona e sue
richieste al pontefice. Atteggiamento del pontefice.
Dove Lautrech,
stimolato dal suo re ma molto più dal re di Inghilterra, poiché cominciò a
indebolire la speranza della pace, era il nono dì di gennaio partito da
Bologna, indirizzandosi al reame di Napoli per il cammino della Romagna e della
Marca; cammino eletto da lui, dopo molta consultazione, contro alla instanza
del pontefice, desideroso, con l'occasione della passata sua, di fare rimettere
in Siena Fabio Petrucci e il Monte de' nove: e contro alla instanza ancora de'
fiorentini, i quali, per fuggire i danni del loro paese, e nondimeno perché
quello esercito fusse più pronto a soccorrergli se gli imperiali, per fare
diversione, si movessino per assaltare la Toscana, approvavano il cammino della
Marecchia. Ma Lautrech elesse di entrare più tosto per la via del Tronto nel
regno di Napoli, per essere cammino più comodo a condurre l'artiglierie e più
copioso di vettovaglie, e per non dare occasione agli inimici di fare testa a
Siena o in altro luogo; desiderando di entrare, innanzi che avesse alcuno
ostacolo, nel regno di Napoli.
Ma come fu
mosso da Bologna, Giovanni da Sassatello restituì la rocca di Imola al
pontefice, la quale quando era prigione aveva occupata; e accostandosi dipoi a
Rimini, Sigismondo Malatesta figliuolo di Pandolfo si convenne seco di
restituire quella città al pontefice, con patto che fusse obligato a lasciare
godere alla madre la dota, a dare seimila ducati alla sorella non maritata e a
consegnare, tra il padre e lui, ducati dumila di entrata; partisse subito di
Rimini Sigismondo, e vi restasse il padre insino a tanto che il pontefice
avesse ratificato, e in questo mezzo stesse la rocca in mano di Guido Rangone
suo cugino; il quale, condotto agli stipendi del re di Francia, seguitava
Lautrech alla guerra. Ma differendo il pontefice a adempiere queste promesse,
Sigismondo occupò di nuovo la rocca, non senza querela grave del pontefice
contro a Guido Rangone, come se tacitamente l'avesse permesso, né senza
sospetto ancora che non vi avessino consentito Lautrech e i viniziani, come
desiderassino tenerlo in continue difficoltà: i viniziani per causa di Ravenna,
la quale avendo il pontefice, subito che fu liberato di Castello, mandato
l'arcivescovo sipontino a dimandare a quel senato, aveva riportato risposta
generale, con rimettersi a quello che gli esporrebbe Gaspare Contareno eletto
oratore a lui; perché se bene avessino prima affermato che la ritenevano per la
sedia apostolica, nondimeno aveano totalmente l'animo alieno dal restituirla, mossi
dallo interesse publico e dallo interesse privato; perché quella città era
molto opportuna ad ampliare lo imperio in Romagna, fertile da se stessa di
frumenti, e per la fertilità delle terre vicine dava opportunità grande a
condurne ciascuno anno in Vinegia, e perché molti viniziani avevano in quel
territorio ampie possessioni. Sospettava dell'animo di Lautrech: perché avendo
Lautrech, oltre a molte instanze fattegli prima, mandato, da poi che era
partito da Bologna, Valdemonte capitano generale di tutti i fanti tedeschi e
Longavilla, a ricercarlo strettissimamente che si dichiarasse contro a Cesare,
potendo, massime per l'approssimarsi l'esercito, farlo sicuramente, non aveva
potuto ottenerlo, non lo denegando il pontefice espressamente ma differendo e
escusando; per la quale cagione aveva offerto al re di Francia di consentirvi,
ma con condizione che i viniziani gli restituissino Ravenna: condizione quale
sapeva non dovere avere effetto, non essendo i viniziani per muoversi a questo
per le persuasioni del re, né comportando il tempo che egli, per sodisfare al
pontefice, se gli provocasse inimici. Aggiugnevasi che anche non udiva la
instanza di Lautrech fatta perché ratificasse la concordia fatta col duca di
Ferrara, allegando essere cosa molto indegna lo approvare, quando era vivo, le
convenzioni fatte in nome suo mentre che era morto; ma che non recuserebbe di
convenire con lui: donde il duca di Ferrara, pigliando questa occasione, faceva
difficoltà, benché ricevuto nella protezione del re di Francia e de' viniziani,
mandare a Lautrech i cento uomini d'arme e di pagargli i danari promessi; come
quello che, dubitando dell'esito delle cose, si sforzava di non aderire tanto
al re di Francia che non gli restasse luogo di placare in qualunque evento
l'animo di Cesare, appresso al quale si era escusato della sua necessità; e
intratteneva continuamente a Ferrara Giorgio Fronspergh e Andrea de Burgo.
Procedeva
nondimeno innanzi Lautrech con l'esercito, col quale arrivò il decimo dì di
febbraio in sul fiume del Tronto, confine tra lo stato ecclesiastico e il regno
di Napoli. Ma in Francia il re, intesa la retenzione del suo imbasciadore,
messe quello di Cesare nel castelletto di Parigi, e ordinò che per tutta
Francia fussino ritenuti i mercatanti sudditi di Cesare. Il medesimo in quanto
allo oratore di Cesare fece il re di Inghilterra; benché, inteso dipoi il suo
non essere stato ritenuto, lo liberò. Ed essendo già bandita la guerra in
Francia in Inghilterra e in Spagna, instava il re in Inghilterra che si
rompesse comunemente la guerra in Fiandra; alla quale egli per dare principio,
aveva fatto correre e predare alcune sue genti in sul paese della Fiandra: non
si facendo per questo da quegli di Fiandra movimento alcuno se non per
difendersi; perché madama Margherita, sforzandosi quanto poteva di estinguere
le occasioni di entrare in guerra col re di Francia, non permetteva che gli
uomini suoi uscissino del suo paese. Ma al re di Inghilterra era anche
molestissimo l'avere la guerra co' popoli di Fiandra: perché, non ostante che
acquistandosi certe terre promessegli prima da Cesare, per sicurtà de' danari
prestati, avessino a essere consegnate a lui, nondimeno e alle entrate sue e al
suo regno era di molto pregiudizio lo interrompere il commercio de' suoi
mercatanti in quella provincia; ma non potendo per le convenzioni fatte
apertamente recusarlo, differiva quanto poteva, allegando che, secondo i
capitoli di quella obligazione, gli era lecito tardare quaranta dì dopo la
intimazione fatta, per dare tempo a' mercatanti di ritirarsi. La quale sua
volontà e la cagione essendo conosciuta dal re cristianissimo, dopo avere
trattato insieme di assaltare, in luogo della guerra di Fiandra, con armate
marittime le marine della Spagna, affermando il re di Francia avere
intelligenza in quelle parti. Le quali cose partorirono finalmente che il re
d'Inghilterra, avendo mandato in Francia il vescovo batoniense per persuadere a
lasciare le imprese di là da' monti e a crescere le forze e la guerra d'Italia,
per consigli e conforti suoi si [convenne] che, per tempo di otto mesi
prossimi, si levassino le offese tra il re di Francia il re di Inghilterra e il
paese di Fiandra, con gli altri stati circostanti sottoposti a Cesare: alla
quale [tregua] perché il re di Francia condiscendesse più facilmente si obligò
il re di Inghilterra a pagare, ogni mese, trentamila ducati per la guerra di
Italia, per la quale era finita la contribuzione promessa prima per sei mesi.
Ma così come
continuamente si accrescevano le preparazioni alla guerra si accendevano molto
più gli odii tra i prìncipi, pigliando qualunque occasione di ingiuriarsi e di
contendere, non meno con l'animo e con la emulazione che con l'armi. Perché
avendo Cesare, circa due anni innanzi, in Granata, in tempo che similmente si
trattava la pace tra il re di Francia e lui, detto al presidente di Granopoli
oratore del re di Francia certe parole le quali inferivano che, volentieri,
acciò che delle differenze loro non avessino a patire più i popoli cristiani e
tante persone innocenti, le diffinirebbe seco con battaglia singolare, e dipoi
replicate all'araldo, quando ultimatamente gli aveva intimata la guerra, le
parole medesime, aggiugnendogli di più, il suo re essersi portato bruttamente a
mancargli della fede data, il re di Francia, avendo intese queste parole, e
parendogli di non potere senza sua ignominia passarle con silenzio, ancora che
la richiesta di Cesare fusse richiesta forse più degna tra cavalieri che tra
tali prìncipi, convocati il vigesimo settimo dì di marzo in una grandissima
sala del palazzo suo (credo di Parigi) tutti i prìncipi tutti gli imbasciadori
e tutta la corte, nella quale presentatosi dipoi lui con grandissima pompa di
vestimenti ricchissimi e di molto ornata compagnia, e postosi a sedere nella
sedia regale, fece chiamare l'oratore di Cesare il quale, perché si era
determinato che, condotto a Baiona, fusse liberato nel tempo medesimo che
fussino liberati gli imbasciadori de' confederati, i quali per questo si
conducevano a Baiona, dimandava di espedirsi da lui. Parlò il re scusandosi che
principalmente Cesare, per avere con esempio nuovo e inumano ritenuto gli
imbasciadori suoi e de' suoi collegati, era stato causa che anche egli fusse
ritenuto; ma che dovendo ora andare a Baiona, perché in uno tempo medesimo si
facesse la liberazione di tutti, desiderava portasse a Cesare una sua lettera
ed esponesse una ambasciata di questo tenore: che avendo Cesare detto allo
araldo che egli aveva mancato alla sua fede, aveva detto cosa falsa, e che tante
volte mentiva quante volte lo replicava; e che in luogo di risposta, per non
tardare la diffinizione delle loro differenze, gli mandasse il campo dove
avessino tutti due insieme a combattere. E ricusando lo imbasciadore di portare
e la lettera e la imbasciata, soggiunse che gli manderebbe, a fare intendere il
medesimo, l'araldo; e che sapendo anche che aveva detto parole contro all'onore
del re di Inghilterra suo fratello, non parlava di questo perché sapeva quel re
essere bastante a difenderlo, ma che, se per indisposizione del corpo fusse
impedito, che offeriva di mettere al cimento la sua persona per lui. La
medesima disfida fece, pochi dì poi, con le medesime solennità e cerimonie, il
re d'Inghilterra: non passando però con molto onore de' primi prìncipi della
cristianità che, avendo insieme guerra tanto importante e di tanto pregiudizio
a tutta la cristianità, implicassino anche l'animo in simili pensieri.
E nondimeno, in
tanto ardore di guerra e d'armi, non si divertiva il re di Inghilterra dalle
cure amatorie: le quali, cominciando a empiere il petto suo di furore,
partorirono in ultimo crudeltà e sceleratezze orrende e inaudite; con infamia
grandissima e eterna del nome suo, che acquistato da Leone il titolo di
difensore della fede per dimostrarsi osservantissimo della sedia apostolica, e
per avere fatto scrivere in nome suo uno libro contro alla empietà e velenosa
eresia di Martino Luter, acquistò titolo e nome di empio oppugnatore e
persecutore della cristiana religione. Aveva per moglie il re d'Inghilterra
Caterina figliuola già di Ferdinando e di Elisabella, re di Spagna, regina
certamente degna di tali genitori, e che per le virtù e prudenza sua era in
sommo amore e venerazione appresso a tutto quel regno: la quale, vivente Enrico
padre suo, era stata prima maritata ad Artù figliuolo suo primogenito; col
quale poi che ebbe dormito, restata vedova per la immatura morte del marito, fu
di comune consentimento del padre e del suocero maritata a Enrico minore
fratello, precedente, per l'impedimento della affinità tanto stretta, la
dispensazione di Giulio pontefice. Del quale matrimonio essendone nato uno
figliuolo maschio, che con immatura morte fu tolto loro, non ne nacque altri
figliuoli che una figliuola femmina: susurrando già, massime alcuni per la
corte, che, per essere il matrimonio illecito e non dispensabile in primo
grado, erano miracolosamente privati di figliuoli maschi. Da che, e dal
desiderio che sapeva avere il re di figliuoli, presa occasione il cardinale
eboracense, cominciò a persuadere al re che, ripudiata la prima moglie che
giustamente non era moglie, contraesse un altro matrimonio: movendolo a questo
non la coscienza, né la cupidità per se stessa che il re avesse successori
maschi, ma il persuadersi di potere indurre il re a pigliare Renea figliuola
del re Luigi; il che desiderava estremamente, perché, conoscendo essere esoso a
tutto il regno, desiderava di prepararsi a tutto quello che potesse succedere e
in vita e dopo la morte del re; e inducendolo anche l'odio grande che aveva
conceputo contro a Cesare, perché né con dimostrazioni né con fatti sodisfaceva
alla maravigliosa sua superbia: né dubitava, per l'autorità grande che avevano
il re ed egli nel pontefice, di non ottenere da lui la facoltà di fare giuridicamente
il divorzio. Prestò gli orecchi il re a questo consiglio, non indotto a quel
fine che disegnava Eboracense ma mosso, come molti dissono, non tanto dal
desiderio di avere figliuoli quanto perché era innamorato di una donzella della
regina, nata di basso luogo, la quale inchinò l'animo a pigliare per moglie;
non essendo né a Eboracense né ad altri noto questo suo disegno, il quale
quando cominciò o a scoprirsi o a congetturarsi non ebbe facoltà Eboracense di
dissuadergli il fare divorzio, perché non arebbe avuto autorità a consigliargli
il contrario di quello che prima gli aveva persuaso: e già il re, avendo
dimandato parere da teologi da giureconsulti e da religiosi, aveva avuto
risposta da molti che il matrimonio non era valido, o perché così credessino o
per gratificare, come è costume degli uomini, al principe. Però, come il
pontefice fu liberato di prigione, gli destinò imbasciadori per confortarlo a
entrare nella lega, per operarsi, secondo che da lui fusse ordinato loro, per
la restituzione di Ravenna, ma principalmente per ottenere la facoltà di fare
il divorzio: che non si cercava per via di dispensa, ma per via di
dichiarazione che il matrimonio con Caterina fusse nullo. E si persuase il re
che il pontefice, per trovarsi debole di forze e di riputazione né appoggiato
alla potenza di altri prìncipi, e mosso ancora dal benefizio fresco de' favori
grandi avuti da lui per la sua liberazione, avesse facilmente a consentirgli;
sapendo massime che il cardinale, per avere favorito sempre le cose sue e prima
quelle di Lione, poteva molto in lui: e acciò che il pontefice non potesse
allegare scusa di timore per la offesa che ne risultava a Cesare, figliuolo
d'una sorella di Caterina, e per allettarlo con questo dono, offerse pagargli
per sua sicurtà una guardia di quattromila fanti. Udì il pontefice questa
proposta; ma ancora che considerasse la importanza della cosa e la infamia
grande che gliene potesse risultare, nondimeno trovandosi a Orvieto, e neutrale
ancora tra Cesare e il re di Francia e in poca confidenza con ciascuno di loro,
e però stimando assai il conservarsi l'amicizia del re d'Inghilterra, non ebbe
ardire di contradire a questa dimanda; anzi, dimostrandosi desideroso di
compiacere al re ma allungando, col difficultare i modi che si proponeva, accese
la speranza e la importunità del re e de' suoi ministri, la quale, origine di
molti mali, continuamente augumentava.
Ma quando il
pontefice ebbe udito Valdemonte e Longavilla, il quale gli era stato mandato
dal re [di Francia], risposto a loro parole generali, mandò al re insieme con
Longavilla il vescovo di Pistoia, per farlo capace che, per l'essere senza
danari senza forze e senza autorità, la dichiarazione sua non sarebbe di frutto
alcuno a' collegati; potergli solamente giovare nel trattare la pace, e che
però aveva commissione di andare a Cesare per esortarnelo con parole rigorose:
il che il re, benché non restasse male sodisfatto della neutralità del
pontefice, nondimeno, dubitando non lo mandasse per trattare altro, non consentì.
Né Cesare anche si lamentava del pontefice se stava neutrale.
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