LIBRO DICIANNOVESIMO.
I. Il Lautrech decide non l'espugnazione ma l'assedio a Napoli. Vittoria
navale di Filippino Doria sugli imperiali. Condizioni degli assediati;
inopportuna ostinazione del Lautrech nel non ascoltare i consigli altrui. Nuove
azioni di guerra; progressi dei francesi in Calabria. Difficoltà per un più
stretto assedio di Napoli. Considerazioni dell'autore sull'ostinazione del
Lautrech. Alcune azioni di guerra sotto Napoli. Mutamento di fortuna per i
francesi. Vicende della guerra in Calabria ed in Puglia. Successi di Antonio de
Leva in Lombardia.
Alloggiato
Lautrech con l'esercito appresso alle mura di Napoli, fu la prima consultazione
se era da tentare di sforzare con lo impeto dell'artiglierie e con la virtù
degli uomini quella città; come molti, confortando che a questo effetto si
augumentasse il numero de' fanti, consigliavano. Allegavano questi molte
difficoltà per le quali non si poteva sperare di starvi intorno lungamente: la
difficoltà delle vettovaglie, perché gli inimici, copiosissimi di cavalli
leggieri e pronti a esercitargli, rompevano tutte le strade; ed essere incerta
la speranza che Napoli avesse ad arrendersi per la fame, perché non essendo
bastanti le galee del Doria a tenere serrato il porto né venendo le galee de'
viniziani, benché promesse ciascuno giorno, erano entrate da Gaeta in Napoli,
che pativa di macinato, quattro galee cariche di farine, e ve ne entrava
ciascuno dì degli altri legni; vedersi fredde le provisioni de' viniziani, i
quali, per conto de' ventiduemila ducati che gli pagavano ciascuno mese, erano
già debitori di sessantamila ducati; essergli somministrati parcamente i danari
di Francia; ed empiersi già l'esercito di infermità, le quali però non
procedevano tanto dalla gravezza ordinaria di quella aria, che suole cominciare
a nuocere alla fine della state, quanto perché i tempi erano andati molto
piovosi, alloggiando anche molti dello esercito in campagna. Nondimeno
Lautrech, considerando che in tanta moltitudine e virtù di difensori, e per la
fortificazione del monte il quale si poteva soccorrere, l'espugnare o il monte
o la città era cosa molto difficile, né volendo forse spendere con piccolissima
speranza i danari, per timore che poi per sostentare le spese ordinarie non gli
mancassino, deliberò di attendere non alla espugnazione ma allo assedio;
sperando che innanzi passasse molto tempo avessino a mancare agli inimici o le
vettovaglie o [i] danari. Indirizzò adunque e l'animo e tutte le provisioni
all'assedio lento, intento a impedire che per terra non vi entrassino
vettovaglie, e a sollecitare la venuta delle galee viniziane per privargli del
tutto delle vettovaglie marittime. Quivi, mutato consiglio, permesse si
facessino le scaramuccie, perché i soldati stando in ozio non perdessino
d'animo; e però se ne faceva spesso, e con grande laude delle bande nere; le
quali, eccellenti per la disciplina di Giovanni de' Medici in questa specie di
combattere, non avevano insino allora dimostrato quel che in giornata ordinaria
e in battaglia ferma e stabile valessino in campagna. Arrivorno in questo tempo
allo esercito ottanta uomini d'arme del marchese di Mantova e cento del duca di
Ferrara; il quale duca benché fusse stato ricevuto in ampia protezione del re
di Francia e de' viniziani, nondimeno aveva tardato quanto aveva potuto a
fargli muovere, per regolare le sue deliberazioni con quello che si potesse
congetturare dello evento futuro della guerra. In questo stato delle cose
conceperono gl'imperiali speranza di rompere Filippino Doria, che era con le
galee nel golfo di Salerno; non facendo tanto fondamento in su il numero e in
su la bontà de' legni loro quanto nella virtù de' combattitori, perché
empierono sei galee quattro fuste e due brigantini di mille archibusieri
spagnuoli, de' più valorosi e de' più lodati dello esercito; co' quali vi
entrorono don Ugo viceré e quasi tutti i capitani e uomini d'autorità. A questa
armata, governata per consiglio del Gobbo, nelle cose marittime veterano e
famoso capitano, aggiunseno molte barche di pescatori, per spaventare gli
inimici da lontano col prospetto di maggiore numero di legni; i quali, partiti
tutti da Pausilipo, toccorono all'isola di Capri; dove don Ugo, con grandissimo
pregiudizio di questo assalto, perdé tempo a udire uno romito spagnuolo, che
concionando accendeva gli animi loro a combattere come era degno della gloria
acquistata con tante vittorie da quella nazione. Di quivi, lasciato a mano
sinistra il Cavo della Minerva, entrati in alto mare, mandorno innanzi due
galee, con commissione che accostatesi agli inimici simulassino poi di fuggire,
per tirargli in alto mare a combattere. Ma Filippino Doria, avendo il dì
dinanzi per esploratori fidati presentito il consiglio degli inimici, aveva,
con grandissima celerità, ricercato Lautrech che gli mandasse subito trecento
archibusieri; i quali, guidati da Croch, erano arrivati poco innanzi che si
scoprisse l'armata degli inimici. La quale come si scoperse da lontano,
Filippino, ancora che con grande animo avesse fatte tutte le preparazioni
necessarie per combattere, nondimeno commosso dal numero grande de' legni che
si scoprivano, stette molto sospeso; ma in breve spazio di tempo lo liberò da
questa dubitazione il vedere, quando gli inimici si approssimavano, non vi
essere altri legni da gabbia che sei. Perciò, con animo forte e come capitano
peritissimo della guerra navale, fece allargare sotto specie di fuga tre galee
dalle altre sue, acciò che girando assaltassino col vento prospero gli inimici
per lato e da poppa, egli con cinque galee va incontro agli inimici, i quali
dovevano scaricare la loro artiglieria per tôrre a lui col fumo la mira e la
veduta. Ma Filippino dette fuoco a uno grandissimo basalischio della sua galea,
il quale percotendo nella galea capitana, in sulla quale era don Ugo, ammazzò
al primo colpo quaranta uomini, tra' quali il maestro della galea e molti
uffiziali; e scaricate poi altre artiglierie ne ammazzò e ferì molti. Da altro
canto l'artiglierie scaricate dalla galea di don Ugo ammazzorono nella galea di
Filippino il maestro, ferirono il padrone; ma i genovesi, esperimentati a
queste battaglie, schifavano meglio il pericolo, combattendo chinati e cauti
fra gli intervalli de' palvesi. Così, mentre combattono con grandissima ferocia
e spavento le due galee, tre altre galee degli imperiali strignevano due
genovesi, ed erano già molto superiori; ma le tre prime genovesi, che simulando
di fuggire erano andate in alto mare, ritornate sopra gli inimici percosseno
per lato la galea capitana: delle quali la galea che era chiamata la Nettunna
svelse il suo albero, che gli fece grande danno. Quivi don Ugo, ferito nel
braccio e coperto, mentre confortava i suoi, da' sassi e da' fuochi gittati
dagli alberi delle galee inimiche, combattendo fu morto; quivi la capitana di
Filippino e la Mora spacciorno la capitana di don Ugo, l'altre due con
l'artiglierie affondorono la Gobba, dove morì il Fieramosca; intratanto l'altre
galee di Filippino avevano ricuperato due delle loro oppressate dalle
spagnuole, e prese le loro fuste; due sole delle spagnuole, veduto la vittoria
essere degli inimici, male trattate, con fatica fuggirono. Nel quale tempo il
marchese del Guasto e Ascanio, affogata quasi e ardente la loro galea, rotti i
remi, morti quasi tutti ed essi feriti, furono fatti prigioni, salvandogli
dalla morte lo splendore dell'armi indorate. Restorno presi venti condottieri,
molti padroni delle galee. E giovò assai a Filippino il liberare i forzati, la
più parte turchi e mori, che combatterno eccellentemente. I prigioni furno
mandati da Filippino con tre galee al Doria; e una delle due galee, che si era
salvata, passò pochi dì poi da' franzesi, perché il padrone, che era uno
marchese Doria regnicola, fu imputato dagli spagnuoli di mancamento nella
battaglia. Ma scrisse l'oratore fiorentino a Firenze, conformandosi nelle altre
cose, che la battaglia durò da ore ventidue insino a due ore di notte, e che
gli imperiali oltre alle sei galee avevano undici vele minori cariche di
soldati; che da principio furono prese due galee franzesi, con morte quasi di
tutti; ma che l'artiglieria, della quale i franzesi erano superiori, messe in
fondo due galee, due altre con alcune fuste furono prese, e morta o ferita la
più parte delle ciurme e de' soldati; e che in una non ne restorono non feriti
più che tre; l'altre due, dove era Curradino co' tedeschi, molto danneggiate
fuggirono a Napoli. Don Ugo fu morto da due archibusate e gittato in mare, e
così il Fieramosca. Restorono prigioni il marchese del Guasto, Ascanio Colonna,
il principe di Salerno, Santa Croce, Cammillo Colonna, il Gobbo, Serone e molti
altri capitani e gentiluomini. Morirono più di mille fanti, e de' franzesi
pochi che non restassino o morti o feriti.
Dette questa
vittoria speranza grande a' franzesi del successo di tutta la impresa, e forse
maggiore che non sarebbe stato di bisogno, perché fece in qualche parte
Lautrech più lento alle provisioni; ma empié gli imperiali di molto terrore,
dubitando del mancamento delle vettovaglie, poi che restavano al tutto
spogliati dello imperio del mare, e per terra stretti da molte parti, massime
dopo la perdita di Pozzuolo, perché per quella strada si conduceva a Napoli
copia grande di vettovaglie: e già in Napoli era carestia grande di farina e di
carne e piccola quantità di vino: però, il dì seguente alla rotta, cacciorono
di Napoli numero grande di bocche inutili; e posto ordine alla distribuzione
delle vettovaglie, si sforzavano che i fanti tedeschi patissino manco che gli
altri soldati. Dalle quali cose nutrendosi la speranza di Lautrech, si accrebbe
molto più per uno brigantino intercetto, il settimo dì di maggio, con lettere
de' capitani a Cesare: per le quali significavano d'avere perduto il fiore
dell'esercito; non essere in Napoli grano per uno mese e mezzo, ma fare le
farine a forza di braccia; cominciare a fare qualche tumulto i tedeschi, né vi
essere danari da pagargli; né avere più le cose rimedio alcuno se non veniva
presta provisione di vettovaglie, di danari e di soccorso per mare e per terra:
aggiugnevasi l'essere cominciata in Napoli la peste, contagiosa molto dove sono
soldati tedeschi, perché non si astengono da conversare con gli infetti né da
maneggiare le cose loro. Pativa, da altra parte, l'esercito di acque perché da
Poggioreale alla fronte dell'esercito non sono altro che cisterne, delle quali
si serviva l'esercito; augumentavanvisi le infermità; e gli inimici, essendo
molto superiori di cavalli leggieri, uscendo continuamente fuora, massime per
la via che va a Somma; non solo conducevano dentro copia di carne e di vini ma
spesso interrompevano le vettovaglie che venivano all'esercito franzese, il
quale per questa cagione qualche volta ne pativa: né si facevano altre fazioni
che scaramuccie. Ricordavangli molti che conducesse cavalli leggieri per
potersi opporre a quegli degli inimici; il che recusava di fare, anzi
permetteva che la maggiore parte de' cavalli franzesi si stesse distesa in
Capua in Aversa e in Nola, il che agli inimici augumentava la facoltà di fare
gli effetti sopradetti. Altri consigliavano che, essendo per le infermità
diminuita la fanteria dell'esercito, conducesse in supplemento di quello (come
anche, perché fusse più potente, era stato desiderato insino da principio)
sette o ottomila fanti; e questo anche, avendo già cominciato a denegarlo,
recusava di fare, allegando mancargli danari; benché a quel tempo n'avesse di
Francia comoda provisione, avesse riscossa l'entrata della dogana delle pecore
di Puglia, riscotesse l'entrate delle terre prese, e i signori del regno che
gli erano appresso fussino pronti a prestargli non piccola quantità di danari.
Scaramucciavasi
ogni dì dalle bande nere, alloggiate nella fronte dell'esercito; le quali,
traportate da troppo animo, si accostavano tanto alle mura di Napoli che da
quelle erano offesi con gli archibusi; e non avendo nel ritirarsi cavalli alle
spalle, erano ammazzati da' cavalli degli inimici: donde conoscendosi il disavvantaggio
grande di fare le scaramuccie senza cavalli sotto alle mura di Napoli,
cominciorono a non si fare così frequentemente. Arrendessi a Lautrech dopo la
vittoria, Castello a mare di Stabbia ma non la fortezza; Gaeta si teneva per
Cesare, nella quale era il cardinale Colonna con novecento fanti italiani e con
i secento fanti che erano venuti di Spagna: benché il cardinale Colonna
dimandasse a Lautrech salvocondotto per andare a Roma, il quale non gli
concedette. Erasi similmente arrenduto San Germano; e avendo le genti che erano
in Gaeta recuperato Fondi e il paese circostante, Lautrech vi mandò don
Ferrando Gaietano, figliuolo del duca di Traietto, e il principe di Melfi
(nuovamente, per avere i capitani imperiali tenuto poco conto di liberarlo, concordato
co' franzesi); i quali facilmente di nuovo l'occuporono. Faceva e in Calavria
Simone Romano progresso grande, per la prontezza de' popoli a riconoscere il
nome franzese: come arebbe anche fatto Napoli, se non fusse stata la tardità di
Lautrech; la quale almanco dette tempo a mettervi le vettovaglie delle terre
circostanti.
Ma non
bastavano queste cose a ottenere la vittoria della guerra, la quale dependeva
totalmente o dallo acquisto o dalla difesa di Napoli, se o non si espugnava
quella città o non se gli impedivano le vettovaglie con maggiore diligenza, per
terra e per mare. Però, intento principalmente allo assedio, né disperando
anche in tutto di potere prendere Napoli per forza, poiché erano morti tanti
fanti spagnuoli nella battaglia navale, sollecitava la venuta delle armate
franzese e viniziana, per privare del tutto quella città delle vettovaglie
marittime. Mosse anche la fronte dello esercito più innanzi, in su uno poggio
più vicino a Napoli e al monte di San Martino, dove fu fatta dalle bande nere
una trincea, non solo per muovere da quel poggio una trincea la quale,
distendendosi insino alla marina e avendo nella estremità sua a canto al mare
uno bastione, chiudesse la strada di Somma, ma per tentare, come prima fussino
venute l'armate, di pigliare per forza il monte di Santo Martino, fatta prima
un'altra trincea tra la città e il monte di San Martino, acciò che non
potessino soccorrere l'uno all'altro; e poi in uno tempo medesimo assaltare
Napoli con l'armate dalla parte del mare, e per terra, battendo dalla fronte
dello alloggiamento di dentro, e di fuora assaltarla con una parte
dell'esercito, e con l'altra assaltare il monte; acciò che gli inimici, divise
per necessità le forze in tanti luoghi, potessino più facilmente essere
superati da qualche banda; non abbandonato però, per l'essersi allungata la
fronte dell'alloggiamento, Poggio Reale, perché gli inimici recuperandolo non
gli privassino della comodità delle acque, ma ristrignendo per la coda
l'alloggiamento. A' quali consigli bene considerati si opponevano molte
difficoltà. Perché né le trincee lunghe più di uno miglio insino al mare si
potevano, per mancamento di guastatori e per le infermità de' soldati, lavorare
con celerità; né venivano, come per l'assedio e per l'espugnazione sarebbe
stato necessario, l'armate: perché Andrea Doria con le galee che erano a Genova
non si moveva, dell'armata preparata a Marsilia non si intendeva cosa alcuna, e
la viniziana intenta più allo interesse proprio che al beneficio comune, anzi
più tosto agli interessi minori e accessori che agli interessi principali,
attendeva alla espedizione di Brindisi e di Otranto. Delle quali città Otranto
aveva convenuto di arrendersi se fra sedici dì non era soccorso, e Brindisi
benché per accordo avesse ammesso i viniziani, si tenevano ancora le fortezze
in nome di Cesare: quella di mare, forte in modo da non sperare di espugnarla;
quella grande di dentro alla città, avendo perduto due rocchette, pareva non
potesse più resistere.
Ma veramente
non è opera senza mercede il considerare che disordini partorisca la
ostinazione di quegli che sono proposti alle cose grandi. Lautrech, senza
dubbio primo capitano del regno di Francia, esperimentato lungamente nelle
guerre e di autorità grandissima appresso all'esercito, ma di natura altiero e
imperioso, mentre che credendo a sé solo disprezza i consigli di tutti gli
altri, mentre che non vuole udire niuno, mentre si reputa infamia che gli
uomini si accorghino che non sempre si governi per giudicio proprio, omesse
quelle provisioni le quali, usate, sarebbono state forse cagione della
vittoria, disprezzate, ridussono la impresa, cominciata con tanta speranza, in
ultima ruina.
Piantossi a'
dodici di maggio l'artiglieria in su il poggio, e batteva uno torrione che
danneggiava molto la campagna. Tiravasi anche spesso nella terra ma con poco
frutto, e si scaramucciava qualche volta a Santo Antonio. A' sedici,
l'artiglieria piantata a Capo di Monte tirava a certi torrioni tra la porta di
San Gennaro e la Capuana, e impediva fare uno bastione cominciato da quegli di
dentro; e Filippino, che era allo intorno, pigliava tutto dì navi che andavano
con grano a Napoli: dove la più parte viveva di grano cotto, e ne usciva ogni
dì gente assai; e i tedeschi, ancora che patissino manco che gli altri,
protestavano spesso per mancamento di pane e molto più di vino e di carne, di
che vi si pativa molto: pure, oltre all'altre arti, erano intrattenuti assai
con lettere false di soccorso. E da altra banda, nello esercito crescevano ogni
dì l'infermità, delle quali morivano molti. Lavoravasi a' diciannove alle
trincee nuove, con le quali piantandosi due cannoni in su il bastione, come e'
fusse fatto, si sarebbeno rovinati due mulini presso alla Maddalena guardati da
due bandiere di tedeschi, che non si erano mai tentati, per avere facile il
soccorso di Napoli. Intratanto si scaramucciava spesso a Santo Antonio.
Insino qui non
procedevano se non felici le cose de' franzesi: ma cominciorono per cagioni
occulte, a piegarsi alla declinazione. Perché Filippino Doria, per ordine avuto
segretamente, come si conobbe poi, da Andrea Doria, si era ritirato con le
galee intorno a Pozzuolo; donde in Napoli, dove erano restati pochi altri che
soldati, entrava sempre qualche quantità di vettovaglia in su le barche: e se
bene l'armata [de'] viniziani, acquistato Otranto, dava speranza a ogn'ora di
venire a Napoli, nondimeno differivano perché erano in speranza di avere presto
il castello grande di Brindisi. Crescevano anche a ogn'ora nello esercito le
malattie; e le bande nere, dove prima alle fazioni si rappresentavano più di
tremila, ora, tra feriti ammalati e morti, appena arrivavano a duemila. A'
ventidue gli spagnuoli assoltorono quegli di fuora che erano alla difesa delle
trincee nuove, dove si lavorava con speranza di finirle fra sei o otto dì; ed
essendovi Orazio Baglione con pochi compagni, in luogo pericoloso, fu ammazzato
combattendo: morte più presto degna di privato soldato che di capitano. Dal
quale disordine gl'imperiali presa speranza di maggiore successo uscirno di
nuovo fuora molto grossi: ma messosi il campo in arme e fattosi forte alle
trincee, si ritirorno. Ritornò pure di nuovo Filippino, per molta instanza che
gli fu fatta, nel golfo di Napoli. E a' ventisette non erano ancora finite le
trincee cominciate per serrare la via di verso Somma; e gli spagnuoli ogni dì
correvano e rompevano le strade, conducendo dentro quantità grande di carnaggi:
a che i cavalli del campo gli facevano poco ostacolo, perché cavalcavano
rarissime volte. E Lautrech, cominciando a desiderare supplemento di fanti ma
non cedendo in tutto a' consigli degli altri, instava che di Francia gli
fussino mandati per mare seimila fanti di qualunque nazione, perché per la
carestia e infermità ne partivano molti del campo; e in tante difficoltà
cominciava a essere solo a sperare la vittoria, fondandosi in su la fame: né
aveva però fatto altro progresso, intorno alle mura di Napoli, che levare
l'acqua a uno mulino di che quegli di dentro si servivano.
Procedeva in
questo tempo in Calavria Simone Romano, con dumila fanti tra corsi e paesani.
Al quale benché si fussino opposti... Sanseverino principe di bisignano e...
figliuolo di Alarcone con mille cinquecento fanti del paese, nondimeno
difficilmente lo sostenevano; donde il figliuolo di Alarcone si ritirò in
Taranto, lasciato il principe in campagna: ma poco dipoi Simone Romano acquistò
Cosenza per accordo; e dipoi, nella occupazione di una terra vicina, prese il
principe di Stigliano e il marchese di Laino suo figliuolo con due altri suoi
figliuoli. Ma in Puglia, quegli che tenevano Manfredonia in nome di Cesare
scorrevano per tutto il paese, non resistendo loro i cavalli e i fanti de'
viniziani, i quali erano andati all'acquisto di quelle terre. Né erano al tutto
quiete le cose in terra di Roma; perché Sciarra Colonna avendo preso Paliano,
non ostante fusse stato difeso in nome del pontefice per la figliuola di
Vespasiano, lo recuperò l'abate di Farfa, facendo prigioni Sciarra e Prospero
da Cavi: benché Sciarra, per opera di Luigi da Gonzaga, si fuggisse.
Ma mentre che
intorno a Napoli si travaglia con queste difficoltà e con queste speranze,
Antonio de Leva, presentendo che la città di Pavia, nella quale era Pietro da
Longhena con quattrocento cavalli e mille fanti de' viniziani, e Anibale
Pizinardo castellano di Cremona, con [trecento] fanti, il quale vi era andato
per mantenere a divozione del duca il paese di là dal Po, molto negligentemente
si guardava, una notte allo improviso, con le scale da tre bande, non essendo
sentito da i soldati, la prese di assalto. Restò prigione Pietro da Longhena e
uno figlio di Ianus Fregoso. Andò poi Antonio de Leva a Biagrassa, e quegli di
dentro aspettati pochissimi tiri d'artiglierie si arrenderono; e volendo poi
andare ad Arona, Federigo Buorromei si accordò seco, obligandosi a seguitare le
parti di Cesare.
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