V. Accordi fra i comandanti dei francesi e dei veneziani in Lombardia.
Forze e movimenti degli eserciti avversari. Perdita di Genova da parte dei
francesi. Presa e sacco di Pavia da parte dei collegati.
Non erano in
questo mezzo state le cose di Lombardia senza travaglio: perché San Polo,
raccolte le genti e la provisione delle vettovaglie, prese di là dal Po alcune
terre e castella occupate prima da Antonio da Leva, che a' tre di agosto era
alla Torretta attendendo a condurre più vettovaglie poteva in Milano, dove non
era più persona di conto, e in tutto lo stato erano sì strette le ricolte che
non vi era da vivere per otto mesi solamente per gli uomini del paese; dipoi si
ritirò a Marignano, non potendo anche, per mancamento di denari, soprastare
molto in quel luogo. Al quale tempo, il duca d'Urbino era ancora a Brescia e
San Polo a Castelnuovo di Tortona: donde venuto a Piacenza si abboccorono, agli
undici dì, a Monticelli in sul Po, dove si conchiuse che gli eserciti si
unissino intorno a Lodi. Passò poi San Polo il Po presso a Cremona, essendogli
comportato tacitamente a Piacenza che avesse barche per fare il ponte; e però
Antonio de Leva, che aveva il ponte a Casciano e a sua divozione Caravaggio e
Trevi, levò il ponte e abbandonò i luoghi di Ghiaradadda, come prima anche
aveva abbandonata Novara; ma in Pavia aveva messi settecento fanti e in Santo
Angelo cinquecento. Fu anche deliberato che il Vistarino con seicento fanti
andasse alla impresa di Casé, in su la riva del Po dicontro a Tortona, perché
impediva assai le vettovaglie.
Aveva San Polo
quattrocento lance cinquecento cavalli leggieri mille cinquecento fanti
tedeschi a pagamento, ma in numero, per la negligenza di San Polo e per la
fraude de' ministri suoi, molto minore; per i quali, e per gli altri tedeschi e
svizzeri che si aspettavano, avevano convenuto i viniziani di pagare ciascuno
mese a San Polo dodicimila ducati; e in campo trecento svizzeri, pagati a Ivrea
per novecento, e tremila fanti franzesi. Avevano i viniziani trecento uomini d'arme
mille cavalli leggieri e seimila fanti, e il duca di Milano più di duemila
fanti eletti; il Leva quattromila tedeschi mille spagnuoli tremila italiani e
trecento cavalli leggieri. Passorono le genti de' collegati Adda (avendo,
secondo scrive l'oratore fiorentino, avuto, se il duca di Urbino avesse voluto,
grande occasione di rompere Antonio de Leva), e si unirono a' ventidue di
agosto; stando ancora fermo Antonio de Leva a Marignano. Da quello
alloggiamento mandò il duca di Urbino a Santo Angelo tremila fanti e trecento
cavalli leggieri con sei cannoni, sotto Giovanni di Naldo, che nello accamparsi
fu morto da una artiglieria: però vi andò egli in persona, e l'ottenne.
Alloggiorono il vigesimo quinto dì di agosto a San Zenone, in sul fiume del
Lambro, propinquo a due miglia e mezzo a Marignano. A' ventisette le genti de'
collegati, passato Lambro, si accostorono a Marignano; i quali accostandosi,
gli spagnuoli si ritrassono in Marignano a uno riparo vecchio; e dopo
scaramuccia di più ore uscirono al largo, e si credette volessino combattere; e
tirato per una ora da ogni banda, approssimandosi già la notte, si ritirorno in
Marignano e Riozzo, e in su lo alloggiare il campo l'assaltorono bravamente. E
a' ventiotto si ritirò Antonio de Leva con tutta la gente a Milano, i collegati
a Landriano. Consultossi dipoi se fusse da tentare di sforzare Milano: il che
mentre si praticava, andò lo esercito a Loccà con disegno di entrare in Milano
per furto; che fu interrotto da una pioggia grossa che impedì, per la trista
via, andare a porta Vercellina dove si aveva a entrare. Però, esclusi da questo
disegno, ed essendo riferito, da chi fu mandato a riconoscere Milano, non
essere riuscibile quella impresa, si deliberò di andare, per il cammino di
Biagrassa, che altro non si poteva fare, a campo Pavia; sperando pigliarla
facilmente, perché non vi erano più di dugento fanti tedeschi e ottocento
italiani. Così andando a quella volta, spinti certi fanti di là dal Tesino, fu
preso Vigevano; e a' nove dì di settembre era San Polo a Santo Alesso, a tre
miglia di Pavia: dove accostatisi l'uno e l'altro esercito, sopravenne avviso
che gli messe in maggiore disputazione.
Perché, essendo
in Genova la peste grandissima e per questo abbandonata quasi da ciascuno, eziandio
quasi da tutti i soldati, e per il medesimo pericolo Teodoro governatore
ritiratosi in castello, Andrea Doria, presa questa occasione, si approssimò
alla città con alcune galee ma, non avendo più che cinquecento fanti, con poca
speranza di sforzarla. Ma l'armata franzese che era nel porto, temendo non gli
fusse chiuso il cammino di andarsene in Francia, senza avere cura alcuna di
Genova, si partì verso Savona; dove la prima che arrivasse fu la galea di
Barbigios: benché alcuni dichino che Andrea Doria l'assaltò e prese sei galee,
l'altre fuggirono. Donde essendo nella città pochi soldati, se bene Teodoro
fusse tornato ad abitare nel palazzo, e il popolo, per la ingiuria della
libertà data a Savona, inimico al nome di Francia, il Doria, avuta poca resistenza,
vi entrò dentro. Fu cagione di tanta perdita la negligenza e il troppo
promettersi del re, perché non pensando che le cose sue nel regno di Napoli
cadessino sì presto, e persuadendosi che, in ogni caso, la ritirata dell'armata
a Genova e la vicinità di San Polo bastassino a salvarla, pretermesse di farvi
le provisioni necessarie. E Teodoro, ritirato nel castello, dimandava soccorso
a San Polo, dando speranza di ricuperare la terra se gli fussino mandati subito
tremila fanti. Sopra che consultandosi tra i capitani de' collegati, i franzesi
erano disposti a andarvi subito con tutto il campo; e il duca d'Urbino mostrava
che il provedere le barche per fare uno ponte in su Po, e il provedere le
vettovaglie, era cosa più lunga che non ricercava il bisogno presente: però,
secondo il suo consiglio, si risolvé che Montigian voltasse, da Alessandria
dove erano arrivati, a Genova tremila fanti tedeschi e svizzeri, i quali
venivano all'esercito di San Polo; e quando pure non volessino andare gli
conducesse in campo, e in cambio loro vi si mandassino tremila altri fanti; che
intratanto si attendesse a strignere Pavia. E i viniziani davano intenzione,
eziandio in caso non si pigliasse, soccorrere Genova con tutte le genti, purché
restassino assicurati delle cose da quella banda.
Continuossi
adunque la oppugnazione di Pavia: per la quale, a' quattordici, erano stati
piantati in su il Tesino, di qua, al piano della banda di sotto, nove cannoni a
uno bastione appiccato con l'arzanà, che in poche ore lo rovinorono quasi
mezzo; e di là dal Tesino tre cannoni, per battere, quando si desse lo assalto,
uno fianco che risponde all'arzanà; e in su uno colle di qua dal Tesino cinque
cannoni che battevano due altri bastioni, e al finire del colle tre altri che tiravano
alla muraglia: tutta artiglieria de' viniziani. Poi l'artiglieria di San Polo
che levava le difese. E il dì seguente, Annibale castellano di Cremona si era
condotto con una trincea in su il fosso del bastione del canto dell'arzanà, che
era già giù più che i due terzi; in modo che quegli dentro l'avevano quasi
abbandonato: il quale dì fu morto da una artiglieria Malatesta da Sogliano
condottiere de' viniziani. Così, continuato a battere tutto [il] dì e la notte
seguente, si preparò l'esercito per dare la battaglia, essendo da ogni banda
de' tre bastioni gittata muraglia assai; ma volendo la mattina cavare l'acqua
de' fossi, vi trovorono uno muro sì gagliardo che vi consumorono tutto il dì ed
eziandio il dì seguente, tanto che l'assalto si prolungò insino a' dì
diciannove, essendo levata quasi tutta l'acqua. Nel quale dì, essendo al
principio della mattina stato preso il bastione del canto, si cominciò a dare
l'assalto; del quale, essendo divisa la gente in tre parti, toccava il primo
assalto a Antonio da Castello con le genti de' viniziani, il secondo a Lorges
con quelle di San Polo, l'ultimo al castellano con le genti di Milano, che
(secondo il Cappella) erano mille dugento fanti; e il duca d'Urbino si messe a
piede con dugento uomini d'arme e affrontò i bastioni, che si difeseno più di
due ore. Scrive il Cappella che dentro non erano più che dugento tedeschi e
ottocento italiani, che benché si portassino egregiamente, pure, per il poco
numero, si difendevano con difficoltà. Ma il Martello scrive che dentro erano
prima dumila fanti, e che di più, a' diciotto, all'apparita del dì, vi
entrorono cinquecento archibusieri eletti, in modo che fu difesa bravamente; ma
l'artiglieria piantata di là dal Tesino strisciava tutti i loro ripari. E
scrive il Cappella che e' fu ferito in una coscia, d'uno scoppio, Pietro da
Birago che morì fra pochi dì, che non volle essere levato di terra acciò che i
suoi non abbandonassino la battaglia; e fu ferito anche di scoppio Pietro
Botticella, che si partì dalla battaglia: capitani tutt'e due del duca di
Milano. Finalmente, a ore ventidue, si entrò dentro con poco danno, e con laude
grande (secondo il Martello) del duca d'Urbino; e il Cappella scrive, con laude
grande del Pizinardo. E scrive il Martello che di quegli di dentro furono
ammazzati da seicento in ottocento, tra' quali quasi tutti i tedeschi (che
erano quattrocento) che erano stati messi dagli spagnuoli alle difese; e che,
innanzi si entrasse, mille fanti tra spagnuoli e italiani, usciti per la porta
del castello, furno rotti da' cavalli. Ma cominciato a entrare dentro
l'esercito, Galeazzo da Birago con molti soldati e uomini della terra si ritirò
in castello. La città tutta andò a sacco, poco utile per i due sacchi
precedenti. Il castello si accettò a patti, perché era necessario batterlo e in
campo non era munizione, e i fossi larghissimi e profondissimi da non si
riempiere sì presto, e dentro rifuggitivi cinquecento uomini di guerra. I patti
furono che gli spagnuoli (che secondo il Martello in Pavia furno seicento), con
l'artiglierie e munizioni che e' potessino tirare a braccia e ogni loro arnese,
avessino facoltà, insieme co' tedeschi che erano restati pochissimi, di
andarsene a Milano; e gl'italiani, in ogni luogo fuora che Milano.
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