VI. Proposito di San Polo di provvedere alle sorti di Genova. Provvedimenti
del de Leva ritornato in Milano. Fallimento dell'impresa di San Polo; resa di
Savona e del Castelletto di Genova. Mutamento del governo in Genova; azione per
togliere le fazioni nella cittadinanza. Scontri fra le navi del Doria e quelle
francesi; dispareri fra i collegati. Mutamento di dominio nel marchesato di
Saluzzo. Vani tentativi dei francesi contro Andrea Doria. Fazioni di guerra in
Lombardia. Manifestazioni dell'inclinazione del pontefice per Cesare.
Presa Pavia,
consigliò il duca d'Urbino che non si pensasse a sforzare Milano, perché
bisognava esercito bastante a due batterie, ma per fargli danno grande si
pigliasse Biagrassa, San Giorgio, Moncia e Como, e che si attendesse al
soccorso di Genova: perché se bene i tedeschi e svizzeri avevano risposto a
Montigian di volere andare a Genova, nondimeno i tedeschi, per non essere
pagati, se ne andorono a Ivrea; in modo che non si era mandato soccorso alcuno
al Castelletto, dove Andrea Doria minava sollecitamente. Però San Polo, che era
restato con cento lance e dumila fanti, partì a' ventisette alla volta di
Genova, passando il Po a Portostella in bocca del Tesino, al cammino di
Tortona; promettendo di ritornare indietro se intendesse il soccorso essere non
riuscibile, e che il duca d'Urbino l'aspettasse in Pavia; al quale erano
restati quattromila fanti. Ma con le genti viniziane andavano sempre dumila
fanti del duca di Milano; ed erano anche in Savona mille fanti de' franzesi, ma
senza denari.
E Antonio de
Leva, ritirato in Milano, proibì allora che alcuno non potesse fare pane in
casa o tenervi farina, eccetto i conduttori di quello dazio; i quali gli
pagorono, nove mesi continui, per ogni moggio di farina tre ducati: co' quali
denari pagò, tutto quello tempo, i cavalli e i fanti spagnuoli e i tedeschi. Il
che non solo lo difese dal pericolo presente ma lo sostenne tutta la vernata
futura, avendo alloggiati i fanti italiani a Novara e in alcune terre di
Lomellina e per le ville del contado di Milano; ne' quali luoghi comportò che
tutta la vernata predassino e taglieggiassino.
Giunse, al
primo d'ottobre, San Polo a Gavi, lontano venticinque miglia da Genova,
lasciata l'artiglieria a Novi, e il seguente prese la rocca del Borgo de'
Fornari; e fattosi più innanzi verso Genova, dove erano entrati settecento
fanti corsi, si ritornò al Borgo de' Fornari; non si trovando in tutto, per
mancamento di denari, quattromila fanti, tra i suoi quegli condotti da
Montigian e mille che erano stati mandati dal campo con Niccolò Doria; e quegli
pochi che gli erano restati continuamente passavano in Francia. Però (potendo
dire a imitazione di Cesare, ma per contrario, Veni vidi fugi) mandò
Montigian con trecento fanti a Savona, dove i genovesi erano a campo; ma non vi
poterono entrare, perché era serrata con le trincee e presi attorno tutti i
passi. Ritirossi, a' dieci dì d'ottobre, in Alessandria e dipoi a Senazzara tra
Alessandria e Pavia, ad abboccarsi col duca di Urbino, ma restato quasi senza
gente: dove consultando le cose comuni, il duca, dimostrando che tra' viniziani
e il duca di Milano non erano restati quattromila fanti, e che Antonio de Leva
aveva tra Milano e fuori quattromila tedeschi seicento spagnuoli e mille
quattrocento italiani, si risolvé di ritirarsi in Pavia e che San Polo si
ritirasse in Alessandria, che gli fu conceduta dal duca di Milano; ragionando
di soldare tutti nuovi fanti, e poi, se i tempi servissino, fare la impresa di
Biagrassa, di Mortara e del castello di Novara. Succedé che, a' ventuno di
ottobre, [Savona], veduto che Montigian non vi era potuto entrare, s'arrendé in
caso che fra certi dì non fusse soccorsa. Però San Polo, desideroso di
soccorrerla ma avendo da sé in tutto mille fanti, dimandò tremila fanti al duca
d'Urbino e al duca di Milano; i quali gliene mandorono milledugento, in modo la
lasciò perdere. E il Castelletto di Genova si arrendé per la fame: il quale
acquistato fu spianato da' genovesi, e pieno di sassi il porto di Savona, per
renderlo inutile.
I quali, con la
autorità di Andrea Doria, stabilirono in quella città uno governo nuovo,
trattato prima, sotto nome di libertà; la somma del quale fu che da uno
consiglio di quattrocento cittadini si creassino tutti i magistrati e degnità
della loro città, e il doge principalmente e il supremo magistrato, per tempo
di due anni; levata la proibizione a' gentiluomini, che prima per legge ne
erano esclusi. Ed essendo il fondamento più importante a conservare la libertà
che si provedesse alle divisioni de' cittadini, le quali vi erano state
lungamente maggiori e più perniciose che in altra città di Italia (con ciò sia
che non vi fusse una divisione sola, ma la parte de' guelfi e l'opposita de'
ghibellini, quella tra i gentiluomini e i popolari, né anche i popolari tra
loro di una medesima volontà, e la fazione molto potente tra gli Adorni e i
Fregosi; per le quali divisioni si poteva credere che quella città,
opportunissima per il sito e per la perizia delle cose navali allo imperio
marittimo, fusse stata depressa e molto tempo in quasi continua soggezione),
però per medicare dalle radici questo male, spenti tutti i nomi delle famiglie
e de' casati della città, ne conservorono solamente il nome di ventotto delle
più illustri e più chiare, eccettuate l'Adorna e la Fregosa, che del tutto
furono spente. A' nomi e al numero delle quali famiglie aggregorono tutti
quegli gentiluomini e popolari che restavano senza nome di casato; avendo
rispetto, per confondere più la memoria delle fazioni, di aggregare de'
gentiluomini nelle famiglie popolari, de' popolari nelle famiglie de'
gentiluomini, de' seguaci stati degli Adorni nelle case che avevano seguitato
il nome Fregoso, e così, per contrario, de' Fregosi in quelle che erano state
seguaci degli Adorni: ordinato ancora che tra loro non fusse distinzione alcuna
di essere proibiti, più questi che quegli, agli onori e a' magistrati. Con la
quale confusione degli uomini e de' nomi speravano conseguire che, in progresso
di non molti anni, si spegnesse la memoria pestifera delle fazioni: restando in
quel mezzo tra loro grandissima l'autorità di Andrea Doria; senza il consenso
del quale, per la riputazione dell'uomo, per l'autorità delle galee che aveva
da Cesare (che ne' tempi che non andavano alle fazioni dimoravano nel porto di
Genova), e per l'altre sue condizioni, non si sarebbe fatto deliberazione
alcuna di quelle più gravi; essendo manco molesto la potenza e grandezza sua,
perché per ordine suo non si amministravano le pecunie, non si intrometteva
nella elezione del doge e degli altri magistrati e nelle cose particolari e
minori. In modo che i cittadini, quieti e intenti più alle mercatanzie che alla
ambizione, ricordandosi massime de' travagli delle suggezioni passate, avevano
cagione di amare quella forma di governo.
Appiccoronsi
poi l'armata franzese e quella di Andrea Doria tra Monaco e Nizza, dove una
galea del Doria fu messa in fondo. Abboccoronsi, perduta Savona, di nuovo il
duca di Urbino e San Polo a Senazé, tra Alessandria e Pavia; dove il duca, con
poca sodisfazione di Francesco Sforza e di San Polo, risolvé di andarsene di là
da Adda, lasciando al duca di Milano la guardia di Pavia e confortando San Polo
a fermarsi quella vernata in Alessandria. Delle quali cose non solo si
sodisfaceva poco a' ministri, ma ancora il re di Francia, non accettando alcune
scuse leggiere dategli da' viniziani, si lamentava sommamente che i viniziani
non avessino dato soccorso al Castelletto di Genova e alla città di Savona; la
quale i genovesi sfasciavano, e avevano anche preso Vitadé e Gavi. Venneno
dipoi a San Polo mille fanti tedeschi; co' quali, computati mille fanti che
aveva Valdicerca in Lomellina, si trovava quattromila fanti.
Ed era anche nato
nuovo tumulto nel marchesato di Saluzzo. Perché avendone preso, dopo la morte
del marchese Michele Antonio, il dominio Francesco monsignore suo fratello, che
era entrato dentro, perché Gabriello secondogenito, eziandio vivente il
fratello maggiore, era stato tenuto prigione nella rocca di Ravel, per ordine
della madre che in puerizia aveva governato i figliuoli, sotto titolo che e'
fusse quasi mentecatto, il castellano di Ravel lo liberò; però, presa la madre
che lo teneva prigione, acquistò, accettato da' popoli, tutto lo stato, del
quale fuggì il fratello; che poco dipoi entrò in Carmignuola, e raccolte genti
roppe poco di poi il fratello.
Non si fece più
in questo anno cosa di momento in Lombardia, se non che il conte di Gaiazzo scorse
insino a Milano. Ma i viniziani non davano i fanti promessi a San Polo, per la
impresa di Sarravalle, Gavi e altri luoghi del genovese. Tentossi bene una
fazione importante, perché Montigian e Villacerca, con dumila fanti e cinquanta
cavalli, partirno a ore ventidue da Vitadé, per pigliare Andrea Doria nel suo
palazzo; il quale, posto accanto al mare, è quasi contiguo alle mura di Genova.
Non ebbe effetto, perché i fanti, stracchi per la lunghezza del cammino che è
ventidua miglia, non arrivorno di notte ma che già era qualche ora di dì: però,
essendosi levato il romore, Andrea Doria, dalla banda di dietro saltato in su
una barca, campò il pericolo; e i franzesi, non fatto altro effetto che
saccheggiato il palazzo, salvi tornorono indietro. E il conte di Gaiazzo, fatta
una imboscata tra Milano e Moncia, roppe cinquecento tedeschi e cento cavalli
leggieri che andavano per fare scorta a vettovaglie; benché di poi, mandato da
loro a Bergamo, afflisse con le ruberie in modo quella città che il senato
viniziano, il quale l'aveva fatto capitano generale delle fanterie sue, non
potendo più tollerare tanta insolenza e avarizia lo rimosse ignominiosamente
dagli stipendi suoi. Nel quale tempo gli spagnuoli anche preseno la terra di
Vigevano. Ma sopravvenneno in quel di Genova dumila fanti spagnuoli, che a'
venticinque di dicembre erano al Borgo de' Fornari, mandati di Spagna da Cesare
per difendere Genova o per andare a Milano, secondo fusse di bisogno. A' quali
per condurgli andò, per ordine di Antonio de Leva, il Belgioioso, che era
fuggito di mano de' franzesi; e il quale, pochi dì innanzi, si era presentato
una notte con dumila fanti e qualche artiglieria a Pavia, dove non erano più
che cinquecento fanti del duca di Milano, ma la cosa fu presentita, però si era
ritirato senza frutto. Preparavasi San Polo per impedire la venuta di questi
fanti, i quali accennavano fare il cammino o di Casé o di Piacenza, e instava
che le genti viniziane si facessino forti a Lodi perché da Milano non fusse
fatto loro spalle; e cercava anche persuadergli a fare comunemente la impresa
di Milano (la quale il duca di Urbino dissuadeva), dove era carestia e tutte le
calamità. Ma procedevano i viniziani freddi per l'ordinario alle fazioni
gagliarde, ma in questo tempo molto più, perché per le relazioni di Andrea
Navaiero, che era tornato loro oratore di Spagna, fatte in favore di Cesare, e
per qualche pratica che si teneva in Roma con l'oratore cesareo, erano vari
pareri nel loro senato, inclinandosi molti a concordare con Cesare: pure finalmente
fu risoluto continuare la confederazione col re di Francia. Nel quale tempo il
Torniello, passato Tesino con dumila fanti, prese Basignana, e andava verso
Lomellina; e l'abate di Farfa, andato a Crescentino, luogo del ducato di
Savoia, co' suoi cavalli, fu di notte rotto e fatto prigione, ma liberato per
opera della marchesa di Monferrato; e il marchese di Mus roppe alcune genti di
Antonio de Leva e tolse loro le artiglierie.
Dubitavasi
ancora che il pontefice non inclinasse alle parti di Cesare; perché il
cardinale di Santa Croce arrivato a Napoli fece liberare i tre cardinali che
erano statichi quivi, e si diceva che aveva commissione da Cesare di fare
restituire Ostia e Civitavecchia; per opera del quale, avendone supplicato al pontefice,
Andrea Doria restituì Portoercole a' sanesi. Ma si scopriva l'animo del
pontefice a cose nuove: perché per opera sua, benché occultamente, Braccio
Baglione molestava nelle cose di Perugia Malatesta, benché fusse agli stipendi
suoi; e inteso il duca di Ferrara essere venuto a Modena, tentò di pigliarlo
nel ritorno a Ferrara, con uno agguato di dugento cavalli, fatto da Paolo
Luzasco alla casa de' Coppi nel modonese: ma non essendo quel dì partito il
duca, la cosa si scoperse.
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