VIII. Fazioni di guerra in Lombardia; accordi fra i collegati; arrivo di
fanti spagnuoli dal genovese ad Antonio de Leva. Aspirazioni del pontefice su
Perugia; timori di Malatesta Baglione e suoi accordi coi fiorentini e coi
francesi. Intrighi del pontefice contro il duca di Ferrara. Il pontefice fa bruciare
la bolla con cui accordava il divorzio al re d'Inghilterra; disgrazia e morte
del cardinale eboracense.
Ma in
Lombardia, di marzo, San Polo prese per forza Serravalle, e la fortezza si
accordò di stare neutrale. Ma essendovi gli inimici rientrati di notte di
furto, si temeva non potere più impedire agli spagnuoli il cammino per Milano,
massime che ogni dì gli diminuivano le genti per mancamento di denari; avendone
pochi dal re, e di quegli, come capitano di pochissimo governo, spendendone una
parte per sé (che diceva esserne creditore del re) un'altra parte fraudata da'
ministri. Disputavasi tra il re e i viniziani quale impresa fusse da fare, e il
re instava di Genova, per la importanza di quella città, massime affermandosi
già per cosa certa che Cesare passerebbe la state prossima in Italia, e perché
il re, veduto i viniziani non l'avere mai aiutato né a soccorrere né a
recuperare quella città, non ostante si fussino escusati allegando essere stato
rumore della venuta in Italia di nuovi tedeschi, dubitava non fusse molesta
loro la vittoria di quella impresa: ma i viniziani, allegando essere restata a
Antonio de Leva pochissima gente, e offerendo, acquistato che fusse Milano,
mandare le genti alla espugnazione di Genova, si deliberò fare, con suo
consentimento, la impresa di Milano con sedicimila fanti, provedendo ciascuno
alla metà. Fu questa deliberazione fatta di marzo, e assente il duca di Urbino;
il quale, per l'essersi approssimati a' confini del regno il principe di
Oranges e i fanti tedeschi, si era, quasi contro alla volontà de' viniziani,
ridotto nel suo stato: ma i viniziani lo condussono di nuovo, con le condizioni
medesime le quali aveano prima ottenute da loro il conte di Pitigliano e
Bartolommeo d'Alviano, e gli mandorono trecento cavalli e tremila fanti per sua
difesa, come erano tenuti: e detteno il titolo di governatore a Ianus Fregoso.
Erano nell'esercito viniziano secento uomini d'arme mille cavalli leggieri e
quattromila fanti, benché fussino obligati a tenerne dodicimila; il quale
esercito prese, il sesto dì di aprile, Casciano per forza e la rocca a
discrizione: e Antonio de Leva e il Torniello, usciti di Milano per divertire,
vi si ritirorono. Succedette la passata de' fanti spagnuoli, che erano mille
dugento, del genovese a Milano; per impedire la quale si erano fatte tante
pratiche e tante consulte. Perché, avendo creduto San Polo e i viniziani che e'
tentassino di passare per il tortonese e lo alessandrino, partiti da Voltaggio,
preseno, per ordine del Belgioioso, cammino più lungo per la montagna di
Piacenza e luoghi sudditi alla Chiesa; ed essendo venuti a Varzi nella montagna
predetta, non ostante che San Polo inviasse in là centocinquanta cavalli, e
desse avviso del cammino loro a Lodi e alle genti de' viniziani (i quali, per
ovviare, mandorono parte delle loro genti al duca di Milano, ma più tardi uno
giorno di quello che era necessario e minore numero di quelle che avevano
promesso), passorono di notte il Po ad Arena, serviti di navi di Piacenza (né
si poteva più ovviare l'unione loro col Leva, che per facilitarla era venuto a
Landriano, dodici miglia da Pavia); e condottisi a Milano, essendo sì poveri
d'ogni cosa che si conveniva loro il nome di bisognoso, accrebbeno le calamità
de' milanesi, spogliandogli insino per le strade. Così restorono vani i disegni
de' franzesi e de' viniziani, di tutta la vernata, che erano stati di impedire
la passata di questi fanti, pigliare Gavi e i luoghi circostanti per conto di
Genova, e Case, che faceva danno grande a tutto il paese. Prese ancora Antonio
de Leva a patti Binasco. Ma l'essere stati gli spagnuoli accomodati di barche
da Piacenza, e il credersi che non si sarebbeno mossi se non avessino avuto
certezza di potere in caso di necessità ritirarsi in quella città, aggiunto a
molti altri indizi, accresceva a' collegati il sospetto (e massime veduta la
restituzione delle fortezze) che il pontefice non fusse accordato o per
accordare con Cesare.
Il quale avendo
volto, benché occultamente, tutti i suoi pensieri a ricuperare lo stato di
Firenze, se bene aggirando gli oratori franzesi tenesse varie pratiche e
proponesse varie speranze, a loro e agli altri confederati, di accostarsi alla
lega, nondimeno, parte movendolo il timore della grandezza di Cesare e la
prosperità de' suoi successi, parte lo sperare di indurre più facilmente lui
che non arebbe indotto il re di Francia ad aiutarlo a rimettere i suoi in
Firenze, desiderava estremamente, per facilitare questo disegno, tirare a sua
divozione lo stato di Perugia: però si credeva che fomentasse Braccio Baglione
e Pirro, che tutto dì tentavano nuovi travagli in quegli confini. Per il quale
sospetto Malatesta, dubitando che mentre stava a' soldi suoi non avesse a
essere oppresso con il suo favore, gli pareva necessario cercarsi di altra
protezione. E però, mosso o da questa cagione o da cupidità di maggiori
partiti, o dall'odio antico, negava di ricondursi seco, pretendendo non essere
tenuto all'anno del beneplacito, perché diceva non apparirne scrittura, benché il
pontefice affermasse che gli era obligato: però trattando di condursi col re di
Francia e co' fiorentini, e lamentandosi eziandio di pratiche tenute dal
cardinale di Cortona contro a lui, e di una lettera, che aveva intercetta, del
cardinale de' Medici a Braccio Baglione. Ma il pontefice, volendo per indiretto
interrompere questa condotta, proibì per editti publici che niuno suo suddito
pigliasse senza sua licenza soldo da altri prìncipi, sotto pena di
confiscazione. Nondimeno, non restò per questo Malatesta di condursi. Al quale
i franzesi si obligorono di dare dugento cavalli, dumila scudi di provisione,
l'ordine di San Michele e dumila fanti in tempo di guerra; e i fiorentini gli
detteno titolo di governatore, dumila scudi di provisione, mille fanti in tempo
di guerra, cinquanta cavalli al figliuolo suo e cinquanta al figliuolo di
Orazio, e cinquecento scudi per il piatto di tutti due; preseno la protezione
del suo stato e di Perugia; e tra il re di Francia e loro cento scudi il mese a
tempo di pace, per intrattenere dieci capitani. Pagavongli i fiorentini anche
dugento fanti per guardare Perugia; ed egli obligato, ne' bisogni loro, di
andare a servirgli con mille fanti soli, non avendo eziandio le genti promesse
da' franzesi. Querelossi molto appresso al re di Francia il pontefice di questa
condotta, come fatta direttamente per impedirgli di potere disporre a suo
arbitrio d'una città suddita alla Chiesa. L'animo del quale non volendo il re
offendere, differiva il ratificarla; e il pontefice per questo sperando di
poterne rimuovere Malatesta, lo persuadeva che continuasse l'anno del
beneplacito, e nel tempo medesimo fomentava occultamente Braccio Baglione,
Sciarra Colonna e i fuorusciti di Perugia, i quali raccogliendo gente si erano
accampati a Norcia: cose tutte vane, perché Malatesta era deliberato non
continuare negli stipendi del pontefice; e aiutandolo scopertamente i
fiorentini, non temeva di questi movimenti: i quali conoscendo il pontefice non
bastare alla sua intenzione, presto cessorono. Non lasciava anche il pontefice
stare quieto il duca di Ferrara, tanto alieno dalle convenzioni fatte in nome
del collegio de' cardinali con lui che, essendo vacato di nuovo il vescovato di
Modona per la morte del cardinale da Gonzaga, promesso al figliuolo del duca in
quella convenzione, lo conferì a uno figliuolo di Ieronimo Morone; cercando,
per la denegazione del possesso, occasione di provocargli contro questo
ministro di autorità appresso allo esercito imperiale. Ma si crede che ancora,
per mezzo di Uberto da Gambara governatore di Bologna, trattasse con Ieronimo
Pio di occupare Reggio: del quale il duca, pervenutogli indizio di questa
pratica, fece pigliare il debito supplicio. Trattava anche di recuperare
furtivamente Ravenna, cosa che medesimamente riuscì vana.
Nel quale tempo
anche, o poco poi, il pontefice, inclinando ogni dì più con l'animo alle parti
di Cesare, ed essendo già con lui in pratiche molto strette, per le quali mandò
il vescovo di Vasone suo maestro di casa a Cesare, avocò in ruota la causa del
divorzio di Inghilterra: cosa che arebbe fatto molto innanzi se non l'avesse
ritenuto il rispetto della bolla che era in Inghilterra, in mano del Campeggio.
Perché, essendo augumentate le cose di Cesare in Italia, non solamente non volendo
offenderlo più ma rivocare l'offesa che gli aveva fatta, deliberato eziandio,
innanzi che ammalasse, di avocare la causa, mandò Francesco Campana in
Inghilterra al cardinale Campeggio, dimostrando al re mandarlo per altre
cagioni pure attenenti a quella causa, ma con commissione al Campeggio che
abbruciasse la bolla: il che benché differisse di eseguire, per essere
sopravenuta la infermità del pontefice, guarendo poi, messe a effetto il
comandamento suo. Però il pontefice, liberato da questo timore, avocò la causa,
con indegnazione grandissima di quel re, massime quando dimandando la bolla al
cardinale intese quello che ne era successo. Partorirono queste cose la ruina
del cardinale eboracense, perché il re presupponeva la autorità del cardinale
essere tale appresso al pontefice che, se gli fusse stato grato il matrimonio
con Anna, arebbe ottenuto tutto quello che avesse voluto. Per la quale
indegnazione aperti gli orecchi alla invidia e alle calunnie de' suoi
avversari, toltogli i danari e le robe sue mobili di immoderata valuta, e delle
entrate ecclesiastiche lasciatagli una piccola parte, lo relegò al suo
vescovado con pochi servitori; né molto poi, o per avere intercette sue lettere
al re di Francia o per altra cagione, istigato dai medesimi, i quali per certe
parole dette dal re, che dimostravano desiderio di lui, temevano che egli non
recuperasse la pristina autorità, lo citò a difendere una accusazione
introdotta contro a lui nel consiglio regio; per la quale essendo menato alla
corte come prigione, sopravenutogli, nel cammino, flusso o per sdegno o per
timore, morì il secondo dì della sua infermità: esempio, a' tempi nostri,
memorabile di quel che possa la fortuna e la invidia nelle corti de' prìncipi.
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