XIII. Risposta di Cesare agli ambasciatori dei fiorentini mandati a
trattare con lui. Contegno del re di Francia verso Cesare e verso i collegati
italiani. Trattative fra Cesare e il duca di Milano. Azione del pontefice per
la concordia fra i veneziani e Cesare. Accordi del duca di Milano coi
veneziani; resa di Pavia a Antonio de Leva.
Ma gli
imbasciadori fiorentini, presentatisi intanto a Cesare, si erano nella prima
esposizione congratulati della venuta sua, e sforzatisi di farlo capace che la
città non era ambiziosa, ma grata de' benefici e pronta a fare comodità a chi
la conservasse; aveano scusato che era entrata nella lega col re di Francia per
volontà del pontefice che la comandava, e avere continuato per necessità; non
procedendo più oltre, perché non aveano commissione [di conchiudere, ma] di
avvisare quello che fusse proposto loro, ed espresso comandamento della
republica che non udissino pratica alcuna col pontefice; visitare gli altri
legati suoi ma non il cardinale de' Medici. A' quali innanzi fusse risposto, disse
loro il gran cancelliere, eletto nuovamente cardinale, che era necessario
satisfacessino al pontefice; e querelandosi essi della ingiustizia di questa
dimanda, rispose che, per essersi la città confederata con gli inimici di
Cesare e mandate le genti a offesa sua, era ricaduta dai privilegi suoi e
devoluta allo imperio, e che però Cesare ne poteva disporre ad arbitrio suo.
Finalmente fu risposto loro, in nome di Cesare, che facessino venire il mandato
abile a convenire eziandio col pontefice, e che poi si attenderebbe alle
differenze tra il papa e loro; le quali se prima non si componevano, non voleva
Cesare trattare con loro gli interessi propri. Mandoronlo amplissimo a
convenire con Cesare, ma non a convenire col pontefice: però, essendo Cesare
(che partì da Genova a' trenta di agosto) andato a Piacenza, gli imbasciadori
seguitandolo non furono ammessi in Piacenza poiché si era inteso non avere il
mandato nel modo che aveva chiesto Cesare. Così restorono le cose senza
concordia.
E aveva anche
Cesare, ricevuti che ebbe rigidamente gli imbasciadori del duca di Ferrara,
fattigli partire; benché ritornando poi con nuove pratiche, e forse con nuovi
favori, furono ammessi. Mandò anche Nassau oratore al re di Francia, a
congratularsi che con nuova congiunzione avessino stabilito il vincolo del
parentado, e a ricevere la ratificazione: per le quali cause mandava anche a
lui il re l'ammiraglio, e a Renzo da Ceri mandò danari perché si levasse con
tutte le genti di Puglia; dove preparò anche dodici galee, perché vi andassino
sotto Filippino Doria contro a' viniziani (contro a' quali Cesare mandò Andrea
Doria con trentasette galee): benché, giudicando dovere essere più certa la
recuperazione de' figliuoli se a Cesare restasse qualche difficoltà in Italia,
dava varie speranze a' collegati; e a' fiorentini particolarmente prometteva di
mandare loro occultamente, per l'ammiraglio, danari, non perché avesse in animo
di sovvenire o loro o gli altri ma perché stessino più renitenti a convenire
con Cesare.
Praticavasi
intratanto continuamente tra Cesare e il duca di Milano, per mano del
protonotario Caracciolo, che andava da Cremona a Piacenza; e parendo strano a
Cesare che il duca si piegasse manco a lui di quello che arebbe creduto, e il
duca da altro canto riducendosi difficilmente a fidarsi, fu introdotta pratica
che Alessandria e Pavia si deponessino in mano del papa, insino a tanto fusse
conosciuta la causa sua. A che scrive il Cappella che gli imbasciadori del duca
che erano appresso a Cesare non volleno consentire; ma credo che la conclusione
mancasse da Cesare, non gli parendo potesse resistere alle forze sue, e tanto
più che Antonio de Leva era andato a Piacenza e (come era inimico dell'ozio e
della pace), l'aveva confortato con molte ragioni alla guerra. Però Cesare gli
commesse che facesse la impresa di Pavia; disegnando anche che nel tempo
medesimo il capitano Felix, che [era] venuto co' nuovi lanzi e con cavalli e
artiglierie verso Peschiera, e dipoi entrato in bresciano, rompesse da quella
banda a' viniziani; avendo fatto il marchese di Mantova capitano generale di
quella impresa.
Trattava
intanto il pontefice la pace tra Cesare e i viniziani, con speranza di
conchiuderla alla venuta sua di Bologna; perché avendo avuto prima in animo di
abboccarsi a Genova con lui, avevano poi differito di comune consentimento, per
la comodità del luogo, a convenirsi a Bologna; inducendogli a essere insieme
non solo il desiderio comune di confermare e consolidare meglio la loro
congiunzione, ma ancora Cesare la necessità, perché aveva in animo di pigliare
la corona dello imperio, e il pontefice la cupidità della impresa di Firenze; e
l'uno e l'altro di loro il desiderio di dare qualche forma alle cose d'Italia
(che non poteva fare senza [comporre] le cose de' viniziani e del duca di
Milano); ed eziandio di provedere a' pericoli imminenti del turco, il quale,
con grande esercito entrato in Ungheria, camminava alla volta di Austria per
attendere alla espugnazione di Vienna.
Nel quale tempo
tra Cesare e i viniziani non si facevano fazioni di momento; perché i
viniziani, inclinati ad accordare seco, per non irritare più l'animo suo,
avevano ritirato l'armata loro dalla impresa del castello di Brindisi a Corfù,
attendendo solo a guardare le terre tenevano, e in Lombardia non si facendo per
ancora se non leggiere escursioni. Però, intenti solo alla guardia delle terre,
avevano messo in Brescia il duca d'Urbino, e in Bergamo il conte di Gaiazzo con
seimila fanti. Il quale (non so se innanzi entrasse in Bergamo o poi), avendo
fatto una imboscata presso a Valezzo, per avere inteso farsi una cavalcata da'
cavalli borgognoni, essendo venuti grossi, lo ruppeno, preseno Gismondo
Malatesta e Lucantonio; egli, fatto prigione da quattro italiani, persuasogli
con grandi promesse che lo lasciassino fu da loro condotto a Peschiera e
liberato. Erano i tedeschi mille cavalli e otto in diecimila fanti; i quali,
stati dispersi qualche dì, si ritirorno a Lonata, disegnandosi che insieme col
marchese di Mantova facessino la impresa di Cremona, dove era il duca di
Milano. Il quale, vedendosi escluso dallo accordo con Cesare, e che Antonio de
Leva era andato a campo a Pavia, e che già il Caracciolo andava a Cremona a
denunziargli la guerra, convenne co' viniziani di non fare concordia con Cesare
senza consentimento loro; i quali si obligorono dargli per la difesa del suo
stato dumila fanti pagati e ottomila ducati il mese, e gli mandorono
artiglierie e gente a Cremona; col quale aiuto confidava il duca potere
difendere Cremona e Lodi. Perché Pavia fece contro a Antonio de Leva piccola
resistenza, non solo perché non vi era vettovaglia per due mesi ma eziandio
perché il Pizzinardo, proposto a guardarla, aveva mandato pochi dì innanzi
quattro compagnie di fanti a Santo Angelo, dove Antonio de Leva aveva fatto
dimostrazione di volersi accampare; e però, essendo restato dentro con poca
gente, diffidatosi poterla difendere, non aspettata né batteria né assalto,
come vedde prepararsi di piantare l'artiglierie, si accordò, salve le persone e
la roba sua e de' soldati: con grande imputazione che avesse potuto più in lui,
e però indottolo ad affrettarsi, la cupidità di non perdere le ricchezze che
aveva accumulate in tante prede che il desiderio di salvare la gloria
acquistata per molte egregie opere fatte in questa guerra, e specialmente
intorno a Pavia.
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