II. Scaramuccie sotto Firenze. Francesco Ferruccio riconquista Volterra
arresasi al pontefice. Nuove scaramuccie tra fiorentini e imperiali. Speranza
de' fiorentini nel re di Francia e scarsi aiuti avutine. Conquista della
fortezza di Empoli da parte degli imperiali; ragioni per cui i fiorentini non
possono più sperare negli aiuti del re di Francia. Vani assalti degli imperiali
a Volterra; sortita di assediati da Firenze. Strettezze del vivere in Firenze;
battaglia di Gavinana; morte del principe d'Oranges e uccisione del Ferruccio.
Stato d'animo in Firenze; come Malatesta Baglioni forza i fiorentini agli
accordi; patti dell'accordo; mutamento del governo in Firenze. Persecuzioni, e
tristi condizioni della città.
Facevano [gli
imperiali] molti segni di volere assaltare la città, però si lavorava la
trincea innanzi al bastione di San Giorgio; dove essendosi fatta, a' ventuno di
marzo, una grossa scaramuccia, riceverono quegli di fuora assai danno. Batté
Oranges a' venticinque la torre di... a canto al bastione di San Giorgio verso
la porta Romana, perché offendeva molto l'esercito; ma trovandola solidissima,
dopo molte cannonate, se ne astenne. E accumulandosi ogni dì nuova gente,
poiché in Italia non erano né altre guerre né altre prede, il Maramaus venne in
quel di Siena, contro alla volontà del pontefice, con dumila fanti.
Erasi la città
di Volterra arrenduta al pontefice; ma tenendosi la fortezza per i fiorentini,
si batteva in nome degli imperiali con due cannoni e tre colubrine venute da
Genova: la quale desiderando i fiorentini soccorrere, mandorono a Empoli cento
cinquanta cavalli e cinque bandiere di fanti, i quali, usciti di notte, passorono
per il campo tra Monte Uliveto e San Giorgio; ed essendo scoperti furno mandati
dietro a loro cavalli, i quali gli raggiunseno, ma combattuti dagli
archibusieri si ritirorono con qualche danno; e i cavalli usciti di Firenze,
per altra via dietro al campo, si condusseno salvi. Entrorono adunque, a'
ventisei di aprile a ventuna ora, nella fortezza di...; e rinfrescati i
soldati, assaltò subito la terra: e prese, insino alla notte, due trincee; in
modo che, la mattina seguente, la città si dette. E guadagnò il Ferruccio
l'artiglieria venuta da Genova. E trovandosi in Volterra con quattordici
compagnie di fanti, arebbe fatto rivoltare Sangeminiano e Colle e,
interrompendo le vettovaglie che per quella via venivano da Siena, messo lo
esercito in grave difficoltà: i capitani del quale non pensando più se non allo
assedio, il marchese del Guasto ritirò in Prato l'artiglierie. Ma essendo
opportunamente sopragiunto in quelle bande il Maramaus, con dumila cinquecento
fanti non pagati, soccorso venuto (tanto sono incerte le cose della guerra)
contro alla volontà del pontefice, fermò l'impeto suo.
A' nove di
maggio si fece una grossa scaramuccia fuora della porta Romana: morti e feriti
di quegli di dentro cento trenta, di quegli di fuori più di dugento; tra' quali
il capitano Baragnino spagnuolo.
Speravano pure
ancora i fiorentini dal re di Francia qualche sussidio, il quale continuava di
promettere grandissimo soccorso recuperati che avesse i figliuoli; e per
nutrirgli in questo mezzo con speranza, dette assegnamento a mercatanti
fiorentini per ventimila ducati, dovuti loro molti anni innanzi, perché gli
prestassino alla città; i quali furono condotti a Pisa da Luigi Alamanni, ma in
più volte, in modo che feceno poco frutto. Venne anche a Pisa Giampaolo da
Ceri, condotto da' fiorentini per la guardia di quella città.
Ma l'acquisto
di Volterra generò danno molto maggiore a fiorentini, perché il Ferruccio,
contro alla commissione avuta, aveva, per andare più forte a Volterra e per
confidarsi troppo della fortezza di Empoli, lasciatovi sì poca guardia che,
dato animo agli imperiali di espugnarlo, vi andorono a campo e lo preseno per
forza e saccheggioronlo. La perdita del quale luogo afflisse, più che altra
cosa che fusse succeduta in quella guerra, i fiorentini; perché, avendo
disegnato fare in quel luogo massa di nuove genti, speravano con l'opportunità
del sito, che è grandissima, mettere in difficoltà grande l'esercito alloggiato
da quella parte d'Arno, e aprire la comodità delle vettovaglie a' fiorentini
che già molto ne pativano. E si aggiunse nuova cagione di privargli tanto più
delle speranze concepute, perché avendo il re di Francia, al principio di
giugno, pagato, secondo le loro convenzioni, i danari a Cesare e riavuti i
figliuoli, in luogo di tanti aiuti che aveva sempre detto di riservare a quel
tempo, mandò a instanza del pontefice (il quale per gratificarsi totalmente i
ministri suoi creò il vescovo di Tarba, oratore appresso a lui, cardinale)
Pierfrancesco da Pontriemoli, confidente a lui in Italia, per trattare la
pratica dello accordo co' fiorentini; che, per questo, al tutto perderono la
speranza degli aiuti di quel re: il quale insieme col re di Inghilterra,
essendo congiunti insieme, facevano ogni opera per conciliarsi in modo il
pontefice che potessino sperare di separarlo da Cesare. E però il re di Francia
si sforzava avere, nel fare venire Firenze in sua potestà, qualche grado e
qualche partecipazione.
Preso che ebbe
il marchese del Guasto Empoli, andò con quelle genti a unirsi col Maramaus nel
borgo di Volterra; ed essendo circa seimila fanti cominciorono a battere la
terra, ed essendo in terra forse quaranta braccia di mura detteno tre assalti
invano, con la morte di più di quattrocento uomini. Feciono poi nuova batteria,
e detteno uno assalto gagliardo co' fanti italiani e spagnuoli ma con danno
maggiore che negli assalti di prima; in modo che il campo si levò. E il
medesimo dì, un'ora innanzi giorno, uscirono Stefano Colonna dalla porta a
Faenza con una incamiciata di tremila fanti, e Malatesta dalla porticciuola al
Prato, per assaltare i tedeschi che alloggiavano nel monasterio di San Donato,
nel quale si erano fortificati. Passò Stefano le trincee e ne ammazzò molti, ma
gli altri messisi in questo mezzo in battaglia si difeseno francamente; e
Stefano ferito in bocca e nel membro virile, ma leggiermente, si ritirò, non
potendo tardare molto per paura del soccorso, e lamentandosi gravemente di
Malatesta che non l'avesse seguitato.
Cresceva
continuamente in Firenze, dove non entrava più vettovaglia da parte alcuna, la
strettezza del vivere; e nondimeno non diminuiva la ostinazione. Ed essendo
andato da Volterra a Pisa il Ferruccio e raccogliendo quanti più fanti poteva,
era ridotta tutta la speranza loro nella venuta sua: perché gli avevano
commesso che, per qualunque via e con ogni pericolo, si mettesse a venire;
disegnando, come fusse unito con le genti che erano in Firenze, di andare a
combattere con gli inimici. Nel quale disegno non fu maggiore la felicità del
successo che fusse grande la temerità della deliberazione, se temerari si
possono chiamare i consigli spinti dall'ultima necessità. Perché avendo a
passare per paesi inimici, e occupati da esercito molto grosso benché disperso
in molti luoghi, il principe, levata una parte dello esercito e raccolte più
bande di fanti italiani, avuta (come i fiorentini sospettorono) fede
occultamente da Malatesta Baglione, col quale aveva pratiche strettissime, che
in assenza sua non assalterebbe l'esercito, andò a incontrarlo; e trovatolo
presso a Cavinana, nella montagna di Pistoia (il quale cammino aveva preso
passando da Pisa accanto a Lucca, per la confidenza della fazione Cancelliera
affezionata al governo popolare), si attaccò con lui molto superiore di forze:
dove, nel primo impeto, facendo il principe offizio di uomo d'arme non di
capitano, spintosi temerariamente innanzi fu ammazzato. Nondimeno ottenuta da'
suoi la vittoria, restò prigione insieme con molti altri Giampaolo da Ceri e il
Ferruccio, che così prigione fu ammazzato da Fabrizio Maramaus, per sdegno,
secondo disse, conceputo da lui quando, nella oppugnazione di Volterra, fece
appiccare uno trombetto, mandato in Volterra da Fabrizio con certa imbasciata.
Così
abbandonati i fiorentini da ogni aiuto divino e umano, e prevalendo la fame
senza speranza alcuna che potesse più essere sollevata, era nondimeno maggiore
la pertinacia di quegli che si opponevano allo accordo: i quali, indotti dalla
ultima disperazione di non volere che senza l'eccidio della patria fusse la
rovina loro, né trattandosi più che essi o altri cittadini morissino per
salvare la patria ma che la patria morisse insieme con loro, erano anche
seguitati da molti che avevano impresso nell'animo che gli aiuti miracolosi di
Dio si avessino a dimostrare, ma non prima che condotte le cose a termine che
quasi più niente di spirito vi avanzasse. Ed era pericolo che la guerra non
finisse con l'ultimo esterminio di quella città, perché in questa ostinazione
concorrevano i magistrati, e quasi tutti quegli che avevano in mano la publica
autorità; non restando luogo agli altri, che sentivano il contrario, di
contradire per timore de' magistrati e minacci dell'arme: se Malatesta Baglioni,
conoscendo le cose senza rimedio, non gli avesse quasi sforzati a concordare;
movendolo forse la pietà di vedere totalmente perire, per la rabbia de' suoi
cittadini, sì preclara città, e il disonore e danno che gli risulterebbe a
trovarsi presente a tanta rovina; ma molto più, secondo si credette, la
speranza di conseguire dal papa, per mezzo di questo accordo, di ritornare in
Perugia. Però, mentre che i magistrati e gli altri più caldi trattano che le
genti uscissino della città a combattere con gli inimici, molto maggiori di
numero e alloggiati in luoghi forti, ed egli recusa, moltiplicarono in tanta
insania che cassatolo del capitanato mandorono alcuni di loro de' più pertinaci
a denunziargliene, e fargli comandamento che partisse con le sue genti della città:
alla quale esposizione concitato molto di animo, con uno pugnale che aveva a
canto ferì uno di loro, che con fatica gli fu vivo tolto delle mani da'
circostanti; di che spaventati gli altri, e cominciatasi a sollevare la città,
repressa da quegli di minore insania la temerità del gonfaloniere che si
armava, ora dicendo volere assaltare Malatesta ora uscire a combattere con gli
inimici, finalmente l'ostinazione estrema di molti cedé alla necessità estrema
di tutti. Però, mandati a' nove di agosto quattro oratori a don Ferrando da
Gonzaga, che per la morte del principe teneva il primo luogo dello esercito,
perché il marchese del Guasto molto prima si era partito, fu concluso il dì
seguente l'accordo; del quale, oltre a obligarsi la città a pagare in pochissimi
dì ottantamila ducati per levare l'esercito, furono gli articoli principali che
il papa e la città detteno autorità a Cesare che infra tre mesi dichiarasse
quale avesse a essere la forma del governo, salva nondimeno la libertà: e che
si intendessino perdonate a ciascuno tutte le ingiurie fatte al papa e a' suoi
amici e servitori; e che, insino a tanto venisse la dichiarazione di Cesare,
restasse a guardia della città con dumila fanti Malatesta Baglione. Il quale
accordo fatto, mentre si espediscono i denari per dare allo esercito, (bisognò
si provedesse di somma molto maggiore, non essendo il papa molto pronto ad
aiutare la città di denari in tanto pericolo), il commissario apostolico, che
era Bartolomeo Valori, intesosi con Malatesta, intento tutto al ritorno di
Perugia, convocato in piazza il popolo, secondo la consuetudine antica della
città, a fare parlamento, cedendo a questo i magistrati e gli altri per timore,
indusse nuova forma di governo; dandosi per il parlamento autorità a dodici
cittadini che aderivano a' Medici di ordinare a modo loro il governo della
città, che lo ridusseno a quella forma che soleva essere innanzi all'anno mille
cinquecento ventisette. Levossi poi l'esercito, avendo ricevuto i denari; i
quali i capitani italiani, per convertirgli in uso suo e non pagarne i soldati,
con grande ignominia della milizia, si ritirorono con essi in Firenze,
licenziati con pochissimi denari i fanti: i quali restando senza capo se ne
andorono dispersi in varie parti; e lo esercito degli spagnuoli e tedeschi,
pagati del tutto e lasciato vacue tutte le terre e dominio fiorentino, se ne
andò in quel di Siena per riordinare il governo di quella città; e Malatesta
Baglione, concedendogli il papa il ritornare in Perugia, non aspettata altra
dichiarazione di Cesare, lasciò la città libera in arbitrio del pontefice.
Dove, come
furono partiti tutti i soldati, cominciorono i supplizi e le persecuzioni de'
cittadini: perché quegli in mano di chi era il governo, parte per assicurare
meglio lo stato, parte per lo sdegno conceputo contro agli autori di tanti mali
e per la memoria delle ingiurie ricevute privatamente, ma principalmente perché
così fu (benché lo manifestasse a pochi) la intenzione del pontefice,
interpretorono, osservando forse la superficie delle parole ma cavillando il
senso, che il capitolo per il quale si prometteva la venia a chi avesse
ingiuriato il pontefice e gli amici suoi non cancellasse le ingiurie e i
delitti commessi da loro nelle cose della republica. Però, messa la cognizione
in mano de' magistrati, ne furono decapitati sei de' principali, altri
incarcerati e relegatine grandissimo numero. Per il che essendo indebolita più
la città, e messi in maggiore necessità quegli che avevano partecipato in
queste cose, restò più libera e più assoluta e quasi regia la potestà de'
Medici in quella città, restata per sì lunga e grave guerra esaustissima di
denari, privata dentro e fuora di molti abitatori, perdute le case e le
sostanze, e più che mai divisa in se medesima: la quale povertà fece ancora
maggiore la necessità di provedere, per più anni, di paesi esterni alle
vettovaglie del paese. Con ciò sia che quello anno non si fusse ricolto né
dipoi seminato, e i disordini di quello anno trasfusi negli altri; in modo che
più denari uscirono di quella città, estenuata sopramodo e afflitta, in fare
venire frumenti di luoghi lontani e bestiami fuora del dominio che non erano
usciti per conto della guerra, sì grave e piena di tante spese.
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