In diverse occasioni fece Elisabetta molti
colloqui con la figlia, confidandole i favori che le compartiva il Signore.
Standole la suddetta sempre dappresso, la madre si esternava dicendole: Il Signore vuole che voi sappiate molte cose
del mio spirito e il mio confessore mi ha dato la licenza che vi comunichi in
segreto parte delle grazie che ricevo dal mio Signore Gesù Cristo, benché sia
tanto indegna peccatrice, tuttavia mi usa tanta misericordia.
Venerdì
Santo, 20 aprile 1821, avevo sofferto molti patimenti interni, in memoria della passione
e morte di Gesù Cristo, il benedetto Signore si degnò darmi un vivo desiderio
di riceverlo spiritualmente nella divina Eucaristia.
Dopo
aver fatto molti atti di fede, speranza e carità, sentivo un vivo desiderio e
un’ardente brama di ricevere il pane di vita eterna.
Il
Signore si degnò esaudire i poveri miei desideri, che per mezzo della sua santa
grazia erano ardentissimi, e disfacendomi in lagrime con umile sentimento gli
mostrai l’ardente mio desiderio. Si degnò il mio amorosissimo Signore di
inviarmi il glorioso principe degli apostoli San Pietro, corteggiato da molte
schiere angeliche, e mi fu somministrato dal Santo Apostolo il Santissimo
Sacramento dell’Eucaristia.
Quali
affetti di santa umiltà, di gratitudine, d’amore, di rispetto e di venerazione
provò il povero mio cuore non è possibile potervelo manifestare. A dirvi il
vero, fui sopraffatta da lagrime abbondantissime e da una dolcezza di spirito
soprannaturale, godevo nell’intimo del mio cuore un gaudio di paradiso.
Il
Santo Apostolo, a me rivolto, così mi parlò: «Rallegrati, o figlia diletta di Dio e ringrazia l’infinito suo amore, gli eccelsi
favori che l’alta sua bontà ti comparte. Mostragli in tutte le tue operazioni
la tua fedeltà, fatti coraggio di patire per amore suo. Compiaciti nella sua
volontà divina, prosegui con energia a sostenere l’impegno intrapreso di
sostenere la Chiesa di Dio a costo di ogni fatica e pena, anche con il proprio
tuo sangue». Soggiungeva il Santo
Apostolo: «Io ti prometto
di proteggerti e di aiutarti in tutte le tue intraprese».
Alle
parole di questo benedetto santo la povera anima mia si annientò in se stessa,
per vedersi tanto beneficata da un Dio di infinita maestà e di bontà infinita,
riconoscendosi affatto indegna ed immeritevole di tante grazie. Proruppi in
accenti umili e amorosi verso il mio amorosissimo Iddio, lodando e benedicendo
il Suo santissimo nome e nuovamente mi offrivo qual vittima d’amore per
adempìre la Sua santissima volontà, fino all’ultimo respiro della mia vita.
Il
giorno della Resurrezione del Signore, stando in orazione, tutto ad un tratto
mi parve di trovarmi con lo spirito in un delizioso ed ameno giardino. Era il
mio spirito tutto raccolto in Dio, contemplando la bellezza e l’amenità dei
preziosi fiori di quell’amenissimo soggiorno, che tutto spirava odore di santa
soavità. Tutto quello che vedevo mi rammentava l’amor grande che mi porta il
mio Iddio. Queste cognizioni mi umiliavano profondamente e mi facevano
riconoscere per la creatura più vile della terra.
Restavo
stupefatta, considerando l’infinita bontà di Dio nel vedermi tanto beneficata
dopo averlo tanto offeso ed oltraggiato. Riconoscendomi affatto immeritevole di
ogni bene, prorompevo in lagrime di eccessivo dolore; ricordandomi di averlo
offeso, mi umiliavo fino al profondo del proprio mio nulla. Lodavo e benedicevo
l’infinita misericordia del mio amorosissimo Iddio e, sopraffatta da veemente
amore, lo pregavo incessantemente a prendere sopra di me qualunque
soddisfazione, purché degnato si fosse di perdonare tutti i miei peccati e mi
avesse permesso di poterlo sinceramente amare.
Questo
santo desiderio si accrebbe nel mio spirito in guisa tale che mi faceva
languire d’amore. Dopo essermi trattenuta per qualche tempo in questo amoroso
languore, che mi alienò dai sensi, mi parve di trovarmi con lo spirito sopra di
un altissimo monte, dove vedevo una croce ben grande, già piantata e stabilita
sopra del suddetto monte.
A
questa vista la povera anima mia si riempì di timore, perché conosceva che
quella croce a me apparteneva. Ciò nonostante, genuflessa avanti a questa
croce, adoravo le divine disposizioni di Dio e lo pregavo di darmi la grazia di
adempìre la sua santissima volontà.
Fatta
la preghiera, mi parve di vedere l’amabilissimo mio Gesù con la sua santissima
madre, i quali, pieni di piacevolezza e amore, a me si avvicinarono, facendomi
coraggio a patire per amore e per onore dell’eterno divin Padre.
Gesù
Cristo mi fece intendere che di nuovo mi fossi offerta, qual vittima d’amore, a
patire in unione dei suoi patimenti. Si degnò l’amorosissimo Signore di
confortarmi e consolarmi con le più dolci ed amabili sue parole: «Figlia», mi disse, «confida pure negli eccessi incomprensibili della mia infinita misericordia. Fatti coraggio di
patire per amor mio. Io sarò sempre con te, per aiutarti e per renderti
vittoriosa di te stessa. Io ti lascio la mia cara Madre per tuo conforto.
Figlia, il mio amore è quello che ti crocifiggerà sopra di questa croce. Io
sarò il sacerdote e tu la vittima. L’amor mio ti pone in questa situazione,
acciò tutti conoscano ed ammirino l’eccesso incomprensibile della mia carità
verso di te da me praticata, e perché molte anime imparino ad amarmi con
semplicità di spirito, con purità di mente, con retta intenzione di piacere
solo a me, e che l’amor mio le guidi all’adempimento perfetto della mia
volontà. Felici saranno quelle anime che seguiranno i tuoi esempi, e in spirito
e verità si daranno alla tua sequela, e non altro cercheranno che l’amor mio,
il mio onore, la mia gloria. Oh come da queste anime mi farò trovare prodigo
delle mie grazie e dei miei favori!».
Con
queste ed altre simili espressioni di carità andava il benedetto Signore
confortando la povera anima mia, e con interna illustrazione le dava a
conoscere la nobiltà di questo patire. Mi fece intendere ancora quanto grato gli
fosse il povero mio sagrificio, per mezzo del quale si sarebbe degnato di far
grazie a tutti quelli che con fiducia per mio mezzo ricorressero alla sua
infinita misericordia.
Continuerò
a palesarvi, come mia segretaria, varie altre grazie benché unite a molti patimenti,
vi dirò tutto.
Così le parlò il Signore: Ti pongo sopra di questo alto monte, acciò tutti possano vederti ed
imitarti. Figlia, abbi in memoria i bisogni della Chiesa. La conversione dei
peccatori sia lo scopo di tutte le tue operazioni.
Dette
le suddette parole, il Signore disparve, e io più non vidi la sua santissima
Madre, e il povero mio spirito restò in quel solitario monte sotto quella
croce, pieno di consolazione celeste, aspettando, con somma rassegnazione,
pazienza ed ansietà, il momento di essere dall’amore di Dio crocifissa, come mi
è stato promesso. Seguirono a queste consolazioni molte afflizioni.
Così in molte occasioni se ne espresse Elisabetta
con la figlia: Mancano alla povera anima
mia i buoni effetti che finora aveva goduto e sono stata sopraffatta da una
penosissima desolazione di spirito.
Il mio intelletto era oscurato da tenebre densissime, e più non sapevo dove
fossi, né dove mi trovassi, mi parve di aver perduto il mio Iddio.
Piangevo,
mi affliggevo, facevo al mio Dio umile ricorso, ma questo non bastava, perché
non si faceva da me ritrovare. Andava ogni giorno più crescendo a dismisura la
mia pena, aggiungendosi a questa un grande timore di perdere il mio Iddio e
perderlo per sempre.
Questo
timore era la maggior mia pena che mi portava quasi ad agonizzare e rendeva
l’anima all’ultima desolazione. In questo stato di grave afflizione si
aggiungeva un altro timore, parevami che il demonio mi avesse tramato una forte
insidia per la quale dubitavo di essere vittima di questo nemico con
l’acconsentire alle perverse sue suggestioni.
In
questa maniera andavo struggendomi e consumandomi nell’afflizione, dubitando
ogni momento di commettere qualche grave offesa al mio Iddio. Benché mi
trovassi in questo stato ho prolungato le orazioni sebbene piene di
affanni e di amarezze perché, se mi trattenevo a considerare l’infinita bontà
di Dio, viepiù mi affliggevo al riflesso della mia grande ingratitudine.
Se
meditavo la passione di Gesù Cristo, questa rimproverava la mia cattiva corrispondenza,
sicché parevami sempre di essere giustamente perseguitata dalla divina
giustizia. Oltre di ciò, altri affanni e pene che mi facevano propriamente
agonizzare. Si aggiungeva a queste pene un grandissimo desiderio di possedere
Iddio e possederlo per sempre, io lo spero per gli infiniti meriti di Gesù
Cristo. Ma, vado dicendo a me stessa: «Anima mia, chi ti assicura di corrispondere alla grazia, senza la quale
corrispondenza non poi certamente salvarti?
Osserva quanto già ne abusasti, a quante grazie tu
non hai corrisposto? Potrà Iddio soffrire più tanto eccesso di tua
ingratitudine? Sarà obbligato al certo di condannarti all’inferno per tutta
l’eternità. A tutti questi riflessi, qual funesto quadro mi si presenta alla
mente non ve lo posso spiegare, o figlia mia».
Segue un altro racconto della medesima che così
narrò.
Il
giorno due agosto del 1821, ricorrendo l’indulgenza plenaria, detta del
perdono, mi trattenevo in orazioni, pregando per le anime del purgatorio;
sentendo di queste sante anime molta compassione, feci, per mezzo della grazia
del Signore, una fervente preghiera.
Si
degnò Iddio di condurre il mio spirito a vedere l’orrido carcere del
purgatorio. Nel vedere luogo così afflittivo, dove quelle anime vengono
tormentate dalla giustizia di Dio per purificarle, a questa vista credetti di
morire per la compassione e di timore insieme, alla considerazione della divina
giustizia, che Iddio esercita verso quelle anime, già sue predilette, per
purificarle da ogni leggera imperfezione. Si degnò la misericordia di Dio, per
sua bontà, di esaudire le povere mie preghiere col liberare un grande numero di
quelle anime del purgatorio e condurle alla beata patria del paradiso.
Per non accrescere il volume, lascerò di
proseguire i grandi e segnalati favori che giornalmente il Signore le
compartiva, uniti a molti altri patimenti che Elisabetta confidò a sua figlia.
Ho accennato quel poco perché chi legge intenda che il Signore l’aveva
prescelta per un’elevata santità, nascosta agli uomini ma grandemente arricchita
e favorita da Dio medesimo; provata da un cumulo di patimenti interni ed
esterni fino alla fine della sua vita, come in parte ho descritto e in seguito
dirò.
Nel terminare il mese di settembre del 1821,
Elisabetta tornò a Marino con le sue figlie, andando il consorte per quei
giorni a dimorare presso la madre e le sorelle come nei due anni precedenti, e
così si fece anche per i tre anni successivi, fino al 1824 che fu l’ultimo anno
che Elisabetta si portò a Marino.
Riunisco questi quattro anni di villeggiatura, non
avendo cose particolari da notare, essendo questi seguiti nello stesso sistema,
meno che ogni volta che per mezzo della santa immagine di Gesù Nazareno
seguirono molte guarigioni strepitose e conversioni di molti traviati; e
restarono pacificate molte famiglie nelle quali vi erano dissapori e discordie.
Era tanto grande la fiducia che avevano quei buoni
marinesi in Elisabetta che ogni anno non vedevano il momento che giungesse fra
loro, quale angelo di pace e di consiglio, consolando tutti quelli che con lei
parlavano ed istruendo nel vero e nel retto sentiero dell’osservanza della
legge di Gesù Cristo, avendo la medesima sulle labbra una soavità ed attrattiva
mirabile. Con le sue persuasive indirizzava ad un’esatta osservanza dei propri
doveri adatti allo stato di ciascheduna.
Benché Elisabetta procurò sempre di stare più che
poteva ritirata nella stanza che gli assegnavano i padroni di casa e passava
molte ore in Chiesa in un angolo del Duomo, senza mai dare un passo per
sollievo, permetteva peraltro alle figlie che si divertissero, ma sempre
accompagnate da persone savie.
Con questo tenore di vita Elisabetta passò i
quattro anni che andò a Marino e nell’istesso modo fece il suo ritorno a Roma, riassestando
in egual maniera il sistema di famiglia, col ritorno del consorte in casa
appena ella tornava a Roma con le sue figlie.
Il tutto camminava nell’istesso ordine benché, in
questi quattro anni e un mese che sopravvisse, non le mancarono travagli interni
ed esterni che la perfezionarono a segno che il Signore la esaudì col chiamarla
al possesso della gloria, come vedremo fra poco. Ma prima descriverò vari altri
patimenti molto sensibili permessi da Iddio ad Elisabetta, provenendo questi
dai suoi parenti e da una sua figlia, in quanto la suddetta Elisabetta, temeva
sempre che Iddio si offendesse, in particolar modo le era di continuo disgusto
se vedeva le figlie alquanto dissipate117 nelle cose del mondo.
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