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Suor Maria Giuseppa Mora della SS. Trinità, figlia della Beata Elisabetta Canori Mora
Vita della Beata Elisabetta Canori Mora

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  • INTORNO ALLA VITA DELLA SERVA DI DIO ELISABETTA CANORI MORA MORTA IN ROMA IL DÌ 5 FEBBRAIO 1825 – BREVI CENNI SCRITTI DALLA FIGLIA MEDESIMA, MARIA LUCINA MORA, OSSIA MARIA GIUSEPPA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ, MONACA FILIPPINA
    • LIBRO PRIMO
        • 30 - Elisabetta confida alla sua figlia minore vari altri favori compartiti dal Signore - Torna di bel nuovo a Marino con le figlie - Suo ritorno a Roma
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30 - Elisabetta confida alla sua figlia minore vari altri favori compartiti dal Signore - Torna di bel nuovo a Marino con le figlie - Suo ritorno a Roma

 

In diverse occasioni fece Elisabetta molti colloqui con la figlia, confidandole i favori che le compartiva il Signore. Standole la suddetta sempre dappresso, la madre si esternava dicendole: Il Signore vuole che voi sappiate molte cose del mio spirito e il mio confessore mi ha dato la licenza che vi comunichi in segreto parte delle grazie che ricevo dal mio Signore Gesù Cristo, benché sia tanto indegna peccatrice, tuttavia mi usa tanta misericordia.

Venerdì Santo, 20 aprile 1821, avevo sofferto molti patimenti interni, in memoria della passione e morte di Gesù Cristo, il benedetto Signore si degnò darmi un vivo desiderio di riceverlo spiritualmente nella divina Eucaristia.

Dopo aver fatto molti atti di fede, speranza e carità, sentivo un vivo desiderio e un’ardente brama di ricevere il pane di vita eterna.

Il Signore si degnò esaudire i poveri miei desideri, che per mezzo della sua santa grazia erano ardentissimi, e disfacendomi in lagrime con umile sentimento gli mostrai l’ardente mio desiderio. Si degnò il mio amorosissimo Signore di inviarmi il glorioso principe degli apostoli San Pietro, corteggiato da molte schiere angeliche, e mi fu somministrato dal Santo Apostolo il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia.

Quali affetti di santa umiltà, di gratitudine, d’amore, di rispetto e di venerazione provò il povero mio cuore non è possibile potervelo manifestare. A dirvi il vero, fui sopraffatta da lagrime abbondantissime e da una dolcezza di spirito soprannaturale, godevo nell’intimo del mio cuore un gaudio di paradiso.

Il Santo Apostolo, a me rivolto, così mi parlò: «Rallegrati, o figlia diletta di Dio e ringrazia l’infinito suo amore, gli eccelsi favori che l’alta sua bontà ti comparte. Mostragli in tutte le tue operazioni la tua fedeltà, fatti coraggio di patire per amore suo. Compiaciti nella sua volontà divina, prosegui con energia a sostenere l’impegno intrapreso di sostenere la Chiesa di Dio a costo di ogni fatica e pena, anche con il proprio tuo sangue». Soggiungeva il Santo Apostolo: «Io ti prometto di proteggerti e di aiutarti in tutte le tue intraprese».

Alle parole di questo benedetto santo la povera anima mia si annientò in se stessa, per vedersi tanto beneficata da un Dio di infinita maestà e di bontà infinita, riconoscendosi affatto indegna ed immeritevole di tante grazie. Proruppi in accenti umili e amorosi verso il mio amorosissimo Iddio, lodando e benedicendo il Suo santissimo nome e nuovamente mi offrivo qual vittima d’amore per adempìre la Sua santissima volontà, fino all’ultimo respiro della mia vita.

Il giorno della Resurrezione del Signore, stando in orazione, tutto ad un tratto mi parve di trovarmi con lo spirito in un delizioso ed ameno giardino. Era il mio spirito tutto raccolto in Dio, contemplando la bellezza e l’amenità dei preziosi fiori di quell’amenissimo soggiorno, che tutto spirava odore di santa soavità. Tutto quello che vedevo mi rammentava l’amor grande che mi porta il mio Iddio. Queste cognizioni mi umiliavano profondamente e mi facevano riconoscere per la creatura più vile della terra.

Restavo stupefatta, considerando l’infinita bontà di Dio nel vedermi tanto beneficata dopo averlo tanto offeso ed oltraggiato. Riconoscendomi affatto immeritevole di ogni bene, prorompevo in lagrime di eccessivo dolore; ricordandomi di averlo offeso, mi umiliavo fino al profondo del proprio mio nulla. Lodavo e benedicevo l’infinita misericordia del mio amorosissimo Iddio e, sopraffatta da veemente amore, lo pregavo incessantemente a prendere sopra di me qualunque soddisfazione, purché degnato si fosse di perdonare tutti i miei peccati e mi avesse permesso di poterlo sinceramente amare.

Questo santo desiderio si accrebbe nel mio spirito in guisa tale che mi faceva languire d’amore. Dopo essermi trattenuta per qualche tempo in questo amoroso languore, che mi alienò dai sensi, mi parve di trovarmi con lo spirito sopra di un altissimo monte, dove vedevo una croce ben grande, già piantata e stabilita sopra del suddetto monte.

A questa vista la povera anima mia si riempì di timore, perché conosceva che quella croce a me apparteneva. Ciò nonostante, genuflessa avanti a questa croce, adoravo le divine disposizioni di Dio e lo pregavo di darmi la grazia di adempìre la sua santissima volontà.

Fatta la preghiera, mi parve di vedere l’amabilissimo mio Gesù con la sua santissima madre, i quali, pieni di piacevolezza e amore, a me si avvicinarono, facendomi coraggio a patire per amore e per onore dell’eterno divin Padre.

Gesù Cristo mi fece intendere che di nuovo mi fossi offerta, qual vittima d’amore, a patire in unione dei suoi patimenti. Si degnò l’amorosissimo Signore di confortarmi e consolarmi con le più dolci ed amabili sue parole: «Figlia», mi disse, «confida pure negli eccessi incomprensibili della mia infinita misericordia. Fatti coraggio di patire per amor mio. Io sarò sempre con te, per aiutarti e per renderti vittoriosa di te stessa. Io ti lascio la mia cara Madre per tuo conforto. Figlia, il mio amore è quello che ti crocifiggerà sopra di questa croce. Io sarò il sacerdote e tu la vittima. L’amor mio ti pone in questa situazione, acciò tutti conoscano ed ammirino l’eccesso incomprensibile della mia carità verso di te da me praticata, e perché molte anime imparino ad amarmi con semplicità di spirito, con purità di mente, con retta intenzione di piacere solo a me, e che l’amor mio le guidi all’adempimento perfetto della mia volontà. Felici saranno quelle anime che seguiranno i tuoi esempi, e in spirito e verità si daranno alla tua sequela, e non altro cercheranno che l’amor mio, il mio onore, la mia gloria. Oh come da queste anime mi farò trovare prodigo delle mie grazie e dei miei favori!».

Con queste ed altre simili espressioni di carità andava il benedetto Signore confortando la povera anima mia, e con interna illustrazione le dava a conoscere la nobiltà di questo patire. Mi fece intendere ancora quanto grato gli fosse il povero mio sagrificio, per mezzo del quale si sarebbe degnato di far grazie a tutti quelli che con fiducia per mio mezzo ricorressero alla sua infinita misericordia.

Continuerò a palesarvi, come mia segretaria, varie altre grazie benché unite a molti patimenti, vi dirò tutto.

Così le parlò il Signore: Ti pongo sopra di questo alto monte, acciò tutti possano vederti ed imitarti. Figlia, abbi in memoria i bisogni della Chiesa. La conversione dei peccatori sia lo scopo di tutte le tue operazioni.

Dette le suddette parole, il Signore disparve, e io più non vidi la sua santissima Madre, e il povero mio spirito restò in quel solitario monte sotto quella croce, pieno di consolazione celeste, aspettando, con somma rassegnazione, pazienza ed ansietà, il momento di essere dall’amore di Dio crocifissa, come mi è stato promesso. Seguirono a queste consolazioni molte afflizioni.

Così in molte occasioni se ne espresse Elisabetta con la figlia: Mancano alla povera anima mia i buoni effetti che finora aveva goduto e sono stata sopraffatta da una penosissima desolazione di spirito. Il mio intelletto era oscurato da tenebre densissime, e più non sapevo dove fossi, né dove mi trovassi, mi parve di aver perduto il mio Iddio.

Piangevo, mi affliggevo, facevo al mio Dio umile ricorso, ma questo non bastava, perché non si faceva da me ritrovare. Andava ogni giorno più crescendo a dismisura la mia pena, aggiungendosi a questa un grande timore di perdere il mio Iddio e perderlo per sempre.

Questo timore era la maggior mia pena che mi portava quasi ad agonizzare e rendeva l’anima all’ultima desolazione. In questo stato di grave afflizione si aggiungeva un altro timore, parevami che il demonio mi avesse tramato una forte insidia per la quale dubitavo di essere vittima di questo nemico con l’acconsentire alle perverse sue suggestioni.

In questa maniera andavo struggendomi e consumandomi nell’afflizione, dubitando ogni momento di commettere qualche grave offesa al mio Iddio. Benché mi trovassi in questo stato ho prolungato le orazioni sebbene piene di affanni e di amarezze perché, se mi trattenevo a considerare l’infinita bontà di Dio, viepiù mi affliggevo al riflesso della mia grande ingratitudine.

Se meditavo la passione di Gesù Cristo, questa rimproverava la mia cattiva corrispondenza, sicché parevami sempre di essere giustamente perseguitata dalla divina giustizia. Oltre di ciò, altri affanni e pene che mi facevano propriamente agonizzare. Si aggiungeva a queste pene un grandissimo desiderio di possedere Iddio e possederlo per sempre, io lo spero per gli infiniti meriti di Gesù Cristo. Ma, vado dicendo a me stessa: «Anima mia, chi ti assicura di corrispondere alla grazia, senza la quale corrispondenza non poi certamente salvarti?

Osserva quanto già ne abusasti, a quante grazie tu non hai corrisposto? Potrà Iddio soffrire più tanto eccesso di tua ingratitudine? Sarà obbligato al certo di condannarti all’inferno per tutta l’eternità. A tutti questi riflessi, qual funesto quadro mi si presenta alla mente non ve lo posso spiegare, o figlia mia».

Segue un altro racconto della medesima che così narrò.

Il giorno due agosto del 1821, ricorrendo l’indulgenza plenaria, detta del perdono, mi trattenevo in orazioni, pregando per le anime del purgatorio; sentendo di queste sante anime molta compassione, feci, per mezzo della grazia del Signore, una fervente preghiera.

Si degnò Iddio di condurre il mio spirito a vedere l’orrido carcere del purgatorio. Nel vedere luogo così afflittivo, dove quelle anime vengono tormentate dalla giustizia di Dio per purificarle, a questa vista credetti di morire per la compassione e di timore insieme, alla considerazione della divina giustizia, che Iddio esercita verso quelle anime, già sue predilette, per purificarle da ogni leggera imperfezione. Si degnò la misericordia di Dio, per sua bontà, di esaudire le povere mie preghiere col liberare un grande numero di quelle anime del purgatorio e condurle alla beata patria del paradiso.

Per non accrescere il volume, lascerò di proseguire i grandi e segnalati favori che giornalmente il Signore le compartiva, uniti a molti altri patimenti che Elisabetta confidò a sua figlia. Ho accennato quel poco perché chi legge intenda che il Signore l’aveva prescelta per un’elevata santità, nascosta agli uomini ma grandemente arricchita e favorita da Dio medesimo; provata da un cumulo di patimenti interni ed esterni fino alla fine della sua vita, come in parte ho descritto e in seguito dirò.

Nel terminare il mese di settembre del 1821, Elisabetta tornò a Marino con le sue figlie, andando il consorte per quei giorni a dimorare presso la madre e le sorelle come nei due anni precedenti, e così si fece anche per i tre anni successivi, fino al 1824 che fu l’ultimo anno che Elisabetta si portò a Marino.

Riunisco questi quattro anni di villeggiatura, non avendo cose particolari da notare, essendo questi seguiti nello stesso sistema, meno che ogni volta che per mezzo della santa immagine di Gesù Nazareno seguirono molte guarigioni strepitose e conversioni di molti traviati; e restarono pacificate molte famiglie nelle quali vi erano dissapori e discordie.

Era tanto grande la fiducia che avevano quei buoni marinesi in Elisabetta che ogni anno non vedevano il momento che giungesse fra loro, quale angelo di pace e di consiglio, consolando tutti quelli che con lei parlavano ed istruendo nel vero e nel retto sentiero dell’osservanza della legge di Gesù Cristo, avendo la medesima sulle labbra una soavità ed attrattiva mirabile. Con le sue persuasive indirizzava ad un’esatta osservanza dei propri doveri adatti allo stato di ciascheduna.

Benché Elisabetta procurò sempre di stare più che poteva ritirata nella stanza che gli assegnavano i padroni di casa e passava molte ore in Chiesa in un angolo del Duomo, senza mai dare un passo per sollievo, permetteva peraltro alle figlie che si divertissero, ma sempre accompagnate da persone savie.

Con questo tenore di vita Elisabetta passò i quattro anni che andò a Marino e nell’istesso modo fece il suo ritorno a Roma, riassestando in egual maniera il sistema di famiglia, col ritorno del consorte in casa appena ella tornava a Roma con le sue figlie.

Il tutto camminava nell’istesso ordine benché, in questi quattro anni e un mese che sopravvisse, non le mancarono travagli interni ed esterni che la perfezionarono a segno che il Signore la esaudì col chiamarla al possesso della gloria, come vedremo fra poco. Ma prima descriverò vari altri patimenti molto sensibili permessi da Iddio ad Elisabetta, provenendo questi dai suoi parenti e da una sua figlia, in quanto la suddetta Elisabetta, temeva sempre che Iddio si offendesse, in particolar modo le era di continuo disgusto se vedeva le figlie alquanto dissipate117 nelle cose del mondo.

 


 




117 Svagate.






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