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Suor Maria Giuseppa Mora della SS. Trinità, figlia della Beata Elisabetta Canori Mora
Vita della Beata Elisabetta Canori Mora

IntraText CT - Lettura del testo

  • INTORNO ALLA VITA DELLA SERVA DI DIO ELISABETTA CANORI MORA MORTA IN ROMA IL DÌ 5 FEBBRAIO 1825 – BREVI CENNI SCRITTI DALLA FIGLIA MEDESIMA, MARIA LUCINA MORA, OSSIA MARIA GIUSEPPA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ, MONACA FILIPPINA
    • LIBRO SECONDO
      • 1 - VITA DI ELISABETTA CANORI MORA TRINITARIA SCALZA IN QUALITÀ DI TERZIARIA
        • 8 - Quanto fosse eroico l’esercizio delle virtù cardinali nella nostra Elisabetta
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8 - Quanto fosse eroico l’esercizio delle virtù cardinali nella nostra Elisabetta

 

Non potendo sussistere le virtù morali senza l’esercizio eroico delle virtù teologiche che danno tutto il fondamento e lo splendore, riesce facile persuadere chiunque che la nostra serva di Dio abbia avuto le virtù cardinali proporzionate al suo stato, esercitato eroicamente, come ha l’eroismo delle virtù teologiche già dimostrato. Senza la grazia divina tutta la speranza dell’uomo si riduce a debolezza e miseria, quindi ne avviene che al di fuori della religione cattolica non si virtù vera, la quale necessariamente deve dipendere dal lume della fede.

La nostra Elisabetta perché illustrata dal lume della fede, rinvigorita dalla speranza ed animata dalla carità, poté mirabilmente formare la tela di una perfezione massiccia, con l’intreccio mirabile delle virtù morali, come rapidamente si farà conoscere.

Diamo principio dalla prudenza. Se il più sublime di questa virtù in un cristiano consiste nell’acquisto di tutti quei mezzi che sono necessari al conseguimento dell’ultimo fine beato e nell’adoperarli con perseveranza, intorno a ciò quanto prudente fosse la nostra serva di Dio, ben si conosce e dalla sua risoluzione magnanima con la quale si può dire, lasciò il mondo, togliendo da sé ogni sorta di vanità e di superfluo, e da quanto costantemente praticò con l’adempìre esattamente sino alla morte tutte le obbligazioni da lei contratte nel Santo Battesimo, e nell’abbracciare i consigli evangelici dei quali ottenne i dovuti permessi di osservare la regola di terziaria trinitaria. A questo scopo indirizzò ella tutti i suoi pensieri e i suoi travagli, ai quali diede gloriosamente termine col terminare della sua vita.

Che diremo poi di questa sua prudenziale condotta, nel convivere in una sì numerosa famiglia, con persone assuefatte al secolo, ed ella praticò per quanto poteva come fosse stata nel chiostro, ricordevole la nostra Elisabetta dell’avvertimento dello Spirito Santo.

Fili, sine consilio nihil facias149, dopo aver tutto consultato col suo Signore per mezzo della santa orazione, ricercava il parere degli uomini savi in ogni e qualunque sua operazione.

Per non errare maneggiò con tale destrezza la nostra Elisabetta la virtù della prudenza nel convivere e nell’operare, riunendo la sua vita devota agli obblighi di figlia e suddita nella famiglia e quello di madre ancora, di più compiacendo anche il consorte in quello che poteva con una prudenza inarrivabile. Nei doveri della cristiana giustizia si segnalò ancora la nostra serva di Dio, a proporzione del proprio stato.

Se una parte di questa virtù raggirasi nel dare a ciascuno ciò che gli è dovuto, si segnalò ella certamente intorno a questa, prestò a Dio quel culto che gli è dovuto con l’esercizio delle virtù teologiche, come abbiamo visto. Prestò la dovuta obbedienza alle leggi della Chiesa e dello stato che aveva abbracciato. A tutti ha prestato con sincerità ed affetto la sua attenzione, quantunque la serva di Dio poco campo avesse avuto di esercitarsi in quella parte di giustizia che dicesi commutativa150, perché poco ella ebbe ad ingerirsi in contratti ed in altre simili materie. Nulla di meno esattamente adempì ogni dovere che gli correva col suo prossimo, con cui altro debito non voleva che quello indispensabile di amarlo cordialmente secondo l’avviso di San Paolo, conoscendo benissimo che era obbligata per giustizia a dare una santa educazione alle sue figlie; sembrava che non fosse mai sazia intorno a questa parte. Con l’esempio, infatti, della sua santa vita, con la voce esortando continuamente, procurò di adempìre tutti i suoi doveri di giustizia. Essendo la vita nostra un continuo combattimento con fortissimi nemici, i quali ostinatamente cercano di impedirci il cammino verso il Cielo, facilmente si intende da ognuno quanto necessaria sia la virtù della fortezza per resistere agli attacchi di questi e per conseguire il sospirato riposo dopo il nostro faticoso viaggio.

Iddio che è nostra fortezza, nostro aiuto e sostegno ci chiama, è questi soltanto che un tal coraggio può infonderci nel cuore per calpestare senza paura gli aspidi ed i basilischi e per non concepire timore allo zufolare dei draghi ed al fiero ruggito dei leoni.

La nostra Elisabetta poiché fin dalla fanciullezza tenne il suo cuore unito con Dio, fu da Dio premiata col dono della cristiana fortezza, come si vedrà.

Due sono le parti della fortezza: la prima delle quali consiste nell’intraprendere, la seconda nel sopportare. Elisabetta si distinse in ambedue le parti; intraprese una vita penitente ed austera da quando Iddio la chiamò fin dalla giovanile età, benché fosse nello stato matrimoniale nel quale era arduo e difficile. Ciò nonostante però fino all’ultimo respiro, non solo si segnalò nelle maggiori austerità più che fosse religiosa di rigido Istituto, ma vi aggiunse il di più che seppe a lei dettare il fervoroso suo spirito regolato dall’obbedienza. Erano così continui i suoi digiuni nel corso degli anni, che la sua vita poteva chiamarsi un digiuno continuo, e lo stesso può dirsi delle altre mortificazioni e penitenze, proprie della vita penitente alla quale Iddio l’aveva chiamata; questa coraggiosamente intraprese, sostenne e compì, passando attraverso mille disagi, contraddizioni e pericoli.

Il suo magnanimo cuore non restò giammai abbattuto dalle tempeste che contro di lei mossero gli uomini o i demoni né fra varie amarissime prove alle quali venne sottoposta dal cielo, con le aridità di spirito e con le tentazioni più grandi, in modo particolare nei suoi austeri digiuni.

Il demonio visibilmente la molestava parandole innanzi squisite vivande e buon vino, a queste prove resistette sempre con generosa fortezza, anche nelle notturne orazioni. L’andava a frastornare, il tutto permesso da Dio affine di raffinare la sua virtù nel crogiuolo della Croce.

Nel sopportare poi e tollerare pazientemente tanto quei fisici malori, che sono funesto retaggio della nostra natura corrotta, quanto quelle traversie e i disagi che a ella cagionarono gli uomini, fu anche mirabile e sorprendente la sua cristiana fortezza in quelle dolorose infermità, cagionate dalla potestà delle tenebre nelle quali si ridusse nello stato più afflittivo che mai possa dirsi.

Ma non si udì giammai dal suo labbro una parola di lamento. Le sue voci in tali dolorose circostanze erano queste: Benedetto sia il mio Dio, sia sempre ringraziato il Signore, il mio caro Gesù, e simili. Proferì queste parole coraggiosamente allorché i demoni le davano tanti martirii e le infransero tutte le ossa, come si è già detto.

Non si vide neppure turbata in volto allorché un degno ecclesiastico la caricò di ingiurie per il motivo che aveva abbracciata una vita devota. Questi disapprovando la sua condotta, la caricò di improperi, Elisabetta con fortezza indicibile tollerò tutto e si chiamò in colpa umiliandosi davanti a quegli con una generosa sottomissione. Bene spesso in presenza della famiglia veniva corretta e ingiuriata in particolar modo da una cognata; ma la nostra Elisabetta soffrendo tutto, procurò sempre di beneficarla e starle sempre sottomessa come una suddita. Fu molte volte corretta e ingiuriata dai parenti ed anche da persone tendenti alla devozione, disapprovando e beffando il suo tenore di vita e il suo vestire usuale.

A tutte queste contumelie151 e dispregi se la passava con una disinvolta ilarità inarrivabile, con cristiana fortezza. Si oppose di sottoscrivere una carta al consorte nella quale corse il pericolo della vita, ed era pronta di incorrere la morte piuttosto che offendere Iddio con il darle il consenso che tornasse ad una non buona amicizia. A fronte di tutto questo amava il consorte in Dio grandemente, usandogli tutte quelle amorevolezze più che le fosse stato fedele. Di più amava grandemente quella donna che le aveva deviato il consorte, pregando sempre il Signore che le facesse la grazia di averla accanto in paradiso; porgendo sempre suppliche al Signore per questa grazia, lo diceva con una generosità di spirito e con umiltà insieme perché le pareva di non meritare simile favore. In questo modo Elisabetta esercitò eroicamente la virtù della fortezza in tutti gli incontri della sua vita.

Si numera per ultimo tra le virtù cardinali la temperanza, la quale altro non è se non una virtù che mette freno ai delitti, e fa che con quella misura che la ragione comanda, di questi ci serviamo. L’oggetto di questa virtù, al dire del gran Padre Sant’Agostino è il frenare e soggiogare le passioni, ché ci distolgono dal nostro fine che è la vita eterna.

In qual possesso fosse la nostra Elisabetta di una virtù così bella, lo diede a conoscere in tutto il corso della sua vita, sempre martirizzata e crocifissa per Gesù Cristo.

Se fin dalla tenera età nel monastero incominciò da educanda a mortificare la sua carne con astinenze e digiuni e con le altre opere di cristiana austerità, per cui anche vivendo in mezzo alle occasioni non la diede mai per vinta ai suoi sensi, ma regolandosi con la virtù della temperanza, quel tanto che permetteva loro, quanto sufficiente riputava e bastevole al suo mantenimento. Ciascuno può considerare a qual grado di perfezione nella nostra serva di Dio pervenisse questa virtù, dopo che voltate le spalle al secolo, si abbracciò strettamente alla croce, menando la sua vita più che fosse stata religiosa che cammina sulle tracce di regolare osservanza e di sua natura animata dalla virtù della temperanza.

Ella, come abbiamo divisato, in tutto il corso dei suoi giorni, si privò di ogni minima soddisfazione e sollievo, ma sempre più cercò di inoltrarsi per la strada del patire, malgrado le sue continue occupazioni e fatiche che sostenne per lungo tempo, per cui sembrava un prodigio come potesse reggere una tal vita.

Contenta di quanto precisamente era a lei necessario per conservarsi in vita, rifiutò coraggiosamente ogni altro ristoro e sollievo, privandosi in tutta la sua vita, da quando il Signore la chiamò, di qualunque vivanda squisita e di ogni sorta di frutti, e tutta questa mortificazione la ricopriva con il dire che per il suo stomaco questi erano cibi nocivi.

Non concedette giammai ai suoi sensi più di quel tanto che fosse d’uopo; non sortì mai di casa affine di sollevarsi qualche poco, ma solo per la Gloria di Dio, il bene del prossimo ed il merito dell’obbedienza regolavano tutte le sue azioni. Non fu giammai veduta affacciarsi alle finestre della sua abitazione, ma si accontentava di stare ritirata negli angoli della casa, per sfogare ivi con più libertà gli ardori della sua carità e la premura di nascondere agli occhi altrui le sue penitenze, mentre nascosta nei pianterreni di casa, spesso spietatamente flagellavasi a sangue.

Se camminava per le strade si osservava tutta raccolta e con gli occhi a terra in rigorosissimo silenzio. Sempre taciturna e ritirata nella sua camera, per quanto comportava il suo stato, fuggiva da qualunque ceto di persone che non fosse gastigato nel parlare. Odiava i lussuriosi, le mormorazioni e le dicerie, tutti effetti di un costume formato sul modello della virtù; a corto dire, se la nostra serva di Dio fu mirabile nell’esercizio delle virtù teologali, fu ancora mirabile, esercitandosi nelle virtù cardinali ed in tutte quelle altre che dalle medesime nascono o dipendono.


 




149 Figlio, non fare nulla senza consiglio. (Cfr. Ecclo 32, 24).



150 Che obbliga al contraccambio equivalente.



151 Ingiurie.






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