Non potendo sussistere le virtù morali senza
l’esercizio eroico delle virtù teologiche che danno tutto il fondamento e lo
splendore, riesce facile persuadere chiunque che la nostra serva di Dio abbia
avuto le virtù cardinali proporzionate al suo stato, esercitato eroicamente,
come ha l’eroismo delle virtù teologiche già dimostrato. Senza la grazia divina
tutta la speranza dell’uomo si riduce a debolezza e miseria, quindi ne avviene
che al di fuori della religione cattolica non si dà virtù vera, la quale
necessariamente deve dipendere dal lume della fede.
La nostra Elisabetta perché illustrata dal lume
della fede, rinvigorita dalla speranza ed animata dalla carità, poté
mirabilmente formare la tela di una perfezione massiccia, con l’intreccio
mirabile delle virtù morali, come rapidamente si farà conoscere.
Diamo principio dalla prudenza. Se il più sublime
di questa virtù in un cristiano consiste nell’acquisto di tutti quei mezzi che
sono necessari al conseguimento dell’ultimo fine beato e nell’adoperarli con
perseveranza, intorno a ciò quanto prudente fosse la nostra serva di Dio, ben
si conosce e dalla sua risoluzione magnanima con la quale si può dire, lasciò
il mondo, togliendo da sé ogni sorta di vanità e di superfluo, e da quanto
costantemente praticò con l’adempìre esattamente sino alla morte tutte le
obbligazioni da lei contratte nel Santo Battesimo, e nell’abbracciare i
consigli evangelici dei quali ottenne i dovuti permessi di osservare la regola
di terziaria trinitaria. A questo scopo indirizzò ella tutti i suoi pensieri e
i suoi travagli, ai quali diede gloriosamente termine col terminare della sua
vita.
Che diremo poi di questa sua prudenziale condotta,
nel convivere in una sì numerosa famiglia, con persone assuefatte al secolo, ed
ella praticò per quanto poteva come fosse stata nel chiostro, ricordevole la
nostra Elisabetta dell’avvertimento dello Spirito Santo.
Fili,
sine consilio nihil facias149, dopo aver tutto
consultato col suo Signore per mezzo della santa orazione, ricercava il parere
degli uomini savi in ogni e qualunque sua operazione.
Per non errare maneggiò con tale destrezza la
nostra Elisabetta la virtù della prudenza nel convivere e nell’operare,
riunendo la sua vita devota agli obblighi di figlia e suddita nella famiglia e
quello di madre ancora, di più compiacendo anche il consorte in quello che
poteva con una prudenza inarrivabile. Nei doveri della cristiana giustizia si
segnalò ancora la nostra serva di Dio, a proporzione del proprio stato.
Se una parte di questa virtù raggirasi nel dare a
ciascuno ciò che gli è dovuto, si segnalò ella certamente intorno a questa,
prestò a Dio quel culto che gli è dovuto con l’esercizio delle virtù
teologiche, come abbiamo visto. Prestò la dovuta obbedienza alle leggi della
Chiesa e dello stato che aveva abbracciato. A tutti ha prestato con sincerità
ed affetto la sua attenzione, quantunque la serva di Dio poco campo avesse
avuto di esercitarsi in quella parte di giustizia che dicesi
commutativa150, perché poco ella ebbe ad ingerirsi in contratti ed in
altre simili materie. Nulla di meno esattamente adempì ogni dovere che gli
correva col suo prossimo, con cui altro debito non voleva che quello
indispensabile di amarlo cordialmente secondo l’avviso di San Paolo, conoscendo
benissimo che era obbligata per giustizia a dare una santa educazione alle sue
figlie; sembrava che non fosse mai sazia intorno a questa parte. Con l’esempio,
infatti, della sua santa vita, con la voce esortando continuamente, procurò di
adempìre tutti i suoi doveri di giustizia. Essendo la vita nostra un continuo
combattimento con fortissimi nemici, i quali ostinatamente cercano di impedirci
il cammino verso il Cielo, facilmente si intende da ognuno quanto necessaria
sia la virtù della fortezza per resistere agli attacchi di questi e per
conseguire il sospirato riposo dopo il nostro faticoso viaggio.
Iddio che è nostra fortezza, nostro aiuto e sostegno
ci chiama, è questi soltanto che un tal coraggio può infonderci nel cuore per
calpestare senza paura gli aspidi ed i basilischi e per non concepire timore
allo zufolare dei draghi ed al fiero ruggito dei leoni.
La nostra Elisabetta poiché fin dalla fanciullezza
tenne il suo cuore unito con Dio, fu da Dio premiata col dono della cristiana
fortezza, come si vedrà.
Due sono le parti della fortezza: la prima delle
quali consiste nell’intraprendere, la seconda nel sopportare. Elisabetta si
distinse in ambedue le parti; intraprese una vita penitente ed austera da
quando Iddio la chiamò fin dalla giovanile età, benché fosse nello stato
matrimoniale nel quale era arduo e difficile. Ciò nonostante però fino
all’ultimo respiro, non solo si segnalò nelle maggiori austerità più che fosse
religiosa di rigido Istituto, ma vi aggiunse il di più che seppe a lei dettare
il fervoroso suo spirito regolato dall’obbedienza. Erano così continui i suoi
digiuni nel corso degli anni, che la sua vita poteva chiamarsi un digiuno
continuo, e lo stesso può dirsi delle altre mortificazioni e penitenze, proprie
della vita penitente alla quale Iddio l’aveva chiamata; questa coraggiosamente
intraprese, sostenne e compì, passando attraverso mille disagi, contraddizioni
e pericoli.
Il suo magnanimo cuore non restò giammai abbattuto
dalle tempeste che contro di lei mossero gli uomini o i demoni né fra varie
amarissime prove alle quali venne sottoposta dal cielo, con le aridità di
spirito e con le tentazioni più grandi, in modo particolare nei suoi austeri
digiuni.
Il demonio visibilmente la molestava parandole
innanzi squisite vivande e buon vino, a queste prove resistette sempre con
generosa fortezza, anche nelle notturne orazioni. L’andava a frastornare, il
tutto permesso da Dio affine di raffinare la sua virtù nel crogiuolo della
Croce.
Nel sopportare poi e tollerare pazientemente tanto
quei fisici malori, che sono funesto retaggio della nostra natura corrotta,
quanto quelle traversie e i disagi che a ella cagionarono gli uomini, fu anche
mirabile e sorprendente la sua cristiana fortezza in quelle dolorose infermità,
cagionate dalla potestà delle tenebre nelle quali si ridusse nello stato più
afflittivo che mai possa dirsi.
Ma non si udì giammai dal suo labbro una parola di
lamento. Le sue voci in tali dolorose circostanze erano queste: Benedetto sia il mio Dio, sia sempre
ringraziato il Signore, il mio caro
Gesù, e simili. Proferì queste parole coraggiosamente allorché i demoni le
davano tanti martirii e le infransero tutte le ossa, come si è già detto.
Non si vide neppure turbata in volto allorché un
degno ecclesiastico la caricò di ingiurie per il motivo che aveva abbracciata
una vita devota. Questi disapprovando la sua condotta, la caricò di improperi,
Elisabetta con fortezza indicibile tollerò tutto e si chiamò in colpa
umiliandosi davanti a quegli con una generosa sottomissione. Bene spesso in
presenza della famiglia veniva corretta e ingiuriata in particolar modo da una
cognata; ma la nostra Elisabetta soffrendo tutto, procurò sempre di beneficarla
e starle sempre sottomessa come una suddita. Fu molte volte corretta e
ingiuriata dai parenti ed anche da persone tendenti alla devozione,
disapprovando e beffando il suo tenore di vita e il suo vestire usuale.
A tutte queste contumelie151 e dispregi se
la passava con una disinvolta ilarità inarrivabile, con cristiana fortezza. Si
oppose di sottoscrivere una carta al consorte nella quale corse il pericolo
della vita, ed era pronta di incorrere la morte piuttosto che offendere Iddio
con il darle il consenso che tornasse ad una non buona amicizia. A fronte di
tutto questo amava il consorte in Dio grandemente, usandogli tutte quelle
amorevolezze più che le fosse stato fedele. Di più amava grandemente quella
donna che le aveva deviato il consorte, pregando sempre il Signore che le
facesse la grazia di averla accanto in paradiso; porgendo sempre suppliche al
Signore per questa grazia, lo diceva con una generosità di spirito e con umiltà
insieme perché le pareva di non meritare simile favore. In questo modo
Elisabetta esercitò eroicamente la virtù della fortezza in tutti gli incontri
della sua vita.
Si numera per ultimo tra le virtù cardinali la
temperanza, la quale altro non è se non una virtù che mette freno ai delitti, e
fa che con quella misura che la ragione comanda, di questi ci serviamo.
L’oggetto di questa virtù, al dire del gran Padre Sant’Agostino è il frenare e
soggiogare le passioni, ché ci distolgono dal nostro fine che è la vita eterna.
In qual possesso fosse la nostra Elisabetta di una
virtù così bella, lo diede a conoscere in tutto il corso della sua vita, sempre
martirizzata e crocifissa per Gesù Cristo.
Se fin dalla tenera età nel monastero incominciò
da educanda a mortificare la sua carne con astinenze e digiuni e con le altre
opere di cristiana austerità, per cui anche vivendo in mezzo alle occasioni non
la diede mai per vinta ai suoi sensi, ma regolandosi con la virtù della
temperanza, quel tanto che permetteva loro, quanto sufficiente riputava e
bastevole al suo mantenimento. Ciascuno può considerare a qual grado di
perfezione nella nostra serva di Dio pervenisse questa virtù, dopo che voltate
le spalle al secolo, si abbracciò strettamente alla croce, menando la sua vita
più che fosse stata religiosa che cammina sulle tracce di regolare osservanza e
di sua natura animata dalla virtù della temperanza.
Ella, come abbiamo divisato, in tutto il corso dei
suoi giorni, si privò di ogni minima soddisfazione e sollievo, ma sempre più
cercò di inoltrarsi per la strada del patire, malgrado le sue continue
occupazioni e fatiche che sostenne per lungo tempo, per cui sembrava un
prodigio come potesse reggere una tal vita.
Contenta di quanto precisamente era a lei
necessario per conservarsi in vita, rifiutò coraggiosamente ogni altro ristoro
e sollievo, privandosi in tutta la sua vita, da quando il Signore la chiamò, di
qualunque vivanda squisita e di ogni sorta di frutti, e tutta questa
mortificazione la ricopriva con il dire che per il suo stomaco questi erano
cibi nocivi.
Non concedette giammai ai suoi sensi più di quel
tanto che fosse d’uopo; non sortì mai di casa affine di sollevarsi qualche
poco, ma solo per la Gloria di Dio, il bene del prossimo ed il merito
dell’obbedienza regolavano tutte le sue azioni. Non fu giammai veduta affacciarsi
alle finestre della sua abitazione, ma si accontentava di stare ritirata negli
angoli della casa, per sfogare ivi con più libertà gli ardori della sua carità
e la premura di nascondere agli occhi altrui le sue penitenze, mentre nascosta
nei pianterreni di casa, spesso spietatamente flagellavasi a sangue.
Se camminava per le strade si osservava tutta
raccolta e con gli occhi a terra in rigorosissimo silenzio. Sempre taciturna e
ritirata nella sua camera, per quanto comportava il suo stato, fuggiva da
qualunque ceto di persone che non fosse gastigato nel parlare. Odiava i
lussuriosi, le mormorazioni e le dicerie, tutti effetti di un costume formato
sul modello della virtù; a corto dire, se la nostra serva di Dio fu mirabile
nell’esercizio delle virtù teologali, fu ancora mirabile, esercitandosi nelle
virtù cardinali ed in tutte quelle altre che dalle medesime nascono o
dipendono.
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