Abbiamo finora osservato a qual grado di altezza
giungesse la mole e l’edificio dell’eminente perfezione della serva di Dio, Elisabetta.
Bisogna adesso conoscere la profondità di quel fondamento sopra cui venne a
poggiare ed a mantenersi sempre salda sino al termine dei suoi giorni. Poggia
questa e s’innalza sul fondamento dell’umiltà, né mai dove manchi questa sola,
può darsi altra perfetta virtù. Questa discerne il giusto dal peccatore, come
l’aurora divide il giorno dalla notte; e questa forma il principale carattere
dei veri discepoli di quel Divino Maestro, il quale si dichiarò mite ed umile
di cuore. Agli umili è promessa e concessa la grazia ed in seno agli umili
riposa lo Spirito del Signore. A quale alto grado di perfezione perciò non
dovremo noi dire, che s’innalzasse la nostra Serva di Dio, se tutto l’eroico
progresso della sua vita altro non fu che un vilissimo abbassamento di se
medesima. Era così bassa la stima che di se stessa aveva, riputandosi la più
perversa e scellerata creatura della terra; non ad altro indirizzava, come bene
spesso si esprimeva, che le sue fatiche e i travagli dovevano essere offerti in
soddisfazione dei suoi enormi peccati. Quasi ogni giorno si accostava al
tribunale della penitenza e con un profluvio di lagrime, esagerando la sua
ingratitudine verso Dio e la non corrispondenza ai suoi segnalati favori.
Si protestava per le sue colpe di stare confinata
nell’inferno sotto Lucifero. S’impiegava tutta nelle faccende domestiche e
nelle cose più basse e dispregevoli; assisteva nella cucina, aiutando il cuoco,
portando legna e carbone, lavando i piatti, scopando non solo varie camere, ma
ben anche il gallinaro, ed ogni altro ufficio basso di casa, nettando ogni
sorta di lordura anche negli ospedali e presso i poveri infermi che andava a
visitare nei loro abituri.
Era a lei tanto cara la virtù della santa umiltà
che con molta facilità la esercitava, perché cercava ad ogni costo di piacere
al suo Dio.
Per conservare questo basso concetto di se stessa,
era sempre intenta alla mortificazione e al silenzio, non tralasciando la
continua orazione e riflessione del proprio suo nulla, e con questo si faceva
sorda alle burle e agli scherni che riceveva dai parenti che prendevano motivo
di biasimare la sua condotta, vedendola data a un tenore di vita così umiliante
nel vestire e nell’operare. Per amore di questa santa virtù arrivò a fare delle
mortificazioni ripugnanti alla natura che poi le furono proibite dal confessore
e il suo spirito restò contento di obbedire, rinunziando non solo alla volontà,
ma ancora all’intelletto, desiderando di divenire stolta affatto per Gesù
Cristo, lontana da ogni cosa che potesse ridondare in suo vantaggio. Se ne
viveva sequestrata dal consorzio di tutti, sempre penetrata da una viva
cognizione del proprio nulla e della propria miseria, quindi la sola virtù
dell’obbedienza la costringeva a prestarsi per il vantaggio del prossimo. Benché
esagerava con sorprendente vivezza la sua insufficienza e i suoi demeriti, non
parendole di poter sollevare il capo dal profondo dell’inferno che diceva di
meritarsi in ogni istante, ma bello era pur anche il vedere come intrecciando
virtù con virtù, si assoggettava ai voleri di coloro che sopra di lei
esercitavano le veci di Dio.
Perché poi secondo la dottrina dell’angelico San
Tommaso la cognizione della propria miseria è regola non solo degli atti della
volontà, ma anche delle espressioni della lingua, dal sentire così bassamente
di sé nasceva nella nostra serva di Dio il parlare con tale avvilimento della
sua persona, che potrebbe sembrare eccessivo, se l’umiltà che canonizzò nei
Santi simili trasporti, non la giustificasse ancora in questa loro perfetta
imitatrice.
I nomi pertanto coi quali soleva chiamarsi erano
fango, nulla, peggio delle bestie, spergiura di un Dio, peccatrice vilissima ed
altri di altissimo avvilimento, dichiarandosi con tutti che era un’ignorante,
di niuna cognizione e capacità, buona a nulla; quindi se il suono che riesce
più dolce alle orecchie degli uomini è quello delle proprie lodi, alla nostra
Elisabetta riusciva quello dei propri biasimi. Più di una volta venne in
pubblico maltrattata e derisa da quelli della famiglia, perfino dai domestici
fu trattata da sciocca, da testarda e perfino da strega e indemoniata, in
queste circostanze appunto si dava a conoscere per ben fondata l’umiltà della
nostra serva di Dio, mentre tutta con allegrezza soffrendo, sentiva in se
stessa come un trasporto veemente di ringraziare e beneficare nel tempo stesso
i suoi contraddittori.
Una condotta sì umile che ringraziava chi la
ingiuriava, inteneriva quelli che vi si trovavano presenti, i quali ne
restavano edificati. Non poteva il suo umile spirito tollerare gli applausi e
le dimostrazioni di stima che verso di lei praticavano molte persone
ammiratrici delle sue eroiche virtù; allora si vedeva tutta confusa e sottovoce
ripeva: Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam153.
Si concentrava nella considerazione del proprio nulla, oppure con qualche motto
faceto cercava di distogliere dalla mente altrui il concetto formato della sua
segnalata virtù. In molte occasioni manifestò con espressioni vivissime, quanto
fosse penetrata dallo spirito della santa umiltà. Con questi ed altri simili
sentimenti di umiltà e di compunzione154 si mantenne fino all’ultimo
respiro della sua vita, dando prove evidenti del suo umile spirito. Quel Dio
però che si gloria di deprimere i superbi e di esaltare gli umili compiacendosi
sempre dell’umiltà della nostra Elisabetta, l’arricchì di doni e di pregi
segnalati e distinti, come si osserverà nel seguente libro.
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