Suole ordinariamente il Signore liberare sempre i
suoi servi innanzi tempo, renderli consapevoli del loro passaggio all’eterna
felicità ed in tal guisa viepiù animarli a tollerare i disagi e le pene di
questa misera vita, sul riflesso del poco che loro resta da combattere per
l’acquisto della immarcescibile corona ben dovuta a coloro che santamente
consumano la carriera della cristiana perfezione, un favore sì segnalato venne
compartito più tempo innanzi alla nostra Elisabetta, la quale sentiva quel
dolce invito Veni ad Patrem167.
Dall’anno 1819 aveva già pronunziato alla figlia
minore che la terza malattia sarebbe stata l’ultima della sua vita e sempre le
ripeteva, poco più nel decorso di cinque anni che sopravvisse e spesso
ragionava sopra la brevità della vita e la fugacità dei beni di questo misero
mondo. Ma dopo la morte della sua suocera che accadde il 12 dicembre 1824, nel
terminare il suddetto mese, fu sorpresa Elisabetta da un poco di male come
fosse un principio di idropisia ma giudicata dal medico non umorale ma quel
poco gonfiore cagionato dai nervi ciò nonostante le ordinò vari medicamenti ed
ella li usava per obbedienza, ma niente vi era di pericolo né da temersi per la
vita. Ma ella ripeteva: Questa è l’ultima
mia infermità e lo vedrete. Il consorte e le figlie le davano sulla voce
come per tanto piccolo male si mettesse in questa apprensione, ma la medesima
rispondeva: Siate certi che quando starò
meglio me ne andrò all’altra vita alla quale molto aspiro, non sento
apprensione per il male, toglietevi questi pensieri, ma vi dico solo che è mio
dovere sistemare gli affari acciò non vi troviate smarrite e desolate,
disse alle figlie, ed intanto si andava licenziando da molte persone anche con
lettere, ma in modo direi come scherzando acciò poi non restasse nuovo quando
sarebbe seguita la sua morte e non facesse tanta impressione la sua partenza da
questa vita.
Andava intanto Elisabetta, benché così
infermiccia, assestando gli affari di famiglia, ma il suo principale pensiero
fu di lasciare alle figlie chi supplisse alle sue veci e pregò il già mentovato
signor Giovanni Cherubini se voleva prendersi l’incarico di prestarsi alle sue
figlie come esecutore testamentario disgelandogli la sua volontà e pregandolo
che le sistemasse le suddette, ognuna nello stato che Iddio le aveva chiamate.
Alla maggiore le facesse disbrigare
il matrimonio già combinato e dandogli il peso e
il maneggio di tutto come a sua vece. Il suddetto ben volentieri accettò questo
peso, ma dispiacendogli molto il sentire l’annunzio che presto sarebbe partita
da questo mondo. Si trovò come smarrito non sapendo darle credito voleva
dimostrarle che era pronto a compiacerla ma non così presto: Chissà, le soggiunse, non vada avanti io e lei vuol dare a me il
carico delle sue figlie! e voleva frastornare tale discorso per il tanto
dispiacere che sentiva per una tale perdita, amandola come una sorella
veramente in Gesù Cristo.
Se la passava intanto Elisabetta con tutta disinvoltura
e fervore di spirito accompagnata da una gioconda letizia; mancando pochi
giorni al suo felice passaggio, chiamò le figlie e disse: Io mi avvicino alla partenza da questo esilio, vi raccomando di
portarvi bene con Dio, ricordatevi le grazie e i favori ricevuti da questo
amatissimo Signore. Osservate la Sua santa legge, ormai avete l’età della
discrezione, conoscete il bene che dovete abbracciare e il male che dovete
fuggire. Vi inculco il rispetto e l’ossequio che dovete al vostro padre e procurate
di aiutarlo per quanto potete nell’anima e per il corpo compatitelo,
sopportatelo e compiacetelo più che vi sarà possibile, ricordandovi sempre che
vi è padre. Io non vi lascio così orfane già ho pensato a tutto; il mio
esecutore testamentario sarà il signor Giovanni Cherubini che ha accettato
questo incarico e voi due gli sarete soggette come a mia vece.
Vi
lascio per tutore quell’altro Signore, il quale mi ha promesso che in mia
mancanza supplirà con ogni premura alle vostre occorrenze; vi lascio per padre
padrone Gesù Nazareno, vi pongo sotto i manti di Maria santissima e di San
Giuseppe, non vi turbate ma state tranquille e in pace aspettando che giunga
l’ora decretata dall’altissimo Iddio. Vi ricordo della
promessa fatta di vestirmi voi due, e tacque vedendo le figlie commosse di
maniera che non potevano proferir parola per l’acerbità del dolore.
Nella giornata il Padre Ferdinando andò a visitare
Elisabetta, appena lo videro le figlie con calde lagrime lo supplicarono che
con la sua autorità impedisse che la loro madre morisse così presto. Ah, gli dissero, questo è in mani sue glielo
comandi che preghi il Signore di non levarla così presto dal mondo in età tanto
fresca.
A questo parlare quel buon religioso si mosse a
compassione e assicurò di fare quanto poteva per consolarle, ma soggiunse: Sono vari giorni che le ho portato queste
ragioni che pregasse il Signore, se gli piaceva, di prolungarle la vita, mentre
a questa preghiera ci doveva unire l’obbedienza che gliene dava il confessore.
Vedremo se Iddio vorrà esaudirci e io vi prometto di riprovarvi, ma il suo
spirito è quello che con ardenti sospiri desidera scarcerarsi dal corpo e
violenta il cuore di Dio a condurla seco nei replicati favori che le comparte
più che mai si accende di possederlo presto senza tante dilazioni né vincoli
che la trattengano.
Era anche quel buon religioso confuso fra il
timore e la speranza se il Signore volesse esaudirli, che non sapeva cosa dire.
|