Al rumore della porta di casa corsero gli
appigionanti per vedere se occorreva qualche cosa, immaginando che qualche
sturbo avesse preso ad Elisabetta, ma trovarono che era già trapassata tanto
più gli rincrebbe perché era degli anni che si conoscevano e ci passava una
santa amicizia. Volevano consolare le figlie che erano come stupide e anche
dare di mano a vestirla, ma le figlie dissero: Non si ha da fare altro che metterle la tonaca, e la vollero
lasciare per quella notte sopra il letto, quasi sperando che tornasse in vita.
Terminato questo, tornò in casa dopo quattro ore
di notte il consorte di Elisabetta e trovandola che più non viveva volle morire
di pena, pianse amaramente e diceva alle figlie: Ma come è andato? Io non l’ho lasciata gravata, anzi si può dire bene,
pareva un poco bene da non farvi caso,
e non si poteva dar pace. E con queste querele e condoglianze con gli appigionanti
che fecero un’alternativa or l’una or l’altra, passarono tutta la notte.
Appena si fece giorno, con qualche aiuto le figlie
la trasportarono in cappella sopra un tappeto per terra. Intanto si sparse la
voce e la mattina si empì la casa di parenti e conoscenti tanto per ossequiare
quel sagro cadavere dal quale tanti vi avevano ricevuto molti benefici, quanto
ancora per consolare le figlie trapassate dal dolore.
Essendo domenica le suddette non si mossero di
casa andandovi quel sacerdote che quasi tutti i giorni celebrava la Messa in
cappella e comunicava Elisabetta. Quanto sentì al vivo una tal perdita questo
degno ecclesiastico: Ah!, disse, bene l’aveva pronunziato con qualche accento
ma non avrei creduto così presto e questa mattina invece di comunicarla dovrò
celebrare, presente il suo cadavere; è un gran sacrificio ma per far ascoltare
la Messa alle figlie, mi vincerò, come fece.
Di poi disse che aveva provata una dolcezza di
spirito sovrumana più degli altri giorni che vi celebrava assicurando tutti quelli
che vi erano dicendo: Da che ho avuto la
sorte di celebrare in questa santa cappella e trattare un poco con questa serva
di Dio, ho cambiato vita e ho conosciuto i pregi nascosti della via dello
spirito.
Fra tutte le persone concorse il primo fu il signor
Giovanni Cherubini il quale, come si era preso il carico di esecutore
testamentario, si diede premura di soddisfare alla parola data.
Con un’amorevolezza paterna, benché molto sentisse
la perdita di Elisabetta, ad ogni modo si diede carico di operare; prima
consolò le figlie e voleva persuaderle ad andare fuori di casa per qualche
giorno temendo che si ammalassero. Ma le suddette ringraziarono tutti di tale
amorevole esibizione dicendo che non volevano lasciare la loro madre benché
defunta finché stava in casa, come fecero.
Allora il Cherubini esibì alle figlie cosa
volevano fare per seppellire quella santa spoglia, dovendo trattarsi col
parroco, gli dissero: Giacché ci usa
tanta carità, dica al curato che la defunta appartiene all’Ordine Trinitario, se
si contenta, noi la vogliamo far seppellire a San Carlo alle Quattro Fontane;
se gli fa resistenza gli soggiunga che noi non la vogliamo mandare al comune
nella parrocchia ma piuttosto la manderemo alla sepoltura della famiglia
Canori, alla quale appartiene all’ Aracoeli
con i suoi genitori e parenti. Ma gli aggiunga che la spesa la facciamo come si
seppellisse in parrocchia senza risparmio di spesa volendo dare questo ultimo
atto di gratitudine alla nostra madre che tanto ha fatto per noi, se i denari non
arrivano venderemo come suol dirsi anche i chiodi di casa.
Il curato si contentò che la defunta si
seppellisse a San Carlo alla sepoltura dei Trinitari. Volevano allestire il
trasporto il giorno della domenica ma le figlie non vollero, dissero: Non ci privino così presto della compagnia
della nostra cara madre è una spoglia che non reca disturbo, né cattivo odore,
anzi spande fragranza benché tutte le finestre stiano chiuse. Faremo questa
privazione il giorno di lunedì sul tardi.
Dissero al suddetto signor Cherubini che le
facesse fare l’accompagno dai religiosi di Aracoeli e dai sacerdoti, quanti
credeva il curato, compagnie non si può, perché a una terziaria trinitaria non
lo permettono con la povertà. Fra i religiosi ci fu chi disse: E come si fa, se la mandate in Chiesa il
giorno di lunedì, il martedì mattina non può stare esposta perché il giorno
otto cade la festa di San Giovanni de Matha uno dei fondatori171 dell’Ordine Trinitario.
Risposero le figlie: E di questo abbiamo piacere, così starà sopra terra un giorno di più.
Venuto dunque il giorno sette di lunedì dopo ventidue ore, si doveva portare
via il cadavere di Elisabetta. La casa era piena di parenti e amici; le figlie
non volevano staccarsi dalla madre.
La minore aveva passato quei due giorni e notti
quasi sempre in cappella ai piedi della sua madre; non vi era il modo di
staccarla perché stava chiusa dentro sola.
Finalmente stava per venire la compagnia, la zia
sorella di Elisabetta con tono imperioso le comandò che sortisse fuori, rispose
la suddetta figlia: Mi lasci compìre gli
ultimi uffici di attizzare le lampade
e le candele, e, bagiando e ribagiando le mani e i piedi della sua cara
madre si partì non alzando un occhio a rimirare né a salutare le molte persone
che vi erano.
La suddetta zia prese il padre e le figlie e le
mise in carrozza dicendo al vitturino che spronasse i cavalli, mentre la
compagnia già si approssimava e li condusse a visitare la Scala Santa.
Dopo vollero tornare subito in casa, dicendo: Non ci fa ribrezzo né paura, anzi ci reca
devozione il rimirare le cose di nostra madre, basti il dire che non le abbiamo
potuto recitare un de profundis sano, andando la lingua sempre al gloria patri
e sempre nella mente anzi nelle orecchie come cantare attollite, portas, principes vestras172 e quel che segue e altri inni di gloria. E
nel visitare la Via Crucis sempre abbiamo formata l’intenzione che mandasse
Iddio il suffragio a quelle anime che desiderava nostra madre essendo certe che
la medesima non ha di bisogno, così le Messe fatte celebrare le abbiamo dirette
con la stessa intenzione.
Fu portato dunque il giorno di lunedì il cadavere
di Elisabetta nella Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane e fu consegnato
dal parroco ai Padri Trinitari che la depositarono in una cappella per
celebrare il martedì la festa del santo fondatore, San Giovanni de Matha.
Il martedì si fecero le esequie nella parrocchia e
il mercoledì nella Chiesa di San Carlo dei Padri Trinitari con molta pompa.
Il giorno dopo il pranzo al tardi del mercoledì 9
febbraio, fu incassata quella benedetta spoglia ivi presenti tutti i padri e
molte persone devote dalla quale avevano ricevuto molta carità sì spirituale
come temporale.
Contornarono quel santo cadavere quasi api dove
avevano succhiato il miele del paradiso. Con molta violenza fu posta nella
cassa e con lagrime e sospiri delle stesse persone che vi erano fu accompagnata
al luogo destinato alla sepoltura sotto la suddetta Chiesa.
Il Padre Ferdinando la fece porre in luogo
separato sotto l’altare del Beato Michele dei Santi173, situata che fu
la cassa dai muratori si fece formare come un deposito come si vede
presentemente. Si fece fare una piccola lapide di pietra incassata al muro con
la seguente iscrizione:
D O M
HIC REQUIESCIT CORPUS
MARIAE ELISAB. CANORI MORA
CUIUS ANIMA
CHARITATE HEROICA ORNATA
ET DIVIN CARISMAT' LOCUPLETATA
IN COELUM EVOLAVIT
Die V Febb A D MDCCCXXV174
Non si deve qui passare sotto silenzio quanto avvenne
ad una giovane figlia di un’amica di Elisabetta. Questa stava al letto poco
bene e si era posta a sedere sul letto per cenare, nel mentre che aspettava che
gliela recassero si vide dinanzi Elisabetta, tutta risplendente e le disse: Io me ne vado in cielo ricordatevi di
confessarvi del tale peccato che per dimenticanza avete lasciato di accusarvene,
e come un lampo disparve.
Al momento la suddetta gridò: Mamma venga da me. A questo accorse subito non solo la madre ma le
sorelle, disse ancora la giovane: Madre
mia, veda che ora è. Poi le soggiunse: La
signora Elisabetta è andata in paradiso adesso. La madre le rispose: Figlia, tu sogni ad occhi aperti, è impossibile. Ah, replicò la giovane, sarebbe buono se non fosse, ma domani lei lo
verificherà se combina l’ora, per questo ho voluto che guardasse l’orologio, ah
mamma», le soggiunse piangendo, per segno del vero mi ha manifestato un
peccato che ho lasciato in confessione per dimenticanza, ma mi ha imposto di
confessarmene, veda se sbaglio o sogno. A questo dire della suddetta con
tanta osservanza, la madre con le tre figlie piansero per una tale perdita e la
mattina veniente verificarono il tutto come aveva detto l’anzidetta giovane.
Accadde il medesimo alla di lei sorella Maria
Canori la quale stava nella sua camera facendo orazione per poi andare a
riposare; in un subito vide che la sorella se ne andava agli eterni riposi
raccomandandole le figlie ché se ne prendesse pensiero fintanto che non fossero
sistemate.
A tutto questo non le pareva di credere a se
stessa e tutta quella notte non poté chiudere occhi.
Appena fatto giorno fu verificata del tutto.
Quando si portò in casa di Elisabetta trovò che non era fantasia o inganno ciò
che aveva inteso e veduto ma il tutto eseguito a puntino.
Apparve a più di una a Marino ma in particolare ad
una sua comare dicendole: Se volete
venire dove vado io bisogna che calchiate questa strada spinosa e facciate
quello che vi ho consigliato più volte quando ero in vita, non dubitate che non
dimentico alcuno delle vostre famiglie,
assicurate tutti, e in questo dire, disparve.
Non tralascerò un’altra apparizione accaduta in un
monastero di Roma, dopo vari anni dal suo felice transito.
Fu assalita da grave morbo una giovane novizia a
giudizio del medico insanabile e se quella
qualità di malattia non l’avesse così presto tolta
di vita in ogni modo non poteva professare, ma le conveniva deporre le sagre
lane e tornare in famiglia.
Così cronica si trovava la suddetta novizia
costernata e avvilita e niente le recava conforto e consolazione. Una sera la
maestra le dette un pezzo di velo di Elisabetta e senza parlare glielo dette in
mano, ma la suddetta sapeva di chi era.
Trovandosi questa cartina con questo velo diceva
fra di sé: Che mi fa questo velo? Io non
ci credo per niente a questa santità che si dice, ci sono tanti santi in cielo
proprio a questa devo raccomandarmi, ma dove mai! mi contenterò di dire tre
Pater Noster alla Santissima Trinità, e svogliatamente li recitò.
Stando la suddetta così agitata e cogitabonda
nelle sue melanconie soffrendo nella sua macchina il male, a notte inoltrata
vede uno splendore che rischiarava tutto il noviziato, più luminoso del sole
quando illumina un’aperta campagna. Da questo splendore vede vaga e maestosa
matrona vestita di bianco ammantata di luce; con questa vi era un’altra di
minore grado e come ancella sollevò la tenda che aveva intorno al letto la
novizia. Le disse la vaga matrona: Mi
conosci o figlia, io sono Elisabetta, sono venuta a guarirti, non dubitare,
professerai, sta di buon animo. Prima di partirsi le dette molti documenti
per vantaggio dell’anima sua e partì in un baleno restando tutta la notte in
colloqui e ringraziamenti al Signore.
La mattina appena si levò la maestra le raccontò
il prodigioso avvenimento ringraziandola della premura che aveva avuto nel
darle quel pezzo di velo. Il medico nel visitarla con molto stupore la trovò
sana ed essendo festa le disse che poteva ascoltare la Messa ma che tornasse al
letto per la debolezza benché dopo uno o due giorni tornò alle sue incombenze.
Al terminare dell’anno professò con pari contento
della giovane e della comunità; in seguito poi non solo non ha patito più di
quel male ma ha sempre goduto una perfetta salute fino al giorno di oggi.
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