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Suor Maria Giuseppa Mora della SS. Trinità, figlia della Beata Elisabetta Canori Mora Vita della Beata Elisabetta Canori Mora IntraText CT - Lettura del testo |
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1 - Tenore di vita di Cristoforo Mora dopo la morte della consorte Elisabetta Canori Mora
Appena tornato a casa mio padre, erano circa le ore dieci della sera del 5 febbraio 1825, restò mutolo e compreso trovando già trapassata la consorte, mia madre. Noi due figlie vedemmo un cambiamento ma non gli parlammo di niente, tanto più che eravamo molto afflitte per tale perdita, ché la nostra esistenza la dovevamo unicamente alla nostra madre. Tenemmo in casa la defunta dalla sera del sabato fino al lunedì 7 febbraio, giorno in cui fu portato il cadavere a San Carlo alle Quattro Fontane. Ma restò sopra terra in una cappella della Chiesa perché il giorno 8, era la festa di San Giovanni de Matha, fondatore dell’Ordine Trinitario. Mia madre era terziaria e ne indossava l’abito. Si fece dunque il funerale il 9 febbraio, ed essendo noi di abitazione prossime alla Chiesa, le due sorelle di mio padre non vollero permettere che tutta la mattina sentissimo il suono funebre delle campane, per cui ci vollero in casa loro che era molto distante, anche per pranzare. Il tutto andò benissimo con tanta amorevolezza e carità e, terminato il pranzo si andò a prendere il caffè. Benché così afflitte, mi rivolsi a mio padre: Mi dica papà mio, ora che è davanti alle sorelle, per amor di Dio, si metta in sua grazia e sposi quella donna che a noi non importa di avere la matrigna, benché sia di vile condizione, ci basta che si metta in grazia di Dio. A questo mio parlare così franco e ardito, il povero uomo mi rispose con tutta umiltà: Non posso farlo, perché questa donna è morta, allora tutti stettero in silenzio, e terminò la disputa. Veramente dico ciò con mia confusione perché il mio fu un grande ardire, ma peraltro per noi due sorelle ci servì di consolazione il sapere che era terminato tutto l’intrigo disdicevole. Mia sorella non sapeva darsi pace; come avevo fatto a dire simile cosa di tanta mortificazione a mio padre? Dopo questo fatto, mia sorella benché maritata dette una camera libera a mio padre ed io entrai in monastero il giorno 19 marzo 1825. Tutti mi dicevano che mio padre aveva cambiato in tutto tenore di vita e, piangendo diceva sempre: Ho santificato mia moglie con la mia cattiva condotta. Si dette talmente alla pietà che molte persone l’incontravano scalzo; andava per le Chiese senza rispetti umani, così si portò in tutto il tempo che fu in casa. Nell’anno 1833 il Signore chiamò a sé la buona mia sorella, il giorno 28 aprile, festa del patrocinio di San Giuseppe. Questo sì che fu un colpo troppo grande per mio padre! Si portò da me per fare un pianto reciproco perché anch’io amavo assai mia sorella. Dopo ciò venne da me e mi disse: Penso di lasciare il secolo e la professione che porta distrazione e occasione di disgustare il Signore; lascio clienti, compagni ed amici, cedo tutto. Voglio ritirarmi, rendermi religioso e pensare all’anima mia, ma a tutto questo devi pensare tu. Lascio l’incarico di eseguire questo unicamente a te. A queste parole, per un verso mi intesi commuovere e per l’altro vedevo la mia incapacità, gli risposi: Papà mio, che cosa posso fare io, una povera monaca in un cantone, senza relazione alcuna?. Non volle sentire questo, mi rispose: A tutto devi pensare: dove e in che Ordine credi, sarei contento anche come laico! Vedendomi così costretta, feci due righe ad un mio confessore gesuita, col quale non potei continuare a confessarmi dopo che ero diventata monaca, narrandogli il fatto e chiedendogli di indicarmi come potevo fare, mi rispose: Non è possibile fare la petizione come laico, ma che procurassi di fare la petizione per celebrare la Messa, presso i religiosi minori conventuali che, essendo soggetto istruito, ci sarei riuscita. Mi animò a farlo e senza indugio feci due righe al Padre Cibo, sagrestano nella Chiesa dei santissimi Apostoli, che volevo parlargli. Gli dissi che mi trovavo costretta da mio padre, mi rispose: Stia tranquilla, farò la richiesta al Padre Generale e gli dirò che ha tutte le prerogative per ascendere al sacerdozio. Lo conosco bene perché è mio penitente da molti anni; di questo non mi ha parlato, forse per un sentimento di umiltà, ma io mi sentirò con voi che vi ha incaricato di tutto. Difatti parlò con il Generale, credo anche con il Provinciale, mi portò l’ammissione e fu concluso tutto con molta consolazione di mio padre e mia. Mi presi il pensiero di fargli fare le tonache e tutto il corredo che gli serviva, perché in realtà non aveva che me che potessi avere qualche pensiero per lui, perché per se stesso non era adatto a queste cose. Aveva sortito un bellissimo carattere, tutto gli andava bene anche quando stava in famiglia che, se non avesse avuto quella passione che lo stralunava, era un uomo impagabile. Fu dunque fissato il giorno della sua vestizione, e questa si fece nella sagrestia di Santa Dorotea, Chiesa dell’Ordine. Mi pare che vi fosse il provinciale; vi andai con una monaca anziana, mi pare una o due sorelle di mio padre, il quale venne con il medesimo provinciale. Dopo di noi, con altro legno arrivò il fratello di mia madre suo cognato. Fu eseguita con tanta comune allegrezza la funzione; gli fu cambiato il nome di Cristoforo con il nome di Padre Antonio. Non sto a ridire il mio contento, pensando che nell’indossare il santo abito riceveva un secondo battesimo, come espresse il padre che lo vestì e che restava assolto da ogni reato di colpa fosse stato reo, avanti al tribunale di Dio. Dopo essersi trattenuto qualche giorno in quel convento, lo mandarono a fare il noviziato fuori di Roma. Dopo l’anno di noviziato fu ammesso alla professione e poco dopo ascese al sacerdozio, ordinato dal vescovo della diocesi dove dimorava. In seguito lo stesso vescovo gli dette la facoltà di confessare. I superiori vedendo che era molto erudito in tutte le scienze come se le avesse appena studiate, gli dettero l’incarico di fare scuola ai giovani religiosi. Fece così il trapasso di vari conventi, ogni tanto veniva a Roma anche per affari e in quei giorni si portava a celebrare la Santa Messa al nostro monastero. Molte volte celebrò la Messa conventuale comunicando tutte le monache, ed era una consolazione grande per me e per la cognata che in quell’epoca era superiora, e per tutta la comunità. Proseguì mio padre la sua carriera da vero religioso, non badando ai propri comodi e adattandosi a qualunque convento lo destinasse l’obbedienza, contento di stare fuori e non in Roma. Finalmente nel convento di Sezze fu assalito da penosa infermità. Ecco le precise parole che mi scrisse il sacerdote che l’assistette fino all’ultimo momento della sua vita: La malattia del Padre Mora, suo padre è stata breve; cadde malato giovedì 4 settembre e fino a tutto sabato non si presentò molto grave il di lui male. La domenica avanzò di molto in peggio, io medesimo gli amministrai i sacramenti: confessione, viatico, estrema unzione. Io, scrisse il suddetto sacerdote, sebbene addolorato per la compassione, ché il male era irreparabile, tuttavia l’aspetto venerando e rassegnato mi consolava. Passò agli eterni riposi il lunedì alle ore 10 e l’anima sua se ne volò al cielo, come speriamo, il dì 8 settembre 1845, nel convento dei Minori Conventuali di San Francesco, nel paese di Sezze. Ecco pertanto verificata la profezia che fece la sua consorte, mia madre. Io non la ricordavo perché potrebbe essere che non fossi presente, ma l’ha deposta una monaca delle Mantellate di Roma dell’Istituto de’ Serviti, di nome Maria Matilde Brambilla. Così ha raccontato e poi deposto al processo: Andai con mia madre a fare visita alla serva di Dio Elisabetta, dopo che mia madre aveva parlato, ella ci condusse in cappella a visitare Gesù Nazareno. Nell’atto che ci spedivamo, Elisabetta ci accompagnò e nel passare mia madre salutò il consorte Cristoforo che era seduto alla scrivania, il quale disse ridendo: «Sono venute a fare orazione con questa mia moglie? è sempre la notte di Natale, già è detta la Messa, io la dico a letto dormendo con questa santa donna, notte e giorno sempre in orazione. Io lascio fare». E rideva beffandosi di ciò, allora rispose mia madre: Ridete, ridete, voi direte la Messa e confesserete, allora non direte la dico a letto. A questo parlare franco della consorte, si turbò: Come, dunque morite prima di me? «Sì», le rispose, «molto prima», e così terminò la disputa e la madre e la figlia se ne andarono comprese di stupore e di meraviglia persuase che si verificasse il tutto, come avvenne.
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