Crescendo sempre più i travagli al buon Tommaso e
per conseguenza a tutta la famiglia, avendo sofferto perdite di bestiami e di
molto grano per parte dei malevoli, il povero padre di Elisabetta, vedendosi
derelitto e avvilito, ma sempre rassegnato, andava replicando le parole di
Giobbe: Signore, Voi mi avete dato i
beni, Voi me li avete tolti, Siate Benedetto!
In questo stato di tanta umiliazione si rivolse ad
un suo parente per avere qualche aiuto, ma il medesimo lo trattò da sciocco e
da uomo di poco senno come se egli avesse dissipato il vasto patrimonio di
centomila scudi, e ricusò di aiutarlo.
Dopo qualche tempo gli esibì di mantenere nel
monastero di Cascia le due ultime figlie; questa proposta fu come un colpo di
spada per i buoni genitori, per dover allontanare le figlie che tanto amavano,
ma per non disgustarlo accettarono di fare questo sagrificio e così
combinarono.
Il buon genitore con la figlia maggiore, le
accompagnò al monastero; quanto sentì la privazione e il distacco la buona
genitrice nel vederle partire, è impossibile descriverlo! ma unitamente si
rassegnarono alle divine disposizioni.
Fece dunque Elisabetta con la sorella minore
Benedetta, il suo ingresso nel monastero della Beata Rita in Cascia26.
Così dice ella di sé nei suoi scritti: All’età di undici anni, fui condotta in
monastero; vi dimorai due anni e otto mesi. Fu un tratto della misericordia di
Dio, che in questo sagro chiostro mi condusse, per liberarmi dalle vanità del
mondo, che già serpeggiavano nel mio seno. Entrata in questo sagro luogo, mi
dedicai tutta al Signore, con orazioni continue, con mortificazioni, con
esercizi di virtù e particolarmente con il raccoglimento interno, e questo lo
procuravo con la solitudine e con la
mortificazione dei sentimenti del corpo; ero favorita da Dio bene spesso, tanto
nella Santa Comunione, quanto nelle orazioni.
A
dodici anni una mattina, dopo la Santa Comunione, ebbi ordine dal mio Signore
di fare il voto di castità. Con molta consolazione, mi consagrai al Signore,
senza che il confessore ne sapesse niente, mentre la povera anima mia non aveva
altro direttore che Gesù Crocifisso; con lui mi consigliavo circa le penitenze
che praticavo, come ancora in tutto il resto.
Non
mi mancarono, in questo tempo, travagli; in particolar modo dovetti soffrire
una calunnia dal confessore, che il demonio stesso ne fu l’autore, ma con somma
tranquillità del mio cuore, anzi si aumentava viepiù il raccoglimento
interiore. In mezzo alle persecuzioni andava crescendo il mio spirito nel
Signore.
Stando dunque ella in mezzo a tali travagli con
una disinvoltura sopra l’età e con ammirazione di quelle religiose maestre, le
si aggiungeva un’altra sofferenza per parte della sorella minore, la quale
aveva sortito un temperamento pauroso. Benché tanto l’amava, le era non poco
molesta perché non poteva fare un solo passo per il monastero se non vi era
dappresso la sorella e per Elisabetta era un esercizio continuo di pazienza.
Questa, benché fanciulla di otto in nove anni, attendeva anch’essa alla vita
devota e le monache le fecero fare subito la prima Comunione. In seguito, si
andò procurando per mezzo di qualche straordinario che pareva fosse adatto per
il suo spirito, un qualche carteggio essendo molto dedita allo scrivere; si
prevalse del mezzo di una conversa, facendo comparire la suddetta nelle
soprascritte.
In queste lettere non trattava che di spirito e di
vocazione; andò tanto oltre questo carteggio che si procurò l’ingresso per
monaca nel monastero della Beata Chiara di Montefalco. Ma siccome questo suo
operare era da fanciulla, non avendo compìti dodici anni e chi riceveva le sue
lettere l’avrà creduta di una maggiore età e avrà supposto che subito potesse
entrare in prova, la sollecitava.
Benedetta voleva trovare un mezzo per adempiere i
suoi disegni e prese un espediente irriflessivo da bambina come era. Vedeva la
sorella Elisabetta tutta devota, concentrata e pronta ad abbracciare la vita
religiosa in quel monastero. Le monache erano contentissime di riceverla fra
loro e aspettavano che entrasse in quindici anni per trattare di ammetterla in
prova se con il prolungare del tempo questo sarebbe accaduto.
Vedeva dunque la sorella Benedetta in questo modo
attraversati i suoi disegni di fare il trapasso a Montefalco, perché non voleva
dividersi dalla sorella, ma seco lei condurla e tutte due farsi monache in
questo monastero. Di tutto questo maneggio di Benedetta, Elisabetta niente
sapeva e stava tranquillissima; ma la fanciulla Benedetta che ruminava il modo
di sollecitare questo trapasso, si risolvette di scrivere al padre in segreto,
sempre con l’idea che con questo mezzo si potevano fare monache tutte e due a
Montefalco.
Così scrisse: Caro
signor padre, se volete rivedere vostra figlia Elisabetta viva, è necessario
che la leviate da questo monastero, se non volete che perda la vita, mentre
l’aria così sottile l’ha ridotta nell’estrema consunzione; se vi preme fate
presto.
I buoni
genitori nel leggere una lettera così imponente di una figlia di così tenera
età, credettero di morire di pena; non si potevano persuadere che fosse la
minore figlia che scrivesse con tanto senno, ma più presto avesse scritto una
monaca per amorevolezza, vedendo che l’aria pregiudicava alla loro Elisabetta.
Appena intesa la lettera, il buon genitore si mise
in viaggio con la figlia maggiore e si portò al monastero di Cascia. La povera
Elisabetta che tutto ignorava, nel vedere il padre restò sorpresa, tanto più
che intimò di ricondurle alla propria casa. Non si può dire l’afflizione che
recasse questa risoluzione così improvvisa ad Elisabetta, vedendosi allontanare
la speranza di entrare in prova in quel monastero. Il Padre nel vederla
dimagrita e pallida, le disse che seco voleva condurla all’aria nativa, benché
le monache gli si opponessero e le preghiere che gli fece Elisabetta di non
voler sortire da quel sagro recinto nel quale Iddio la chiamava; ma queste
preghiere non furono attese dal suddetto.
La minore sorella Benedetta che era stata la causa
di tutto questo travaglio, pregò il padre di farle passare al monastero di
Montefalco; essendo quell’aria più mite non avrebbe recato danno alla salute di
Elisabetta, ma per quanto perorasse presso il padre per ottenere il suo
intento, non fu possibile rimuoverlo. Disse ad ambedue: Adesso andiamo a Roma e poi si tratterà
di altro monastero. Con questo mezzo si ricondussero alla casa paterna.
Quale fosse il dolore e il dispiacere di
Elisabetta nel lasciare la sua cara ed amata solitudine, mentre godeva tante
delizie spirituali, e il distacco da quelle sante religiose, a Dio solo è noto!
le religiose ne provarono un dispiacere grandissimo, mentre speravano che in
breve sarebbe stata loro monaca.
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