Messo che ebbe il piede Elisabetta nella casa
paterna è impossibile dire la consolazione che ne provò la genitrice, ma quello
che intorbidò la gioia fu il vederla così consunta e scolorita, che principiò a
dire: Queste monache mi hanno cambiato la
figlia mia, e non è la mia Elisabetta, andava così fra sé discorrendo. Per
farne la prova, la sera le comandò che andasse in una camera a prendere un non
so che in un tiratore, pensando che se fosse stata un’altra ragazza non ci
avrebbe indovinato; ma ella puntualmente eseguì il comando e così restò
persuasa che era la sua vera figlia e non era cambiata.
Attese la madre a farla ristabilire, ma il più che
le giovò fu l’aria nativa e il divario, togliendole quelle applicazioni di
continue orazioni e mortificazioni che praticava nel monastero, venendole
impedite dall’andamento di famiglia, e così si ristabilì benissimo in salute.
Lo spirito a poco a poco venne rattiepidito,
terminò il fervore e non pensò più alla vocazione. Si dette un poco al bel
tempo, ma non in cose scandalose, né in grandi conversazioni, perché in
famiglia non c’era questo costume di stare immersi nel gran mondo, essendo
persone morigerate e cristiane. Siccome il Signore voleva Elisabetta per sé,
benché fosse alquanto divagata dalle sciocchezze vane, le mandava molto da
soffrire per parte della sorella maggiore, la quale voleva dominare e tenere
ben sottomesse le due sorelle minori; oltre a questo, il vedere i fratelli che
volevano grandeggiare e abusavano della troppa bontà di ambedue i genitori e
fra le tante disgrazie accadute in famiglia, si trovavano prive di quei comodi
in cui erano nate. Ma essendo Elisabetta giovanetta fornita di bellezza e
grazia, aveva dei pretendenti ed ella aderiva di collocarsi in matrimonio con
alcuno di loro dimentica affatto del voto e della vocazione che Iddio le aveva
dato.
I pensieri del mondo l’occupavano troppo, rinunziò
a qualche partito, con il suo spirito vivace e alto, non parendole che questo
avesse molte facoltà per grandeggiare a suo modo e in questa guisa, ne rifiutò
più di uno. Benché in famiglia doveva fare sagrifici e privazioni, trovandosi
ristretti nel vitto e nel vestito secondo il loro grado per le cause già dette,
per simili circostanze vedendosi così neglette e avvilite per togliersi da
tanti dispiaceri, diceva la povera Elisabetta: Sarei contenta di entrare in un monastero anche a servire per non
trovarmi in casa con i fratelli, che
non pensano che a loro, e non vedere i genitori tribolati da tanti travagli, incapaci di ritirare le
redini rubate.
La sorella minore Benedetta, sentendo Elisabetta
risoluta di fare qualche passo, fra loro fecero qualche risoluzione, ma il
Signore che già le aveva destinate, una per lo stato del matrimonio, e l’altra
per monaca, permise che un prelato che aveva relazione in famiglia e amicizia
nel monastero di San Filippo Neri, incaricato dalle monache che le avesse
provvedute di qualche brava giovane, facesse la proposta alle due giovanette,
se volevano monacarsi. Benedetta pronta si esibì di accettare la richiesta e di
entrare volentieri per monaca nel suddetto monastero, come eseguì, benché non
aveva che sedici anni non compìti. Si vestì e professò con tanto spirito e
virtù nell’accennato Istituto, da ognuno conosciuto nei nostri tempi. Si è
diportata con uno zelo mirabile; le fu imposto il nome da monaca: Maria
Serafina dello Spirito Santo, lasciando il nome del secolo di Benedetta Canori.
Professò il 24 giugno 1795; visse con molta osservanza e fervore, esercitandosi
negli uffici che le vennero assegnati dall’obbedienza.
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