Correva l’anno 1796, il giorno 10 di gennaio seguì
il matrimonio di Elisabetta con Cristoforo essendo in età di circa 23 anni ed
Elisabetta in 21. Si celebrò questo matrimonio con molta pompa e contento
universale; nei primi giorni si vedeva la novella sposa molto accarezzata e con
straordinaria attenzione servita. Avendo il consorte il suo legno28, la
faceva sollevare e il tutto andava con molta pace e tranquillità. Ma non andò
molto a lungo che il consorte fu sorpreso da gelosia così molesta e indiscreta
che non le permetteva di trattare alcuno. Arrivò a segno tale che le tolse la
consolazione di vedere e trattare i propri genitori. Ognuno può immaginare
quale dolore recasse una simile privazione tanto per la povera Elisabetta,
quanto per i buoni genitori, di maniera che presero l’espediente di passare per
la strada se riusciva loro di vederla un momento alla finestra. A tutto questo
si aggiunse che non voleva si prestasse nelle faccende domestiche e nemmeno si
occupasse di lavorare. Quando tornava in casa le guardava le mani e se trovava
qualche pelletta alzata, come accade nel lavorare, erano stravagantissime
inquietezze. Ella per non stare oziosa, trovò il modo di lavorare con due
ditali quando egli era fuori di casa e così, immersa in simili travagli, passò
dieci mesi in questo penoso conflitto.
Ecco come ella stessa riferisce.
La
divina provvidenza per liberarmi da molti pericoli peccaminosi, in cui
sicuramente sarei incorsa, si servì di un mezzo molto efficace, e questo fu la
gelosia del mio consorte, pena per me molto sensibile. In questo stato
ricorrevo al mio Dio con lagrime e con orazioni, ma buon per me che il mio
Signore mi teneva lontana affatto da ogni peccato. Ero incinta della prima
figlia, già erano scorsi sette mesi di questa, quando la giustizia di Dio,
giustamente irritata contro di me, voleva punire la mia audacia con tremendo
castigo del suo giusto furore; s’interpose la misericordia infinita del mio Dio
e, per mezzo di Gesù Crocifisso, mi liberò da mortale colpo.
Crocifisso
mio Gesù, amor mio, già sarei piombata nell’inferno, se voi prodigiosamente non
mi aveste liberato. Quali e quante sono le obbligazioni che vi professo, amor
mio, vi rendo infiniti ringraziamenti.
Ecco
il fatto come fu. Al mio consorte gli fu regalata una pistola, una mattina si levò
di buon’ora, prese quest’arma. Io non mi ero levata dal letto, lo pregai a
volere scaricare quell’arma, mentre per essere inesperto, credevo potesse
piuttosto offenderlo che difenderlo. Il suddetto per compiacermi, alla
mia presenza scaricò quest’arma; dopo averla scaricata, per dimostrarmi la sua esperienza mirò l’arma
verso di me. Ecco si sente una voce che lo sgrida e gli comanda di mirare
altrove il colpo. Obbedì, contro sua voglia, mentre eravamo entrambi certi che
l’arma fosse scarica; ma cosa tremenda e insieme prodigiosa: l’arma era ancora
carica di altra palla, capace di levarmi la vita. Colpì il mortale colpo
l’immagine di un santissimo Crocifisso29, che stava poco distante dal mio capo; il cristallo del piccolo quadro
si fece in minutissimi pezzi, il muro restò bucato e il santissimo Crocifisso
restò illeso.
Fu
tale e tanto lo strepito del colpo, che parve una cannonata; come restammo
storditi e spaventati non è possibile ridirlo. La puzza, il fumo che tramandò
questo colpo non pareva naturale. Accorsero spaventi i pigionanti, credendo che
fosse rovinata la casa.
Eppure,
- chi lo crederebbe? - non fu questo sufficiente a ricordare alla mia mente
l’enorme delitto che avevo commesso.
Mio
Dio, quale pazienza avete esercitato verso di me! Siate benedetto in eterno.
Mi è piaciuto mettere le sue proprie espressioni
di vera e sincera umiltà; che delitto può chiamarsi, essere passata allo stato
matrimoniale? Se aveva fatto il voto di castità, lo fece all’età di dodici
anni, età tanto tenera, che pare non possa essere valutato. Da quando tornò
alla casa paterna fino al 1805 non ricordò mai il voto fatto; ma quando lo
rammentò, allora sì che se ne chiama in colpa, come avesse commesso i maggiori
eccessi.
Compìto il nono mese, dette alla luce una bambina.
Dopo il battesimo si avvidero che non poteva vivere perché non poteva
inghiottire. La fecero cresimare e dopo due giorni se ne volò in paradiso. Con
questa occasione restò mitigata la gelosia del consorte e i genitori potevano
avere qualche accesso. Potevano farle qualche visita anche i fratelli e la
sorella maggiore; i suoceri non solo la visitavano in questa occasione, ma bene
spesso vi andavano per esibirle quanto poteva bisognarle, dimostrandole la loro
stima e amore più che fosse una figlia. Nello stesso modo ricevevano le sue
visite quando vi andava. Le due sorelle minori del consorte, principiarono a
gustare la compagnia di Elisabetta e vollero bene spesso trattenersi con ella.
I genitori volentieri vi acconsentivano, essendo certi che potevano acquistare
e non perdere conoscendo bene le virtù della nuora; ma per Elisabetta non era
piccolo pensiero il dovere guidare le due giovanette cognate. Il più che le
recava travaglio era il vedere il consorte cambiato; aveva mutata idea in modo
straordinario, avendo principiato a trattare, non saprei come, una persona di
bassa condizione. La buona consorte con dolci maniere e specialmente con la sua
rara prudenza, procurava di legarlo ed egli dissimulava i suoi inviluppi.
Mentre le cose passavano così, l’anno seguente dette alla luce un’altra bambina
che incorse la stessa sorte della prima, dopo il battesimo. Si avvidero che
anche questa non poteva inghiottire; la fecero cresimare e se ne volò in
paradiso. La buona Elisabetta si rassegnò alle disposizioni del Signore, ma le
afflizioni crescevano sempre più per parte del consorte. I vari divertimenti
che prendeva, le riuscivano bene amari, ma si prestava di andarvi tanto per
compiacere e obbedire il consorte, quanto per condurre le due cognate che erano
presso di lei, e bene spesso ci si univano le altre due cognate che stavano con
i genitori. Molte volte tutte e quattro volevano stare con Elisabetta; i
suoceri si mostravano soddisfattissimi della sua condotta, ma intanto il
consorte sempre più imperversava in quella rea amicizia, molto bene di
nascosto, acciò nessuno potesse avvedersene. Cominciarono gli spunti negli
interessi, la madre del medesimo, siccome l’amava fuori di modo, come figlio
unico, suppliva a tutto; le facoltà non mancavano e riversava quanto le
domandava il figlio che ingrandiva le spese. La buona genitrice credeva a tutto
quello che gli dava da intendere, senza domandargli il rendiconto, perché
allora si sarebbe avveduta delle spese duplicate. Invece di una famiglia, c’era
una lupa divoratrice che assorbiva più che fossero due famiglie, oltre il tempo
che gli faceva perdere questa fiera mostruosa, ché trasandava lo studio di
avvocato essendo quella la professione che voleva esercitare; benché così poco
ci si occupasse egli riuscì benissimo nella professione. I giudici quando
avevano le sue scritture, restavano sorpresi in modo che, dicevano: Non ci si può rispondere come questo giovane espone le ragioni convincenti dei suoi
clienti, perché in realtà era dotato di un ingegno sopraffino. Aveva fatto
tutto il corso degli studi, conosceva più lingue e la musica a perfezione; per
i suoi rari talenti, sarebbe riuscito a tutto, ma si fece sopraffare da colei.
Con quel falso amore lo condusse a molti precipizi come si vedrà in seguito.
Per fare che la madre cavasse i denari, mise in capo a inesperto giovane che
imprendesse qualche negozio di campagna. Cristoforo aveva già la vigna e un
orto grande; egli ci si occupava molto, non tanto per vedere che questi terreni
gli rendessero frutto, quanto per domandare denari ai genitori. Con questo
pretesto sprecava e compiaceva l’amica. La madre di nascosto gli somministrava
di più delle somme, dando credito al figlio con tutta semplicità, e non si
avvedeva che gli recava un grande pregiudizio, disposto da Iddio per
santificare l’eroina Elisabetta, la quale distingueva bene gli andamenti del
consorte. Con molta prudenza e amorevolezza l’andava avvertendo, procurando con
le dolci attrattive, di distoglierlo dalla vita intrapresa. Ma cieco, incapace
di una tale cognizione, la rimproverava come potesse fare sinistri giudizi del
prossimo, essendo ella tanto buona, e, in mezzo a queste burrasche, si
rassegnava.
In questo tempo dette alla luce la terza figlia;
le fu imposto nel battesimo il nome di Marianna. Questa sopravvisse e poté
allevarla da per sé con molto piacere, gustando così di potere con il latte
instillare in questa fanciulla i semi di cristianità. Proseguivano intanto le
cognate a stare in compagnia di Elisabetta, ma il consorte continuava il suo
male operare e il Signore lo visitò con una forte malattia. I genitori che
tanto amavano questo figlio, gli fecero assidua assistenza, benché fosse di
molto incomodo andare più volte al giorno a visitarlo e lasciare la casa sola
in mano alla servitù. I genitori di Elisabetta si prevalsero della circostanza
di questa infermità del consorte, conoscendo quanto soffriva la figlia, benché
la medesima mai si lagnasse con loro. Era ormai troppo pubblica l’aderenza
della rea amicizia che procurarono con il pretesto di far studiare medicina ad
uno dei figli minori, ma maggiore di Elisabetta, e di metterlo in casa con la
sorella, anche per assistere all’infermità del cognato, come fecero. Tutte e
due le famiglie restarono soddisfattissime di questa risoluzione. Ma il Signore
se ne servì acciò questo fratello le fosse come scudo di difesa in tante pugne
che dovette soffrire la generosa Elisabetta. Il consorte si ristabilì dopo vari
giorni, e il suocero pensò di riunire nella propria casa il figlio con la
consorte, tanto più che le due figlie non volevano lasciare la cognata che
tanto amavano. Il suocero aveva molta casa, ma poiché la famiglia era numerosa,
prese al di sopra un piccolo appartamento, fece fare la scala interna e così
riunì tutti in casa. Elisabetta pronta ai cenni del suocero, lasciò volentieri
l’appartamento sontuoso che era nel palazzo Vespignani e si condusse nel
piccolo appartamento che non era più grande di tre o quattro camere.
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