Appena entrata nella casa dei suoceri, Elisabetta
si pose subito nelle loro mani, come fosse una minima figlia, soggetta ai loro
cenni, contenta di essere soggetta a tutti, deponendo di fare come da capo di
casa e sottomettendosi a quanto le sarebbe stato comandato. Non ci volle poca
virtù nel fare un tale atto, trattandosi che in casa vi erano i suoceri,
quattro cognate, due sorelle della suocera30, tre donne di servizio,
cocchiere, servitore e qualcun altro. Ognuno può conoscere quanta prudenza e
virtù si richiedeva, tanto più a causa del consorte così deviato e poco
amorevole verso di lei che sempre più palesava la sua cattiva condotta.
Le persone calunniatrici non mancavano di
esagerare che questo accadeva per motivo che Elisabetta era troppo ritirata
dalle conversazioni e dai passatempi, benché non fu mai negativa quando il
consorte voleva condurla al teatro e anche a qualche altro divertimento, per
obbedienza e per compiacere le cognate, alle quali i genitori non permettevano
di andare senza Elisabetta; in questo modo la nostra eroina si esercitava.
In questo tempo di continui sagrifici, ebbe due
sollievi: il primo fu che i suoceri ricevettero in famiglia il
fratello31 di Elisabetta come un figlio, e, perché riuscisse bene negli
studi di medicina, il suocero lo volle sempre presso di sé; gli assegnò una
camera e lo riguardò fino alla morte come un carissimo figlio; il secondo
sollievo fu che trovandosi come figlia di famiglia sbrigata da pensieri, se ne
stava nel suo appartamentino il più che poteva, gustando della quiete di quelle
poche ore che poteva stare sola, attendendo a bene allevare ed istruire la sua
piccola figlia Marianna, la quale, benché tenera, apprendeva le sue sante
istruzioni. Non per questo tralasciava i lavori che le venivano assegnati,
attendendo ancora alle faccende domestiche e alla puntuale servitù del
consorte, esercitandosi anche nelle orazioni, come mezzo speciale per ottenere
la forza di reggere a tanti travagli che ogni giorno più si aumentavano,
vedendo il consorte che spregava tanti denari e sempre più si rendeva sordo
alle sue insinuanti esortazioni.
Le maldicenze verso di lei accrescevano sempre
più; si trovava in uno stretto di pene, ma sempre rassegnata e con l’animo
tranquillo, prendendo tutto dalla divina disposizione. In
questo stato di cose, nelle quali si trovava
Elisabetta, nel giorno 5 luglio 1801, dette alla luce la quarta figlia,
l’ultima perché non ebbe altri figli.
Non si può spiegare la consolazione dei suoceri
per la nascita di questa creatura, nata nella propria casa; fecero in modo che
fosse sontuoso il battesimo, il suocero volle che le si imponesse il nome della
prima Santa che fosse segnata nel diario romano. Nel dì 7 correva la festa di
Santa Lucina, matrona romana, disse: Questo sia il nome che voglio le si
imponga, come fu fatto, chiamandola con il nome di Maria Lucina32.
Dopo aver data alla luce quest’ultima figlia,
passarono cinquanta giorni in ottima salute, ma poi la buona Elisabetta fu
sorpresa da un male fierissimo di stomaco. Tanto eccessivo era il dolore, che i
medici lo giudicarono un male peggiore che possa trovarsi in questo genere, di
difficile guarigione; si trovò così impotente di più allevare.
Il suocero voleva prendere una nutrice in casa, ma
lei stessa lo pregò di mandare la figlia fuori, perché da sé non poteva
vigilarla, a motivo del grande male, e non voleva accrescere in famiglia
maggior peso e aggravio. Fece questo passo di privarsi della figlia, con molta
pena, ma per prudenza e quiete, sagrificò l’amor materno. Fu consegnata questa
fanciulla ad una nutrice in trastevere; non mancava il buon nonno di visitare
spesso questa creatura e, senza risparmio, le somministrava qualunque cosa
acciò niente le potesse mancare. Non posso fare a meno di trascrivere le sue
parole in breve, riserbandomi in fine di narrare i favori che le compartì il
Signore. Ogni tanto mi sembra necessario esprimere i suoi sensi dettati dallo
spirito di vera umiltà.
Correva
l’anno 1801 di agosto, all’età di 26 anni, quando fui visitata da Dio con
un’infermità penosissima di stomaco che mi fece abbandonare le vanità del
mondo. Tanto era grande il dolore, non cercavo altro che la solitudine; nove
mesi continui sostenni il peso di questa gravissima infermità. Molto
profittevole fu per la povera anima mia; mentre nella solitudine andavo
detestando i miei peccati, chiedevo misericordia al Signore, senza ricordarmi
però di essere spergiura di un Dio di infinita maestà.
In questa infermità non le mancarono pene anche di
riflesso, ché non poteva prestarsi in famiglia, ma era di peso e di aggravio. A
questi riflessi dispiacenti si contrapponevano replicati atti di rassegnazione.
La tenera figlia Marianna la tenevano in custodia le zie, ma non poco
rincresceva ad Elisabetta di non poterla esercitare nelle istruzioni come
faceva prima che si ammalasse. I suoceri e le cognate non mancavano di
assisterla, ma in particolar modo le
due che erano state tanto tempo con lei e
specialmente la penultima che chiamavasi Marianna, l’assisteva come fosse stata
una sorella.
In questo tempo, benché così addolorata, non
lasciava di fare ricerche della sua ultima figlia, per sapere se stava bene, ma
sentendo che aveva un poco di sfogo, mandò il fratello Francesco che conviveva
in famiglia, come si è detto, acciò la ragguagliasse con sincerità. Questi
chiaramente le disse: Sta bene, ma la
tengono in tanto sudiciume che è quello e non altro il motivo dello sfogo. A questa relazione, pregò il suocero di trovare
un’altra nutrice, che potesse meglio custodirla, come fece.
Un giorno che le pareva di potersi un poco reggere
in piedi, fece attaccare verso sera il legno del consorte, e con il suddetto
fratello si fece condurre dove stava la figlia. Appena entrata, le dissero che
riposava di già. La trovò nella culla, con molta sorpresa la vide vestita e
anche con le scarpe ai piedi. Alzò un poco il materasso della culla e vide un
bulicame di vermi. A tale vista ognuno può immaginare la pena che ne sentisse,
si prese fra le braccia la figlia, benché i bali strepitavano.
Il fratello fece montare nel legno la sorella con
la figlia e tornò di sopra a persuadere questi facendo loro conoscere che
queste erano le disposizioni del dottor Mora, e non dubitassero che egli
avrebbe pensato a compensarli bene. Così la povera Elisabetta, più morta che
viva, condusse la figlia ad altra nutrice e se ne tornò a casa. A questo male
di stomaco, le sopraggiunse un’altra malattia mortale, che la ridusse agli
estremi della vita.
Ecco le sue parole.
Fu
questo l’ultimo colpo di grazia, che mi destò dal letargo mortale in cui
giaceva la povera anima mia.
Fui
dunque sorpresa da febbre putrida maligna con altri mali complicati. Diciannove
giorni stetti priva di ogni umano pensiero, ma il pensiero dell’eternità, in
cui sicuramente credevo di dover passare, teneva tutte impiegate le potenze
della povera anima mia. Non cercavo rimedio al mio male, né di sostentare le
mie deboli forze, ma solo rivolto il mio cuore al Signore, gli domandavo
misericordia e perdono. Prevenuta dalla grazia, eccessivo era il dolore dei
miei peccati, le mie speranze erano nei meriti del mio Gesù Crocifisso, che
tenevo sempre stretto nelle mie mani; con questo sfogavo gli affetti del mio
cuore, a questo offrivo tutta me stessa, tutta a lui mi consagravo in vita e in
morte.
In
questo tempo non parlavo di altro che di Dio, non altro cercavo che il mio
Gesù, altro non gradivo che il mio confessore33,
con lui mi trattenevo con piacere a parlare delle cose appartenenti alla povera
anima mia. Fui assistita da questo ministro del Signore con somma
carità
e premura, mi visitava per ben quattro volte al giorno, e pregava i miei
parenti che tutte le volte che l’avessi richiesto, sebbene l’ora fosse
incompatibile, l’avessero mandato a chiamare liberamente, mentre teneva per
bene impiegato qualunque incomodo per avere il piacere di assistermi.
Ogni
giorno si faceva più grave il mio male. Spedita dai medici, fui munita del
sagro viatico, che ricevetti con sommo amore, sperando per mezzo di Gesù Sacramentato
il perdono dei miei peccati. Domandavo al mio confessore se credeva che mi
potessi salvare. Andavo spesso ripetendo: «Padre, mi salverò?».
Questo mi rispondeva che nei meriti di Gesù Cristo teneva per certa la mia
eterna salute. La tranquillità di spirito, i buoni desideri che mi venivano
somministrati dalla grazia di Dio, l’essere affatto libera da tentazioni:
credeva un segno certo della mia predestinazione.
Come
a Iddio piacque, incominciò a cedere il male, ma la gravezza di questo mi portò
cinque mesi di convalescenza. Il 21 aprile 1802 fui assalita da questa
infermità, nel mese di agosto incominciai a sortire di casa, sebbene non ero
ancora ristabilita. In questo tempo il mio confessore mi visitava di frequente
e mi faceva considerare che la vita miracolosa che il Signore mi aveva
restituito non doveva essere più mia, ma tutta sua, ad altro non avessi pensato
che piacere a lui.
Le
parole di questo ministro del Signore penetravano altamente il mio cuore, mi
offrii tutta al mio Signore e al suo divino servizio. Incominciai a frequentare
i sagramenti di confessione e comunione ogni otto giorni. Nacque in me un
desiderio grande di ricevere più spesso questo Divino Sacramento, ma non ardivo
dirlo al mio confessore; mi raccomandavo caldamente al Signore e alla Vergine
Santissima, che si fossero degnati di dargli forte ispirazione.
Vado
dunque una mattina a confessarmi e il confessore mi dice: «Una particolare ispirazione mi obbliga
a darvi la Santa Comunione tre volte alla settimana». Di questa grazia ringraziai affettuosamente Gesù e Maria. Qual
profitto mi apportò la frequenza della Santa Comunione! Non posso esprimere i
buoni effetti che produceva in me questo Divino Sacramento.
Tali erano le disposizioni dell’animo di
Elisabetta; il Signore per sua bontà voleva comunicarle grandi favori, per
questo la volle esercitata con molte ed eroiche virtù.
Non era poca sofferenza il vedersi del tutto
abbandonata dal consorte, non attendendo che ad impiegare tempo e denari con
quella cattiva amicizia, profittando più che mai della lunga e penosa infermità
di Elisabetta.
Ormai si era resa ben nota la di lui pessima
condotta ed ella si rassegnava alle disposizioni divine lasciando il tutto
nelle mani di Dio. Nel cominciare a ristabilirsi alquanto dalla forte malattia,
le sue premure furono per la figlia, di vedere come stava, benché nel tempo
dell’infermità l’aveva raccomandata alla sua propria madre, che la vedesse
spesso e facesse le sue veci, tanto più che la nutrice abitava vicino. Ma non
si era avveduta dell’inganno della balia, la quale diceva che la creatura aveva
un male interno e non poteva prendere il latte, per questo stava così
consumata. Appena Elisabetta poté sortire di casa, benché sopra le forze, andò
a far visita ai suoi genitori. Nel tempo del suo trattenimento con i suddetti,
mandò a chiamare la nutrice che le conducesse la sua figlia. Appena la vide
credette di venir meno per la pena, era così dimagrita che non aveva altro che
pelle, ossa e un lagno di moribonda, sembrava che volesse morire.
Troppo si sforzò la nutrice per farle distinguere
che non voleva il latte, mentre le fece vedere come si staccava dalla poppa
nauseata; ma l’amore materno è più astuto degli altri, disse a sua madre: Mi dia un uovo fresco, e con le sue mani
Elisabetta lo dette alla figlia, la quale dopo aver ricevuto quel nutrimento,
si tranquillizzò al momento, così si avvide che era inedia e non altro male.
Tornata in casa pregò il suocero di farle
ritornare in casa la figlia ché, benché convalescente, poteva custodirla, tanto
non si nutriva di latte, ed altro la nutrice non le dava da mangiare, mentre
pativa fino alla necessità.
Il suocero persuaso, il giorno dopo fece subito
venire la nutrice con la fanciulla; restituì la figlia alla nuora e soddisfece
questa donna, quantunque le avesse strapazzato la nipote tanto amata.
Elisabetta attese subito con molta regola di
alimentare questa creatura che pareva non si saziasse mai tanta era stata
l’inedia sofferta. Non le mancavano buoni brodi e altre delicate vivande. Tanta
era l’ansietà, che mai si saziava; arrivò perfino a mangiarsi nella culla le
pupazze di cartone che si danno alle creature per trastullo.
Per più di quaranta giorni non la fece sortire dal
suo appartamento, per timore che le pregiudicasse il mandarla fuori, temendo
che le dessero dolci o frutta fuori stagione, ed infatti, con la cura materna
si ristabilì in perfettissima salute, senza alcuna imperfezione fisica. Appena
rinvigorita, la buona madre si applicò di insinuarle i primi erudimenti di
pietà, come faceva con la figlia maggiore Marianna; le insegnava a leggere, ci
si occupava di maniera che in breve leggevano speditamente. La minore di tre
anni leggeva senza sbagliare una sillaba. Benché di così tenera età, insegnò
loro a memoria molti inni latini, vari dialoghi di bambino, la storia sagra in
breve, del Vecchio e Nuovo Testamento e molte altre cose che nel sentirle
recitare tutti restavano ammirati, come potesse insinuare tante preci a
memoria.
Ancorché fossero di sì poca età, leggeva loro la
meditazione o dei nuovissimi, oppure della passione di Gesù Cristo. Alla buona
Elisabetta era di consolazione il vedere che si applicavano e si internavano in
quei sentimenti. Insegnava la mortificazione dei sensi e assegnava di
praticarli almeno sette volte ogni giorno; sarebbe: tre di curiosità, due di
silenzio, non parlando per qualche ora se non fossero interrogate e due di
gola, astenendosi dal mangiare qualche dolce, lasciando nelle loro mani quei
regaletti del nonno acciò questi atti di mortificazione li praticassero
spontaneamente e non per forza. La sera poi ne domandava conto, facendo
intendere che con queste piccole mortificazioni si rende l’anima grata a Iddio
e si fanno molti meriti per l’altra vita con tanta poca fatica.
Ognuno può conoscere da tutto questo, quanto si
applicava per sé per esercitarsi nella più perfetta mortificazione. Mi piace
qui riferire le sue parole.
Mi
distaccai dalla vanità del mondo, vinsi molti ostacoli che mi impedivano di
andare a Dio, particolarmente i vani giudizi degli uomini. Questo apportò molto
fastidio ai miei parenti: il vedermi affatto allontanata dai divertimenti del
mondo, abbandonare gli adornamenti donneschi, contenta di vestire un abito
triviale senza alcun adornamento. Fiera fu la guerra che mi mosse il demonio,
non solo da parte dei parenti e persone secolari, ma
eziandio da persone di buona vita, mentre questi criticavano e biasimavano la
mia condotta e con consigli mi volevano persuadere che non era conveniente che
una giovane di 25 in 26 anni, come ero io, si fosse allontanata dal mondo; che
si poteva benissimo accordare il divertirsi lecitamente, senza trasgredire la
legge di Dio, mentre la prudenza portava che non avessi disgustato i parenti,
giacché questi si erano offesi del mio operare.
Questi
consigli maligni mi avrebbero sicuramente vinta, se la pietosa Madre sempre
vergine con grazia speciale non avesse fortificato il mio cuore.
La
mattina del 7 settembre 1803.
Non proseguo il racconto riservandomi di narrare i
favori nel fine della vita; tanti gliene compartì il Signore e in questo giorno
ricevette lo Spirito Santo in forma di colomba.
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