Il Signore con questi accennati favori andò fortificando
lo spirito della sua serva di invincibile coraggio, avendole preparato molti
travagli.
Correva l’anno 1804 quando si scoprì un fallimento
irreparabile del consorte. Era ben chiaro e noto in famiglia la causa di questo
danno, eppure, chi lo crederebbe? Il torto l’aveva il consorte e invece tutto
si riversò sopra Elisabetta, come se fosse stata lei la cagione di tutti quei
discapiti. Con umiltà e pazienza ricevette una serie di villanie e di oltraggi
perfino dalle persone di servizio; tollerò tutto per amore di Gesù Cristo.
Vedendosi dunque assediata dai creditori senza
sapere come ripiegare, all’improvviso le arrivò una forte esecuzione di tutta
la roba del suo appartamento. Ognuno può immaginare quanto le fu sensibile un
simile sfregio; oltre di più quante ne dovette sentire dalle cognate che si
trovarono affrontate di una tale svergognatura nella propria abitazione, benché
stessero divisi al secondo piano ma era l’istesso portone.
La povera Elisabetta tante volte aveva avvisato il
consorte che non si occupasse nei negozi di campagna non avendo abilità per
questi, essendo egli stato sempre occupato negli studi, ma era tanto subornato
che non le dava retta.
La madre di Cristoforo sborsava senza limite,
dando credito al figlio che avrebbe ricavato il doppio da questa negoziazione.
La causa principale era la spesa che gli portava il contentare le voglie di
quella donna, la quale le aveva rubato l’amore, ed essendo persona di basso
ceto non le importava di farlo sfigurare appresso tutti, bastandole di essere
alimentata e vestita alla grande, se poi lo sciocco Cristoforo passava per
persona di poca stima, non le importava niente.
Elisabetta per riparare dunque tutti questi debiti
dovette fare da uomo. Dismise subito il legno34, vendette quasi tutto
il mobilio dell’appartamento dove abitava, si privò di tutte le gioie che aveva
e per risparmiare fu ricevuta nella casa dei suoceri, che le assegnarono una
sola camera, mettendo scusa al buon vecchio del suocero che il figlio era
andato un poco al di sotto nei negozi, perché il resto tutto ignorava: della
cattiva condotta e degli prechi del figlio, sapendo Elisabetta che al suocero
doveva celarsi tutto.
Si mise in giro lei per quietare i creditori e
contentarli con le somme ritratte35 dalla vendita delle sue robe.
Appena sortì di casa, il suo primo pensiero fu di comprarsi un crocifisso di
ottone, per tenerlo indosso come scudo di difesa in tanti cimenti che doveva
affrontare.
Se ne andò da questi creditori con umiltà e
modestia pregandoli di contentarsi di quel poco ritratto dal suo. Benché fosse
somma vistosa, mancava troppo per pareggiare i pagamenti, ma questi, vedendola
tanto avvenente, con un portamento sottomesso e modesto, si contentarono di
quelle poche somme che poté dare, ripartite fra più creditori, perché non
bastava nemmeno per metà; restarono appagati e soddisfatti e le fecero la
ricevuta di saldo, dicendole che per amor suo si contentavano e le condonavano
il di più che ascendeva a migliaia. Il Signore le rimunerò quella parte così
umiliante che dovette fare, unendo il suo patire alla comparsa che fece Gesù
Cristo ai tribunali.
Diceva lei stessa: Se non avessi meditato di fare in questo modo, questa triste figura per
amore del Signore non mi poteva riuscire.
Contenta della buona disposizione dei suddetti
creditori, li ringraziò di cuore di tanta agevolezza e carità. Ma per uno di
questi creditori non terminarono i suoi travagli, perché la mandava più a lungo
con il pretesto della revisione dei conti che a bello studio prolungava, per
avere il piacere di vederla più volte. Se ne espresse con tutta chiarezza che
non solo le voleva condonare il debito del consorte, ma le esibì tutti i suoi
averi, bastandogli che le desse il suo amore, facendole mille espressioni di
compassione per avere incontrato un consorte così scioperato, ebbene egli
poteva sostituirlo in suo luogo nell’amore e simili espressioni.
La buona Elisabetta si conturbò tutta e gli parlò
con coraggio che le disbrigasse l’affare e non altro e che, facendo professione
di cristiani, non si potevano ammettere queste bassezze umane. Così si disbrigò
restando quegli mortificato e compunto di tanta magnanimità e santità di
costumi. La compiacque nel dare termine agli affari condonandole molta parte
del suo credito, con una ricevuta a saldo. Per questa parte restò tranquilla,
ma non finirono qui i suoi travagli. Dovette soffrire la perdita delle due
cognate di minore età, le quali erano le più amorevoli e compassionevoli verso
di lei. Le volevano stare sempre dappresso e la compativano; più che potevano
la sostenevano nelle forti persecuzioni e maldicenze, ma al Signore piacque
richiamarle all’altra vita. Una dopo l’altra, non saprei precisare l’anno né il
mese, ma è vero che fu uno dei maggiori travagli di Elisabetta per renderla priva
di ogni conforto umano.
Descrivo la nuova e penosa situazione di
Elisabetta.
Appena restò priva dell’appartamento, come si
disse, le fu assegnata una camera grande, che era di passo, per avere tre
porte: una conduceva alle camere delle cognate; un’altra alla camera dove vi
era la porta per sortire; la terza conduceva con sette gradini ad un altro
appartamentino riunito al piano stesso dove erano le camere delle sorelle della
suocera, la camera di suo fratello Francesco e un’altra grande dove era la libreria
del suocero.
Ognuno può immaginare che passaggio continuo si
facesse nella sua camera! eppure la paziente Elisabetta non si lagnò di questa
angusta situazione.
In questa camera oltre il letto grande, il comò e
il resto del mobilio, ogni sera doveva formare due lettini per le figlie. Al
principio la piccola la fece continuare a stare nella culla avendola fatta
ingrandire con due regoli dal di piedi; per la più grande fece fare un canapè
bassino per poterlo situare la mattina sotto il suo letto.
Esercitò questo laborioso e faticoso travaglio
ogni mattina, trasportando questi due lettini in un piccolo passetto acciò il
giorno non si vedessero; la sera li rimetteva e li rifaceva perché potessero in
questo modo dormire le due figlie, una separata dall’altra. Continuò questa
servitù fino all’anno 1811. Con il crescere l’età delle figlie, dovette
ingrandire i letti e crebbe la fatica, ma la faccenda fu sempre tutta sua.
Chi potrà mai dire la pena che provava per le
figlie in questa camera di passo!
Per i riguardi che si dovevano usare a due
fanciulle, aveva assegnato una finestra per una e le faceva spogliare e vestire
sotto la tendina; in questo voleva essere sempre presente, perché in quel tempo
non passasse alcuno. Per dimostrare quanto patì anche per riguardo delle
figlie, riferirò le sue parole.
Molto
dovetti soffrire per queste, mentre una delle due cognate che erano restate,
aveva preso tanto sopravvento sopra le mie figlie, che io non avevo più
padronanza alcuna. Per mantenere la pace e per la necessità che avevo di essere
mantenuta dal suocero, giacché il consorte non pensava più né a me né alle
figlie, mi conveniva soffrire di vedere strapazzate le figlie, non solo con
parole, ma alle volte con percosse irragionevoli. Sentivo al vivo la pena, ma
tutto mi pareva poco in paragone di quello che meritavano i miei peccati, tutto
offrivo in sconto di questi. Permise ancora il Signore che questa buona cognata
mi perseguitasse in varie maniere.
L’altra
cagione del mio patire fu per vedermi priva di un luogo libero per potermi
trattenere in orazioni. In questa angusta situazione
domandai in grazia alla mia suocera di potermi ritirare per fare le orazioni in
un piccolo ripiano di scala, che conduceva al pianterreno e alle cantine; era
luogo interno che non aveva comunicazione per essere il portone
dell’appartamentino riunito chiuso.
Scelsi
questo angolo perché era segregato dall’appartamento grande, per avere libertà
di potermi trattenere con il mio Dio, senza che alcuno si fosse avveduto di
quanto seguiva, mentre il più delle volte ero sorpresa dallo Spirito del
Signore, che violentemente mi rapiva, e non era in mio potere resistere alla
sua forza, sicché ora mi tratteneva distesa sul suolo, ora dalla violenza il
mio corpo balzava senza ritegno, ora mi trovavo con le mani distese al cielo. E
il mio corpo lo sentivo leggero al pari di una paglia, mi scuotevo come
intimorita, alle volte la forza dello spirito faceva prova di tirarsi dietro
anche il corpo; quando mi avvedevo di questo cagionava in me sommo timore.
Per
pura misericordia di Dio godevo molta libertà, mentre quando avevo mandato alla
scuola le piccole figlie, dopo varie orazioni, che quotidianamente le facevo
recitare, e dopo averle istruite nella dottrina cristiana, con altre istruzioni
adatte all’età, restavo in santa libertà.
Per
lo spazio di circa sette anni spendevo sei ore in orazioni, e queste divise in
quattro tempi: la mattina subito levata mi ritiravo al mio caposcala, mi
trattenevo in orazione un’ora circa; dopo mandavo a scuola le ragazze e poi mi
portavo alla Chiesa, mi trattenevo un’ora e mezza o due; il giorno dopo il pranzo altre due
ore; la sera, dopo che avevo custodito le figlie, tornavo all’orazione e mi
trattenevo altre due ore.
Sicché
sei ore o sette ore mi trattenevo in orazione, senza mai tediarmi, ma sempre
più avida di più orare.
Non
avevo altra azienda in casa che di cantiniera e gallinara; ero molto attenta al
mio dovere, del resto andavo a tavola apparecchiata, come suol dirsi, senza
alcun pensiero.
Non
andò molto in lungo che una zia, sorella della mia suocera, che doveva
attraversare la mia camera, si avvedesse che io mi levavo prima di lei, mentre
ella era molto sollecita a levarsi. Questa cosa molto mi dispiacque, mi
lamentai con il Signore nelle mie povere orazioni.
Il
Signore mi fece intendere che due erano le ragioni per cui aveva permesso che mi
venisse destinata quella pubblica
camera: primo per esercizio di pazienza, secondo per dare buon esempio a questa
famiglia.
|