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Suor Maria Giuseppa Mora della SS. Trinità, figlia della Beata Elisabetta Canori Mora
Vita della Beata Elisabetta Canori Mora

IntraText CT - Lettura del testo

  • INTORNO ALLA VITA DELLA SERVA DI DIO ELISABETTA CANORI MORA MORTA IN ROMA IL DÌ 5 FEBBRAIO 1825 – BREVI CENNI SCRITTI DALLA FIGLIA MEDESIMA, MARIA LUCINA MORA, OSSIA MARIA GIUSEPPA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ, MONACA FILIPPINA
    • LIBRO PRIMO
        • 7 - Varie afflizioni, persecuzioni e angustie che dovette soffrire la forte eroina Elisabetta
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7 - Varie afflizioni, persecuzioni e angustie che dovette soffrire la forte eroina Elisabetta

 

Il Signore con questi accennati favori andò fortificando lo spirito della sua serva di invincibile coraggio, avendole preparato molti travagli.

Correva l’anno 1804 quando si scoprì un fallimento irreparabile del consorte. Era ben chiaro e noto in famiglia la causa di questo danno, eppure, chi lo crederebbe? Il torto l’aveva il consorte e invece tutto si riversò sopra Elisabetta, come se fosse stata lei la cagione di tutti quei discapiti. Con umiltà e pazienza ricevette una serie di villanie e di oltraggi perfino dalle persone di servizio; tollerò tutto per amore di Gesù Cristo.

Vedendosi dunque assediata dai creditori senza sapere come ripiegare, all’improvviso le arrivò una forte esecuzione di tutta la roba del suo appartamento. Ognuno può immaginare quanto le fu sensibile un simile sfregio; oltre di più quante ne dovette sentire dalle cognate che si trovarono affrontate di una tale svergognatura nella propria abitazione, benché stessero divisi al secondo piano ma era l’istesso portone.

La povera Elisabetta tante volte aveva avvisato il consorte che non si occupasse nei negozi di campagna non avendo abilità per questi, essendo egli stato sempre occupato negli studi, ma era tanto subornato che non le dava retta.

La madre di Cristoforo sborsava senza limite, dando credito al figlio che avrebbe ricavato il doppio da questa negoziazione. La causa principale era la spesa che gli portava il contentare le voglie di quella donna, la quale le aveva rubato l’amore, ed essendo persona di basso ceto non le importava di farlo sfigurare appresso tutti, bastandole di essere alimentata e vestita alla grande, se poi lo sciocco Cristoforo passava per persona di poca stima, non le importava niente.

Elisabetta per riparare dunque tutti questi debiti dovette fare da uomo. Dismise subito il legno34, vendette quasi tutto il mobilio dell’appartamento dove abitava, si privò di tutte le gioie che aveva e per risparmiare fu ricevuta nella casa dei suoceri, che le assegnarono una sola camera, mettendo scusa al buon vecchio del suocero che il figlio era andato un poco al di sotto nei negozi, perché il resto tutto ignorava: della cattiva condotta e degli prechi del figlio, sapendo Elisabetta che al suocero doveva celarsi tutto.

Si mise in giro lei per quietare i creditori e contentarli con le somme ritratte35 dalla vendita delle sue robe. Appena sortì di casa, il suo primo pensiero fu di comprarsi un crocifisso di ottone, per tenerlo indosso come scudo di difesa in tanti cimenti che doveva affrontare.

Se ne andò da questi creditori con umiltà e modestia pregandoli di contentarsi di quel poco ritratto dal suo. Benché fosse somma vistosa, mancava troppo per pareggiare i pagamenti, ma questi, vedendola tanto avvenente, con un portamento sottomesso e modesto, si contentarono di quelle poche somme che poté dare, ripartite fra più creditori, perché non bastava nemmeno per metà; restarono appagati e soddisfatti e le fecero la ricevuta di saldo, dicendole che per amor suo si contentavano e le condonavano il di più che ascendeva a migliaia. Il Signore le rimunerò quella parte così umiliante che dovette fare, unendo il suo patire alla comparsa che fece Gesù Cristo ai tribunali.

Diceva lei stessa: Se non avessi meditato di fare in questo modo, questa triste figura per amore del Signore non mi poteva riuscire.

Contenta della buona disposizione dei suddetti creditori, li ringraziò di cuore di tanta agevolezza e carità. Ma per uno di questi creditori non terminarono i suoi travagli, perché la mandava più a lungo con il pretesto della revisione dei conti che a bello studio prolungava, per avere il piacere di vederla più volte. Se ne espresse con tutta chiarezza che non solo le voleva condonare il debito del consorte, ma le esibì tutti i suoi averi, bastandogli che le desse il suo amore, facendole mille espressioni di compassione per avere incontrato un consorte così scioperato, ebbene egli poteva sostituirlo in suo luogo nell’amore e simili espressioni.

La buona Elisabetta si conturbò tutta e gli parlò con coraggio che le disbrigasse l’affare e non altro e che, facendo professione di cristiani, non si potevano ammettere queste bassezze umane. Così si disbrigò restando quegli mortificato e compunto di tanta magnanimità e santità di costumi. La compiacque nel dare termine agli affari condonandole molta parte del suo credito, con una ricevuta a saldo. Per questa parte restò tranquilla, ma non finirono qui i suoi travagli. Dovette soffrire la perdita delle due cognate di minore età, le quali erano le più amorevoli e compassionevoli verso di lei. Le volevano stare sempre dappresso e la compativano; più che potevano la sostenevano nelle forti persecuzioni e maldicenze, ma al Signore piacque richiamarle all’altra vita. Una dopo l’altra, non saprei precisare l’anno né il mese, ma è vero che fu uno dei maggiori travagli di Elisabetta per renderla priva di ogni conforto umano.

Descrivo la nuova e penosa situazione di Elisabetta.

Appena restò priva dell’appartamento, come si disse, le fu assegnata una camera grande, che era di passo, per avere tre porte: una conduceva alle camere delle cognate; un’altra alla camera dove vi era la porta per sortire; la terza conduceva con sette gradini ad un altro appartamentino riunito al piano stesso dove erano le camere delle sorelle della suocera, la camera di suo fratello Francesco e un’altra grande dove era la libreria del suocero.

Ognuno può immaginare che passaggio continuo si facesse nella sua camera! eppure la paziente Elisabetta non si lagnò di questa angusta situazione.

In questa camera oltre il letto grande, il comò e il resto del mobilio, ogni sera doveva formare due lettini per le figlie. Al principio la piccola la fece continuare a stare nella culla avendola fatta ingrandire con due regoli dal di piedi; per la più grande fece fare un canapè bassino per poterlo situare la mattina sotto il suo letto.

Esercitò questo laborioso e faticoso travaglio ogni mattina, trasportando questi due lettini in un piccolo passetto acciò il giorno non si vedessero; la sera li rimetteva e li rifaceva perché potessero in questo modo dormire le due figlie, una separata dall’altra. Continuò questa servitù fino all’anno 1811. Con il crescere l’età delle figlie, dovette ingrandire i letti e crebbe la fatica, ma la faccenda fu sempre tutta sua.

Chi potrà mai dire la pena che provava per le figlie in questa camera di passo!

Per i riguardi che si dovevano usare a due fanciulle, aveva assegnato una finestra per una e le faceva spogliare e vestire sotto la tendina; in questo voleva essere sempre presente, perché in quel tempo non passasse alcuno. Per dimostrare quanto patì anche per riguardo delle figlie, riferirò le sue parole.

Molto dovetti soffrire per queste, mentre una delle due cognate che erano restate, aveva preso tanto sopravvento sopra le mie figlie, che io non avevo più padronanza alcuna. Per mantenere la pace e per la necessità che avevo di essere mantenuta dal suocero, giacché il consorte non pensava più né a me né alle figlie, mi conveniva soffrire di vedere strapazzate le figlie, non solo con parole, ma alle volte con percosse irragionevoli. Sentivo al vivo la pena, ma tutto mi pareva poco in paragone di quello che meritavano i miei peccati, tutto offrivo in sconto di questi. Permise ancora il Signore che questa buona cognata mi perseguitasse in varie maniere.

L’altra cagione del mio patire fu per vedermi priva di un luogo libero per potermi trattenere in orazioni. In questa angusta situazione domandai in grazia alla mia suocera di potermi ritirare per fare le orazioni in un piccolo ripiano di scala, che conduceva al pianterreno e alle cantine; era luogo interno che non aveva comunicazione per essere il portone dell’appartamentino riunito chiuso.

Scelsi questo angolo perché era segregato dall’appartamento grande, per avere libertà di potermi trattenere con il mio Dio, senza che alcuno si fosse avveduto di quanto seguiva, mentre il più delle volte ero sorpresa dallo Spirito del Signore, che violentemente mi rapiva, e non era in mio potere resistere alla sua forza, sicché ora mi tratteneva distesa sul suolo, ora dalla violenza il mio corpo balzava senza ritegno, ora mi trovavo con le mani distese al cielo. E il mio corpo lo sentivo leggero al pari di una paglia, mi scuotevo come intimorita, alle volte la forza dello spirito faceva prova di tirarsi dietro anche il corpo; quando mi avvedevo di questo cagionava in me sommo timore.

Per pura misericordia di Dio godevo molta libertà, mentre quando avevo mandato alla scuola le piccole figlie, dopo varie orazioni, che quotidianamente le facevo recitare, e dopo averle istruite nella dottrina cristiana, con altre istruzioni adatte all’età, restavo in santa libertà.

Per lo spazio di circa sette anni spendevo sei ore in orazioni, e queste divise in quattro tempi: la mattina subito levata mi ritiravo al mio caposcala, mi trattenevo in orazione un’ora circa; dopo mandavo a scuola le ragazze e poi mi portavo alla Chiesa, mi trattenevo un’ora e mezza o due; il giorno dopo il pranzo altre due ore; la sera, dopo che avevo custodito le figlie, tornavo all’orazione e mi trattenevo altre due ore.

Sicché sei ore o sette ore mi trattenevo in orazione, senza mai tediarmi, ma sempre più avida di più orare.

Non avevo altra azienda in casa che di cantiniera e gallinara; ero molto attenta al mio dovere, del resto andavo a tavola apparecchiata, come suol dirsi, senza alcun pensiero.

Non andò molto in lungo che una zia, sorella della mia suocera, che doveva attraversare la mia camera, si avvedesse che io mi levavo prima di lei, mentre ella era molto sollecita a levarsi. Questa cosa molto mi dispiacque, mi lamentai con il Signore nelle mie povere orazioni.

Il Signore mi fece intendere che due erano le ragioni per cui aveva permesso che mi venisse destinata quella pubblica camera: primo per esercizio di pazienza, secondo per dare buon esempio a questa famiglia.


 




34 Carrozza signorile.



35 Ricavate.






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