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Suor Maria Giuseppa Mora della SS. Trinità, figlia della Beata Elisabetta Canori Mora
Vita della Beata Elisabetta Canori Mora

IntraText CT - Lettura del testo

  • INTORNO ALLA VITA DELLA SERVA DI DIO ELISABETTA CANORI MORA MORTA IN ROMA IL DÌ 5 FEBBRAIO 1825 – BREVI CENNI SCRITTI DALLA FIGLIA MEDESIMA, MARIA LUCINA MORA, OSSIA MARIA GIUSEPPA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ, MONACA FILIPPINA
    • LIBRO PRIMO
        • 8 - Disapprovazione del tenore di vita di Elisabetta - Invettiva ricevuta da persona ecclesiastica autorevole - Come viene confortata da Gesù Cristo a proseguire la carriera incominciata
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8 - Disapprovazione del tenore di vita di Elisabetta - Invettiva ricevuta da persona ecclesiastica autorevole - Come viene confortata da Gesù Cristo a proseguire la carriera incominciata

 

Le consolazioni di spirito non possono essere disgiunte dall’amarissimo calice di persecuzioni e di travagli, massime nel più sensibile animo nobile, quando viene intaccato nella propria estimazione e caricato di contumelie ed obbrobri. Così avvenne alla buona Elisabetta che menava una vita irreprensibile, umile in tutto, docile ed obbediente, senza mai lamentarsi nei ministeri più vili di gallinara e di cantiniera. Questo consisteva di provvedere ogni sera per la cucina il carbone, la legna e le fascine che ogni giorno si doveva adoprare. Il tragitto era lungo e scomodo, doveva pensare di dar da mangiare alle galline due e tre volte al giorno; per lo più scopava lei stessa il gallinaro e gli altri pianterreni. Contenta di questa occupazione, a niente si ricusava. I lavori che le venivano assegnati erano difficili e sopraffini e alle volte i più grossolani, secondo le voglie delle cognate. Non si sa come le si moltiplicasse il tempo per riunire orazioni così prolungate, i lavori tassativi, oltre il doversi impiegare nel custodire le figlie, il consorte e il tenere in sesto il vestiario e la biancheria per i suddetti, acciò niente mancasse. In tutte queste occupazioni era indefessa e puntuale, ma il tutto veniva biasimato e disapprovato con parole mordaci e rimproveri, direttamente oppure indirettamente acciò potesse sentirli con le proprie orecchie. Di queste maniere così improprie e impertinenti, non si querelava36 né si mostrava turbata, ma invece si esibiva a servire tutti, non eccettuando le donne di servizio, sempre pronta, con una mansuetudine inalterabile a prestarsi ai loro cenni. In tavola poi, vi erano i bocconi più amari, così, per modo di discorso, l’andavano rimproverando ché per sua cagione seguivano tanti sconcerti37 e spunti negli interessi e per sua colpa il consorte aveva tanto deviato e simili espressioni.

Le due figlie che sedevano in tavola una per parte alla madre, restavano comprese ed afflitte nel sentire tanti rimproveri che si facevano alla loro madre, conoscendo il torto che le facevano. Quel poco cibo era ben amareggiato, ma tacevano benché di così tenera età, avendole bene ammaestrate di tacere sempre, non convenendo alle ragazze di mettere mai bocca in qualunque discorso. Insegnò di non riportare i discorsi intesi da qualunque persona,

 

perché in quella famiglia vi erano occasioni di sentire maldicenze, essendo molti in numero e di vari sentimenti. In questo la ubbidirono puntualmente, perché è ben vero che nelle circostanze dei travagli si accelera l’uso della ragione. Questo fu il mezzo che si diportarono in modo da non dare mai motivo di dispiacere alla madre, conoscendo bene che il riferire discorsi intesi sono causa di confusioni e litigi, oltre alle sofferenze che dirle è niente, ma provare tanti travagli non è così facile da sopportare col viso lieto e con animo sereno.

 A tutto questo si aggiunse la disapprovazione e l’invettiva che le fece una persona ecclesiastica autorevole e stimata, dicendole che molto meglio sarebbe per lei e per la Gloria di Dio, se lasciasse alle religiose tanta ritiratezza e se avesse pensato a compiacere i parenti, mentre questi altro non facevano che mormorare e avesse pensato di fare la vita da secolare e non da religiosa, che al Signore non piaceva la sua condotta e pensato avesse di piacere al consorte ché il Signore richiedeva questo da lei.

Ognuno può conoscere in quale angustia e perplessità si trovò la buona Elisabetta non già perché se ne offese, ma perché restò dubbiosa del suo intrapreso tenore di vita, essendo il soggetto che le parlava saggio e prudente.

Il demonio che la perseguitava in più guise, per deviarla si servì di questo degno ecclesiastico, mentre non gli riuscì mai di rimuoverla dal servire di cuore il Signore, ottenne almeno di agitarla. Tutto questo accadde nell’anno 1805. Mi piace qui riferire le sue parole, nel ricorso che fa a Gesù Cristo e come la conforta il Signore nell’intrapresa carriera.

Ricorrevo di frequente alle orazioni, con lagrime e sospiri sfogavo le mie pene con il mio caro Gesù. Gli dicevo: «Gesù mio, come va questa cosa? Voi mi fate conoscere che il regolarmi in questo modo è di vostro piacimento, e questo vostro ministro biasima la mia condotta. Gesù mio, vi chiedo per carità, fatemi sapere quello che devo fare per piacervi».

Piangendo e sospirando passavo le ore intere cercando di sapere la volontà di Dio; quando nel profondo silenzio della notte, dopo molte lagrime, lo spirito fu sopraffatto da interna quiete. Dolce voce così mi parlò: «Figlia, perché ti lamenti? Sappi che sei a me consagrata».

A queste parole, qual mi restassi non so spiegarlo.

Mio Dio, e come sono consagrata a voi? - prese a dire la povera anima mia - Ah, Gesù mio, io non vi intendo, cosa volete dirmi? Io consagrata a voi? E come, se non sono più libera di me? Ah Gesù mio, quanto mi pento di non essermi a voi consagrata. Piangendo dirottamente, non capivo il giusto senso delle sue amorose parole, che volevano ricordarmi il voto fatto. Per ben tre volte si degnò di parlarmi così, per tre notti consecutive. La terza notte mi ricordai il voto fatto; a questa ricordanza qual mi restassi non posso spiegarlo, credetti veramente di morire, passai tutta la notte in amare lagrime, cagionate dal grande dolore che mi recava il ricordarmi la mia infedeltà. Venivano questi sentimenti dolorosi accompagnati da una certa speranza nell’infinita bontà di Dio, che sarebbe per perdonarmi il mio gravissimo fallo.

La mattina di volo vado al mio confessore, piena di affanno e di pena gli racconto il fatto surriferito con tante lagrime e con tanto dolore che corsi il pericolo di morire ai suoi piedi. Questo ministro del Signore mi fece coraggio, e mi fece considerare il giusto senso delle amorose parole: «Figlia» - mi disse il mio confessore - «coraggio, queste non sono parole di rimprovero, ma sono parole per voi molto consolanti. Iddio non vi rimprovera con queste parole, ma vi la consolante nuova che a lui appartenete, e insieme vi ricorda di non essere stata a lui fedele quasi scusando la vostra dimenticanza. Per nuova consolazione vi dice che siete a lui consagrata. Figlia, datevi pace, e ringraziate il vostro amoroso Signore dell’alto favore che vi fa. Riflettete al tempo che vi parlò, quando voi eravate in angustia per il timore di non piacere a lui. Queste parole vi rendono certa del piacere che ha della vostra condotta. Con queste parole vi volle consolare. Figlia, apprendete il giusto senso, mentre io vi spiego le sue parole». Figlia - vi disse - perché così ti lamenti? Sappi che sei a me consacrata!

»E dove volete trovare parole più dolci, più consolanti di queste? Rallegratevi, che ne avete giusto motivo. Ciò nonostante dalla Penitenzieria vi farò avere la dispensa del voto. Io farò il memoriale a vostro nome, e voi vi contenterete di fare la penitenza che vi darà».

Di qual consolazione, di molto conforto mi furono le parole di questo buon padre gesuita38, mio confessore.

 


 




36 Lamentava.



37 Turbamenti.



38 Padre Tommaso Saverio Pizzi.






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