Elisabetta ebbe molto desiderio di fare i santi
esercizi e ne domandò il permesso al consorte, ai suoceri e alle cognate. Fu un
poco contrastato, ma finalmente l’ottenne e andò al V. Monastero del Santissimo
Bambin Gesù42. Passò quei santi giorni con molto raccoglimento e
soavità di spirito, ricevendo molti favori dal Signore. Dopo i santi esercizi
spirituali, appena tornata in casa Iddio la visitò con una grave tribolazione.
Il dottor Mora suocero di Elisabetta, volendo fare un poco di spesa andò al suo
sgrigno e si accorse che gli mancava qualche somma. Visitò i pacchetti che
erano di doppie e altre monete d’oro di maggior valore, contenendo questi molte
migliaia di scudi; trovò in quasi tutti i pacchetti quattrinelli di rame e, in
mezzo alle monete più grandi di mezzi baiocchi, tutto questo rame. In principio
dei pacchetti due o tre monete di oro acciò, se andava a visitare il suo
sgrigno, non se ne fosse avveduto.
Quando si accorse di tutta questa perdita, chi può
immaginare come restasse stupefatto e disgustato!
Il buon vecchio si querelò con la consorte e le
figlie non sapendo chi l’avesse così derubato e insieme burlato. Non sapeva a
chi darne la colpa. Finalmente la consorte per non irritarlo si costituì che li
aveva presi lei assieme con il figlio perché aveva molti debiti e, per non
farlo sfigurare si era presa l’arbitrio di prenderli.
A questo parlare, il buon dottore montò in
collera: Come, il nostro figlio fa
debiti? E per quale causa io lo
mantengo e lo vesto con la moglie e le figlie? Egli esercita la professione,
che uso ne ha da fare? Da questo
punto, tolgo di mano a voi il maneggio dei denari - disse alla consorte - e lo dò a Maria mia figlia minore più
esperta e più sicura di voi, poi conoscerò come ha sprecati tutti questi denari e sarà punito e corretto.
Chi può descrivere il disturbo che recò in
famiglia! Ma tutte le colpe erano di Elisabetta, criticandola e rimproverandola
ché, per il suo bizzochismo, nascevano questi inconvenienti.
Ella taceva
e non si discolpava come avrebbe potuto giustificarsi ché la sua condotta
meritava lode e non biasimo, mentre aveva tentate tutte le vie per distogliere
il consorte dall’intrapresa carriera, che lo portava al precipizio. Intanto il
padre si informò sulla condotta che menava il figlio ed intese che tutti i
denari sprecati erano serviti per la cattiva pratica di una donna di poco buon
nome. Questa nuova improvvisa il buon vecchio, essendo veramente cristiano, la
sentì così al vivo che fu sorpreso da un colpo apoplettico. Chi può ridire
l’accrescimento di angustie! ma siccome era in pieni sentimenti non mancò di
fare una forte correzione al figlio, benché senza frutto. Essendo questa
infermità molto pericolosa e, sarebbe stato un gran danno in quel momento la
perdita di un simile capo di casa, la forza della preghiera espugnò il cuore di
Dio e in pochi giorni poté alzarsi e rimettersi in giro di visite, essendo
medico. Restò un poco debole a una gamba ma con un tantino di appoggio andava
dappertutto.
Nel tempo che il buon dottore si trovava a letto,
le due figlie andavano pensando come potevano fare per rompere la strada a
questa amicizia del fratello Cristoforo. Di nascosto del padre e della madre,
vollero agire con un avvocato, per togliere questo scandalo. A questi suggerì
il demonio, che non si poteva fare nulla con i superiori, se prima Elisabetta
non si fosse ritirata in monastero. Il suddetto si dette il carico per la
licenza, ma il monastero trovato era le Scalette, se non erro, ossia il
monastero dove vanno per correzione i colpevoli di rea amicizia. Elisabetta
chinò il capo alla proposta delle cognate e dell’avvocato e con generosa
fortezza disse: Andiamo dove Iddio vuole,
benché comprendeva che sarebbe comparsa agli occhi di tutti colpevole e il consorte
innocente, e che il medesimo la rinchiudeva per correggerla.
La cognata minore, stabilito il giorno senza far
motto a nessuno, fece attaccare la carrozza del padre per condurre Elisabetta
al monastero.
Chi potrà ridire le offerte che andava facendo al
Signore di tutta se stessa! unendo quel suo patire alla svergognatura che
andava a ricevere, in unione a quelle che aveva patito Gesù Cristo nella sua
passione.
A questo sagrificio si aggiungeva il dover
lasciare le figlie, che nel vedersele innanzi e nel darle la benedizione prima
di sortire, fu tale la forza e la repressione, che l’umanità non resse e cadde
svenuta; ma poco dopo si rinvigorì e dato con il suo interno l’ultimo addio
alle figlie, montò in carrozza.
Al Signore bastò l’atto generoso di Elisabetta ma
non ne volle l’esecuzione; ecco come restò. In un punto, sventata la mina del
demonio, l’avvocato li doveva aspettare alla Chiesa dei Santissimi
Apostoli43, così avevano combinato; ma questi ritardò l’ora e quando
arrivò lo sorprese un improvviso smarrimento, dicendo che non aveva potuto
avere la licenza.
In quell’atto che stavano combinando, che si
poteva andare insieme dai superiori, o fuori dalla Chiesa o al portico, ecco
che si presenta Cristoforo che forse sarà voluto andare a Messa. Vedendo la
consorte, la sorella e l’avvocato sospettò qualche cosa e tutto sdegnoso disse:
Cosa state a fare qui, andiamo a casa!
Li fece rimontare in carrozza ed egli stesso li ricondusse a casa; in seguito
mai più si parlò di monastero. Intanto il buon vecchio si ristabilì ed il
medesimo, con la consorte e le figlie, risolvettero di fare ricorso ai
superiori. Riporterò le sue parole che, per obbedienza, il confessore44
ne volle una esatta relazione scritta, come seguì. Il padre, la madre e le sorelle del mio consorte credettero bene
d’impedire al suddetto la cattiva amicizia che aveva con una donna di poco buon
nome. Pensarono dunque a questo oggetto di fare un ricorso ai superiori.
Vollero da me il consenso, senza il quale il loro ricorso sarebbe stato di
nessun valore. Mi consigliai con il mio direttore e, dopo essermi raccomandata
al Signore, detti a voce al padre e alla madre il mio consenso.
Fatto
il ricorso, i superiori conobbero la ragione e procedettero contro il suddetto
mio consorte e la sua amica. Per ordine dell’eminentissimo cardinale vicario fu
il suddetto condotto ai Santi Giovanni e Paolo, consegnato ai padri passionisti
con ordine di ritenerlo fino a nuovo ordine. Questi buoni padri gli dettero gli
esercizi spirituali e procurarono di fargli conoscere le sue mancanze; ma
invece di approfittarsi delle ammonizioni, ogni giorno più si ostinava nel
sostenere la sua cattiva amicizia. Si infierì crudelmente contro di me,
credendomi autrice del suddetto ricorso. Mi scriveva lettere fulminanti e piene
di minacce. Intanto gli si andava facendo il processo, e così fu risoluto dai
superiori che il suddetto fosse tornato alla sua casa quante volte dopo i santi
esercizi avesse dato riprova del suo ravvedimento; ma che se fosse
tornato a trattare la suddetta donna, la sua pena sarebbe stata di essere
ritenuto in Castello45 tutto
il tempo che sarebbe piaciuto al signor Cardinale Vicario46. La donna poi, come più rea per altre
mancanze, se fosse tornata a trattare il suddetto, sarebbe condannata a San
Michele47 per cinque anni.
Passati
quindici giorni, il suddetto scrisse una lettera di sottomissione al padre e
alla madre. Il padre, non credendo alle sue parole, ma ritenendo a memoria le
ingiurie e le minacce che nei giorni passati aveva a me fatto per mezzo di una
sua lettera, voleva assolutamente dai Santi Giovanni e Paolo farlo passare in
Castello, ma la madre si interpose presso il padre e, pregandolo di non recare
a lei questo disgusto, avesse perdonato il figlio e fatto tornare in casa. Mi
chiamarono e mi comunicarono i loro diversi sentimenti. Io con la grazia di
Dio, che molto più del solito invocavo e mi raccomandavo per non sbagliare, mi
mostravo indifferente e obbediente ai loro voleri. Il suddetto ogni giorno più
manifestava il suo malanimo contro di me. Le sorelle del suddetto, dubitando di
vedere qualche fatto micidiale, mi consigliavano di andare in casa terza e non
espormi agli insulti del loro fratello; consigliavano ancora il padre a non
farlo tornare a casa. Finalmente l’afflitta madre vinse tutti, sicché si
risolvette di comune consenso di farlo tornare a casa il giorno 28 del mese di
luglio, dopo averlo per diciotto giorni tenuto in Santi Giovanni e Paolo.
Tornò
in casa quale leone infierito, per vedersi privo della sua amica. La privazione
di questa amicizia non ad altro servì che infierirlo contro di me, sicché molto
dovetti soffrire da quest’uomo forsennato. Finalmente con maltrattamenti e con
minacce prese il partito di obbligarmi a dargli in iscritto il consenso per
tornare liberamente a trattare la sua amica; ma questo non potevo farlo senza
offendere Iddio. Mi consigliai con il mio direttore, il quale mi disse che mi
fossi piuttosto contentata di morire per le sue mani che dare questo consenso.
Questo mi bastò, perché il mio spirito con la grazia di Dio divenisse forte;
qual scoglio immobile alle furiose onde dell’agitato mare, con la grazia di Dio
facevo io sola argine a questo uomo imbestialito, negando, a costo della mia
propria vita, al suddetto il consenso. Sicché diverse volte corsi il pericolo
di morire per le sue mani; particolarmente una sera che tornò a casa più del
solito sdegnato e pieno di furore, risoluto di darmi la morte se non davo il
consenso col sottoscrivere una carta per giustificare presso i superiori la sua
amicizia. Buon per me che erano buone due ore che mi trattenevo in orazioni,
per mezzo delle quali Iddio mi comunicò tanta forza di dare la vita piuttosto
che offendere il mio Signore.
Il
suddetto, dopo essersi servito delle ragioni per convincermi, mostrandomi che
non ad altro voleva la mia sottoscrizione che per rendere
la riputazione che con il ricorso si era tolta a questa donna, giurando di non
più accostarsi alla casa di questa; ma io, nonostante le sue promesse, con la
grazia di Dio non mi feci vincere, ma valorosamente offrii la mia vita
piuttosto che offendere Iddio.
Nel
vedermi così risoluta, divenne più fiero di un cane arrabbiato e mi si avventò
addosso per uccidermi. La madre, allo strepito delle sue minacce, accorse per
darmi aiuto, ma il mio spirito intrepido senza timore, invece di fuggire mi
inginocchiai avanti a lui, e pregando la madre che lo riteneva, che avesse
lasciato sfogare il suo sdegno contro di me. In questo tempo offrii al mio Dio
tutto il mio sangue, per dimostrargli il mio spirito, provando nel mio cuore
gli affetti più vivi della sua carità. Stavo tutta ansiosa aspettando il colpo,
per dare al mio buon Dio un attestato dell’amor mio; ma quando speravo di
trovarmi immersa nel proprio sangue, mi avvidi che era al suddetto mancata la
forza di colpire il mio cuore che con santo ardire stava aspettando il dolce
momento di offrire il mio sangue.
Ma
il suddetto fu da forza superiore impossibilitato di mettere in esecuzione il suo
disegno, confessando che forza superiore arrestò il suo braccio, ma pieno di
timore e pallido nel volto si adagiò sopra di una sedia, perché gli era ad un
tratto mancata la forza. Nel vedersi privo di forza, prese il partito di
chiedermi perdono, confessando il grave torto che mi aveva fatto, ma questo
proposito non fu durevole neppure un quarto d’ora perché, appena Iddio gli
restituì la primiera forza, tornò di bel nuovo ad insultarmi e, preso dalla
disperazione, se ne partì, dicendo che per mia cagione si sarebbe da sé data la
morte.
La
madre, sentendo l’espressione del figlio, vedendolo partire molto infuriato, si
rivolse contro di me, facendomi dei rimproveri per non aver condisceso alle sue
voglie, ma il mio spirito era incapace di ogni apprensione, perché si trovava
tutto immerso in Dio, godendo una mirabile unione con lui che, sebbene in quei
momenti mi avesse fatto in mille pezzi, non ero capace di risentimento.
Passai
tutto il mese di agosto in questa fiera persecuzione. Diversi erano i progetti che
in questa occasione mi fecero i miei parenti: parte di loro mi consigliavano di
ritirarmi in un monastero, mia madre voleva che fossi tornata in casa sua, il
mio direttore mi consigliava di sciogliere il matrimonio, mostrandomi le forti
ragioni che mi assistevano. In mezzo a tutte queste disparità di pareri, il mio
spirito riposava dolcemente nelle braccia del suo Signore, tenendo per certo
che l’affare sarebbe andato secondo la sua santissima volontà. Di niente avevo
paura; ai miei parenti recava molta meraviglia come io avessi tanto spirito di
stare sola di notte in camera con un uomo tanto imbestialito, senza paura di
restare morta per le sue mani.
Questo
spirito non a me, ma a Iddio si doveva attribuire, che si degnava di trionfare
della mia miseria, mentre parte della notte la passavo in ginocchio, occupata
in alta contemplazione; e quando la necessità del corpo mi obbligava a prendere
un poco di riposo, ero in quel tempo favorita da un raggio di luce, che mi
circondava da ogni intorno e mi rendeva sicuro il riposo. Nella Santa Comunione
poi il Signore si degnava favorirmi in modo speciale. In questo tempo più volte
fui visitata dal Signore, che sotto la forma di vago fanciullo mi appariva,
consolandomi col farmi provare i dolci effetti della sua carità; sicché in
mezzo alla tribolazione godevo nel mio cuore un paradiso di delizie e di
dolcezza.
In
questo tempo il suddetto si adoperò perché fosse bastato il consenso del suo
padre e della sua madre, perché i superiori gli avessero accordato di tornare liberamente
alla sua amicizia. Il mio confessore mi consigliò di non mostrarmi per intesa
di questo, che bastava per mia quiete di coscienza il non avergli dato il
consenso. Ma il mio direttore mi consigliava di separarmi dal consorte, con
esporre le mie forti ragioni ai superiori. A questo oggetto mi comandò di
raccomandarmi al Signore, acciò si fosse degnato mostrarmi la sua volontà. Il
Signore mi fece conoscere che non dovevo abbandonare queste tre anime, cioè le
due figlie e il consorte, mentre per mezzo mio le voleva salvare.
Dopo
questa notizia dissi al mio Direttore: «Le basti così. Deponga ogni pensiero riguardo a
questa separazione di matrimonio, perché io antepongo la salvezza di queste tre
anime al mio profitto spirituale, essendo di maggior gloria di Dio; il
cooperare alla salvezza di queste tre anime non mi impedisce la perfezione. So
bene che lei mi consiglia in mio vantaggio, mentre crede che nella quiete possa
il mio spirito molto avanzarsi nella perfezione; ma io le dico che, se Iddio
vuole, non mi saranno queste di inciampo, anzi mi aiuteranno ad esercitarmi
nella virtù. Ma per schivare ogni
attacco che da queste possa avere, fin da questo momento rinunzio ad ogni
affetto sensibile che possa mai avere il mio cuore verso di loro, solo intendo
amarle per pura carità e cercare per queste tutti i vantaggi per la loro eterna
salvezza, a costo di ogni mio incomodo».
Parlavo
con tanta franchezza, perché chiaramente il Signore mi aveva fatto intendere
che questa era la sua volontà.
Accertato
il mio spirito esser questa la volontà di Dio, pensai che molto potevo
profittare nello spirito, esercitandomi nelle sante virtù, per così piacere al
mio amato Signore, per il quale sentivo tanto amore che ogni grave patire era
lieve per me; mi misi in stato di sofferenza, risoluta di soffrire dal consorte
e dai parenti tutte le ingiurie, tutti i maltrattamenti che mi venissero fatti.
Non ci fu poco da soffrire, ma con la grazia di Dio tutto superai,
esercitandomi, per buoni tre mesi che durò la fiera persecuzione, nelle sante
virtù del silenzio, dell’umiltà e della pazienza. Vedendomi per misericordia di
Dio così mansueta, cessarono di più molestarmi.
Ho voluto riportare le sue parole, perché chi
legge misuri il grande patire di Elisabetta e la sua prontezza di posporre alla
sua quiete il bene altrui, dopo che fu approvata dal direttore la sua
risoluzione di stare in casa sottoposta più di prima alle ingiurie e alle
continue contumelie che doveva subire non solo dai parenti, ma ancora dalle
persone di servizio, e le maniere urtanti e dure del consorte. A tutto questo
resisteva con la massima disinvoltura, proseguendo la sua servitù anzidetta,
come fosse obbligata ad operare da ancella, anzi raddoppiando le fatiche ed
esibendo la sua opera in ogni cosa, con una mirabile mansuetudine.
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