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Suor Maria Giuseppa Mora della SS. Trinità, figlia della Beata Elisabetta Canori Mora
Vita della Beata Elisabetta Canori Mora

IntraText CT - Lettura del testo

  • INTORNO ALLA VITA DELLA SERVA DI DIO ELISABETTA CANORI MORA MORTA IN ROMA IL DÌ 5 FEBBRAIO 1825 – BREVI CENNI SCRITTI DALLA FIGLIA MEDESIMA, MARIA LUCINA MORA, OSSIA MARIA GIUSEPPA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ, MONACA FILIPPINA
    • LIBRO PRIMO
        • 11 - Generosa costanza di Elisabetta nel tollerare straordinari travagli
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11 - Generosa costanza di Elisabetta nel tollerare straordinari travagli

 

Elisabetta ebbe molto desiderio di fare i santi esercizi e ne domandò il permesso al consorte, ai suoceri e alle cognate. Fu un poco contrastato, ma finalmente l’ottenne e andò al V. Monastero del Santissimo Bambin Gesù42. Passò quei santi giorni con molto raccoglimento e soavità di spirito, ricevendo molti favori dal Signore. Dopo i santi esercizi spirituali, appena tornata in casa Iddio la visitò con una grave tribolazione. Il dottor Mora suocero di Elisabetta, volendo fare un poco di spesa andò al suo sgrigno e si accorse che gli mancava qualche somma. Visitò i pacchetti che erano di doppie e altre monete d’oro di maggior valore, contenendo questi molte migliaia di scudi; trovò in quasi tutti i pacchetti quattrinelli di rame e, in mezzo alle monete più grandi di mezzi baiocchi, tutto questo rame. In principio dei pacchetti due o tre monete di oro acciò, se andava a visitare il suo sgrigno, non se ne fosse avveduto.

Quando si accorse di tutta questa perdita, chi può immaginare come restasse stupefatto e disgustato!

Il buon vecchio si querelò con la consorte e le figlie non sapendo chi l’avesse così derubato e insieme burlato. Non sapeva a chi darne la colpa. Finalmente la consorte per non irritarlo si costituì che li aveva presi lei assieme con il figlio perché aveva molti debiti e, per non farlo sfigurare si era presa l’arbitrio di prenderli.

A questo parlare, il buon dottore montò in collera: Come, il nostro figlio fa debiti? E per quale causa io lo mantengo e lo vesto con la moglie e le figlie? Egli esercita la professione, che uso ne ha da fare? Da questo punto, tolgo di mano a voi il maneggio dei denari - disse alla consorte - e lo a Maria mia figlia minore più esperta e più sicura di voi, poi conoscerò come ha sprecati tutti questi denari e sarà punito e corretto.

Chi può descrivere il disturbo che recò in famiglia! Ma tutte le colpe erano di Elisabetta, criticandola e rimproverandola ché, per il suo bizzochismo, nascevano questi inconvenienti.

 Ella taceva e non si discolpava come avrebbe potuto giustificarsi ché la sua condotta meritava lode e non biasimo, mentre aveva tentate tutte le vie per distogliere il consorte dall’intrapresa carriera, che lo portava al precipizio. Intanto il padre si informò sulla condotta che menava il figlio ed intese che tutti i denari sprecati erano serviti per la cattiva pratica di una donna di poco buon nome. Questa nuova improvvisa il buon vecchio, essendo veramente cristiano, la sentì così al vivo che fu sorpreso da un colpo apoplettico. Chi può ridire l’accrescimento di angustie! ma siccome era in pieni sentimenti non mancò di fare una forte correzione al figlio, benché senza frutto. Essendo questa infermità molto pericolosa e, sarebbe stato un gran danno in quel momento la perdita di un simile capo di casa, la forza della preghiera espugnò il cuore di Dio e in pochi giorni poté alzarsi e rimettersi in giro di visite, essendo medico. Restò un poco debole a una gamba ma con un tantino di appoggio andava dappertutto.

Nel tempo che il buon dottore si trovava a letto, le due figlie andavano pensando come potevano fare per rompere la strada a questa amicizia del fratello Cristoforo. Di nascosto del padre e della madre, vollero agire con un avvocato, per togliere questo scandalo. A questi suggerì il demonio, che non si poteva fare nulla con i superiori, se prima Elisabetta non si fosse ritirata in monastero. Il suddetto si dette il carico per la licenza, ma il monastero trovato era le Scalette, se non erro, ossia il monastero dove vanno per correzione i colpevoli di rea amicizia. Elisabetta chinò il capo alla proposta delle cognate e dell’avvocato e con generosa fortezza disse: Andiamo dove Iddio vuole, benché comprendeva che sarebbe comparsa agli occhi di tutti colpevole e il consorte innocente, e che il medesimo la rinchiudeva per correggerla.

La cognata minore, stabilito il giorno senza far motto a nessuno, fece attaccare la carrozza del padre per condurre Elisabetta al monastero.

Chi potrà ridire le offerte che andava facendo al Signore di tutta se stessa! unendo quel suo patire alla svergognatura che andava a ricevere, in unione a quelle che aveva patito Gesù Cristo nella sua passione.

A questo sagrificio si aggiungeva il dover lasciare le figlie, che nel vedersele innanzi e nel darle la benedizione prima di sortire, fu tale la forza e la repressione, che l’umanità non resse e cadde svenuta; ma poco dopo si rinvigorì e dato con il suo interno l’ultimo addio alle figlie, montò in carrozza.

Al Signore bastò l’atto generoso di Elisabetta ma non ne volle l’esecuzione; ecco come restò. In un punto, sventata la mina del demonio, l’avvocato li doveva aspettare alla Chiesa dei Santissimi Apostoli43, così avevano combinato; ma questi ritardò l’ora e quando arrivò lo sorprese un improvviso smarrimento, dicendo che non aveva potuto avere la licenza.

In quell’atto che stavano combinando, che si poteva andare insieme dai superiori, o fuori dalla Chiesa o al portico, ecco che si presenta Cristoforo che forse sarà voluto andare a Messa. Vedendo la consorte, la sorella e l’avvocato sospettò qualche cosa e tutto sdegnoso disse: Cosa state a fare qui, andiamo a casa! Li fece rimontare in carrozza ed egli stesso li ricondusse a casa; in seguito mai più si parlò di monastero. Intanto il buon vecchio si ristabilì ed il medesimo, con la consorte e le figlie, risolvettero di fare ricorso ai superiori. Riporterò le sue parole che, per obbedienza, il confessore44 ne volle una esatta relazione scritta, come seguì. Il padre, la madre e le sorelle del mio consorte credettero bene d’impedire al suddetto la cattiva amicizia che aveva con una donna di poco buon nome. Pensarono dunque a questo oggetto di fare un ricorso ai superiori. Vollero da me il consenso, senza il quale il loro ricorso sarebbe stato di nessun valore. Mi consigliai con il mio direttore e, dopo essermi raccomandata al Signore, detti a voce al padre e alla madre il mio consenso.

Fatto il ricorso, i superiori conobbero la ragione e procedettero contro il suddetto mio consorte e la sua amica. Per ordine dell’eminentissimo cardinale vicario fu il suddetto condotto ai Santi Giovanni e Paolo, consegnato ai padri passionisti con ordine di ritenerlo fino a nuovo ordine. Questi buoni padri gli dettero gli esercizi spirituali e procurarono di fargli conoscere le sue mancanze; ma invece di approfittarsi delle ammonizioni, ogni giorno più si ostinava nel sostenere la sua cattiva amicizia. Si infierì crudelmente contro di me, credendomi autrice del suddetto ricorso. Mi scriveva lettere fulminanti e piene di minacce. Intanto gli si andava facendo il processo, e così fu risoluto dai superiori che il suddetto fosse tornato alla sua casa quante volte dopo i santi esercizi avesse dato riprova del suo ravvedimento; ma che se fosse tornato a trattare la suddetta donna, la sua pena sarebbe stata di essere ritenuto in Castello45 tutto il tempo che sarebbe piaciuto al signor Cardinale Vicario46. La donna poi, come più rea per altre mancanze, se fosse tornata a trattare il suddetto, sarebbe condannata a San Michele47 per cinque anni.

Passati quindici giorni, il suddetto scrisse una lettera di sottomissione al padre e alla madre. Il padre, non credendo alle sue parole, ma ritenendo a memoria le ingiurie e le minacce che nei giorni passati aveva a me fatto per mezzo di una sua lettera, voleva assolutamente dai Santi Giovanni e Paolo farlo passare in Castello, ma la madre si interpose presso il padre e, pregandolo di non recare a lei questo disgusto, avesse perdonato il figlio e fatto tornare in casa. Mi chiamarono e mi comunicarono i loro diversi sentimenti. Io con la grazia di Dio, che molto più del solito invocavo e mi raccomandavo per non sbagliare, mi mostravo indifferente e obbediente ai loro voleri. Il suddetto ogni giorno più manifestava il suo malanimo contro di me. Le sorelle del suddetto, dubitando di vedere qualche fatto micidiale, mi consigliavano di andare in casa terza e non espormi agli insulti del loro fratello; consigliavano ancora il padre a non farlo tornare a casa. Finalmente l’afflitta madre vinse tutti, sicché si risolvette di comune consenso di farlo tornare a casa il giorno 28 del mese di luglio, dopo averlo per diciotto giorni tenuto in Santi Giovanni e Paolo.

Tornò in casa quale leone infierito, per vedersi privo della sua amica. La privazione di questa amicizia non ad altro servì che infierirlo contro di me, sicché molto dovetti soffrire da quest’uomo forsennato. Finalmente con maltrattamenti e con minacce prese il partito di obbligarmi a dargli in iscritto il consenso per tornare liberamente a trattare la sua amica; ma questo non potevo farlo senza offendere Iddio. Mi consigliai con il mio direttore, il quale mi disse che mi fossi piuttosto contentata di morire per le sue mani che dare questo consenso. Questo mi bastò, perché il mio spirito con la grazia di Dio divenisse forte; qual scoglio immobile alle furiose onde dell’agitato mare, con la grazia di Dio facevo io sola argine a questo uomo imbestialito, negando, a costo della mia propria vita, al suddetto il consenso. Sicché diverse volte corsi il pericolo di morire per le sue mani; particolarmente una sera che tornò a casa più del solito sdegnato e pieno di furore, risoluto di darmi la morte se non davo il consenso col sottoscrivere una carta per giustificare presso i superiori la sua amicizia. Buon per me che erano buone due ore che mi trattenevo in orazioni, per mezzo delle quali Iddio mi comunicò tanta forza di dare la vita piuttosto che offendere il mio Signore.

Il suddetto, dopo essersi servito delle ragioni per convincermi, mostrandomi che non ad altro voleva la mia sottoscrizione che per rendere la riputazione che con il ricorso si era tolta a questa donna, giurando di non più accostarsi alla casa di questa; ma io, nonostante le sue promesse, con la grazia di Dio non mi feci vincere, ma valorosamente offrii la mia vita piuttosto che offendere Iddio.

Nel vedermi così risoluta, divenne più fiero di un cane arrabbiato e mi si avventò addosso per uccidermi. La madre, allo strepito delle sue minacce, accorse per darmi aiuto, ma il mio spirito intrepido senza timore, invece di fuggire mi inginocchiai avanti a lui, e pregando la madre che lo riteneva, che avesse lasciato sfogare il suo sdegno contro di me. In questo tempo offrii al mio Dio tutto il mio sangue, per dimostrargli il mio spirito, provando nel mio cuore gli affetti più vivi della sua carità. Stavo tutta ansiosa aspettando il colpo, per dare al mio buon Dio un attestato dell’amor mio; ma quando speravo di trovarmi immersa nel proprio sangue, mi avvidi che era al suddetto mancata la forza di colpire il mio cuore che con santo ardire stava aspettando il dolce momento di offrire il mio sangue.

Ma il suddetto fu da forza superiore impossibilitato di mettere in esecuzione il suo disegno, confessando che forza superiore arrestò il suo braccio, ma pieno di timore e pallido nel volto si adagiò sopra di una sedia, perché gli era ad un tratto mancata la forza. Nel vedersi privo di forza, prese il partito di chiedermi perdono, confessando il grave torto che mi aveva fatto, ma questo proposito non fu durevole neppure un quarto d’ora perché, appena Iddio gli restituì la primiera forza, tornò di bel nuovo ad insultarmi e, preso dalla disperazione, se ne partì, dicendo che per mia cagione si sarebbe da sé data la morte.

La madre, sentendo l’espressione del figlio, vedendolo partire molto infuriato, si rivolse contro di me, facendomi dei rimproveri per non aver condisceso alle sue voglie, ma il mio spirito era incapace di ogni apprensione, perché si trovava tutto immerso in Dio, godendo una mirabile unione con lui che, sebbene in quei momenti mi avesse fatto in mille pezzi, non ero capace di risentimento.

Passai tutto il mese di agosto in questa fiera persecuzione. Diversi erano i progetti che in questa occasione mi fecero i miei parenti: parte di loro mi consigliavano di ritirarmi in un monastero, mia madre voleva che fossi tornata in casa sua, il mio direttore mi consigliava di sciogliere il matrimonio, mostrandomi le forti ragioni che mi assistevano. In mezzo a tutte queste disparità di pareri, il mio spirito riposava dolcemente nelle braccia del suo Signore, tenendo per certo che l’affare sarebbe andato secondo la sua santissima volontà. Di niente avevo paura; ai miei parenti recava molta meraviglia come io avessi tanto spirito di stare sola di notte in camera con un uomo tanto imbestialito, senza paura di restare morta per le sue mani.

Questo spirito non a me, ma a Iddio si doveva attribuire, che si degnava di trionfare della mia miseria, mentre parte della notte la passavo in ginocchio, occupata in alta contemplazione; e quando la necessità del corpo mi obbligava a prendere un poco di riposo, ero in quel tempo favorita da un raggio di luce, che mi circondava da ogni intorno e mi rendeva sicuro il riposo. Nella Santa Comunione poi il Signore si degnava favorirmi in modo speciale. In questo tempo più volte fui visitata dal Signore, che sotto la forma di vago fanciullo mi appariva, consolandomi col farmi provare i dolci effetti della sua carità; sicché in mezzo alla tribolazione godevo nel mio cuore un paradiso di delizie e di dolcezza.

In questo tempo il suddetto si adoperò perché fosse bastato il consenso del suo padre e della sua madre, perché i superiori gli avessero accordato di tornare liberamente alla sua amicizia. Il mio confessore mi consigliò di non mostrarmi per intesa di questo, che bastava per mia quiete di coscienza il non avergli dato il consenso. Ma il mio direttore mi consigliava di separarmi dal consorte, con esporre le mie forti ragioni ai superiori. A questo oggetto mi comandò di raccomandarmi al Signore, acciò si fosse degnato mostrarmi la sua volontà. Il Signore mi fece conoscere che non dovevo abbandonare queste tre anime, cioè le due figlie e il consorte, mentre per mezzo mio le voleva salvare.

Dopo questa notizia dissi al mio Direttore: «Le basti così. Deponga ogni pensiero riguardo a questa separazione di matrimonio, perché io antepongo la salvezza di queste tre anime al mio profitto spirituale, essendo di maggior gloria di Dio; il cooperare alla salvezza di queste tre anime non mi impedisce la perfezione. So bene che lei mi consiglia in mio vantaggio, mentre crede che nella quiete possa il mio spirito molto avanzarsi nella perfezione; ma io le dico che, se Iddio vuole, non mi saranno queste di inciampo, anzi mi aiuteranno ad esercitarmi nella virtù. Ma per schivare ogni attacco che da queste possa avere, fin da questo momento rinunzio ad ogni affetto sensibile che possa mai avere il mio cuore verso di loro, solo intendo amarle per pura carità e cercare per queste tutti i vantaggi per la loro eterna salvezza, a costo di ogni mio incomodo».

Parlavo con tanta franchezza, perché chiaramente il Signore mi aveva fatto intendere che questa era la sua volontà.

Accertato il mio spirito esser questa la volontà di Dio, pensai che molto potevo profittare nello spirito, esercitandomi nelle sante virtù, per così piacere al mio amato Signore, per il quale sentivo tanto amore che ogni grave patire era lieve per me; mi misi in stato di sofferenza, risoluta di soffrire dal consorte e dai parenti tutte le ingiurie, tutti i maltrattamenti che mi venissero fatti. Non ci fu poco da soffrire, ma con la grazia di Dio tutto superai, esercitandomi, per buoni tre mesi che durò la fiera persecuzione, nelle sante virtù del silenzio, dell’umiltà e della pazienza. Vedendomi per misericordia di Dio così mansueta, cessarono di più molestarmi.

Ho voluto riportare le sue parole, perché chi legge misuri il grande patire di Elisabetta e la sua prontezza di posporre alla sua quiete il bene altrui, dopo che fu approvata dal direttore la sua risoluzione di stare in casa sottoposta più di prima alle ingiurie e alle continue contumelie che doveva subire non solo dai parenti, ma ancora dalle persone di servizio, e le maniere urtanti e dure del consorte. A tutto questo resisteva con la massima disinvoltura, proseguendo la sua servitù anzidetta, come fosse obbligata ad operare da ancella, anzi raddoppiando le fatiche ed esibendo la sua opera in ogni cosa, con una mirabile mansuetudine.

 


 




42 Chiesa e Monastero delle Oblate Agostiniane, in Via Urbana, 1-2. (Cfr. La mia vitaop. cit., p. 118).



43 La Chiesa fu fatta costruire da Pelagio I e completata tra il 560 e il 573 da Giovanni III. Venne rinnovata successivamente e ricostruita da Francesco e Carlo Fontana in stile barocco. La facciata è in stile neoclassico. La pianta interna ha tre navate e tre cappelle per lato intercomunicanti. La pala d’altare, la più grande di Roma, è di Domenico Muratori. (Cfr. Museo Italia, Roma, Armando Curcio Editore, s.d.).



44 Padre Ferdinando di San Luigi Gonzaga, trinitario.



45 Castel Sant’Angelo, prigione per gli uomini. (Cfr. La mia vitaop. cit., p. 124).



46 Della Somaglia Giulio Maria, Vicario di Sua Santità. (Cfr. La mia vita…, op. cit., p. 743).



47 Ospizio apostolico di San Michele, con il carcere per le donne. (Cfr. La mia vita …, op. cit., p. 125).






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