Correva l’anno 1812, non saprei il mese; il
consorte di Elisabetta aveva formato altri debiti per la cagione già detta di
quella amicizia. Risapendo le sorelle di Cristoforo che i creditori volevano
molestarle, presero l’espediente acciò il fratello cambiasse il domicilio di
casa e variasse la sua abitazione. Chiamarono Elisabetta e le intimarono di
trovare con sollecitudine una casa e di partire al più presto dalla loro
abitazione con il consorte e le figlie, non volendo essere molestate né
svergognate dai creditori del suo consorte, avendo ella parte a simili
sconcerti, e molti altri rimproveri e che si affrettasse di eseguire subito il
tutto, come fece, procurando una piccola casa di poche camere.
Dovette adattarsi a un subaffitto perché in quelle
vicinanze non si trovava altro; al suocero fu celato il tutto per non disturbarlo.
Ma chi potrà ridire il disgusto e il dispiacere della suocera, che tanto amava
il figlio, di vederlo scacciato di casa dalle sorelle, e non era suscettibile
di dare peso al suo male procedere, per il distacco della nuora che amava come
figlia e delle nipoti alle quali voleva tanto bene! Non si può spiegare la
scena tragica che fu nel distaccarsi, ma per non accrescere il dolore alla
madre, combinarono che ogni mattina andassero a pranzare in casa, anche perché
il buon vecchio del suocero non si accorgesse che non erano più in casa.
Come potrò mai spiegare quanto dovette soffrire lo
spirito di Elisabetta nel vedersi priva affatto di libertà, benché non ne desse
un minimo segno di turbamento, ma era ilare e contenta della disposizione
divina.
Era questa una piccola abitazione situata
all’ultimo piano diviso in tre famiglie e in subaffitto, in Via delle Muratte,
passato l’Arco dei Carbognani; entravano tutti da un’antiporta.
Per la necessità era una soggezione; aveva
tre sole camere: una per Elisabetta e il consorte, un’altra per le figlie e la
terza per studio del consorte. Ad Elisabetta non restava nemmeno un piccolo
angolo per le sue orazioni, ma ella indifferente, non mostrava dispiacere
perché oltre questa simile situazione, non poteva stare in Chiesa in pace, ma
si levava di buonora per sentire la Messa e fare la Santa Comunione, poi si
ritirava in casa per non lasciare le figlie. Peraltro il consorte le diceva che
stesse pur quieta ché si tratteneva fintanto che non tornava ella in casa;
tanto più che il medesimo molte volte aveva da fare delle scritture. Le diceva:
Sta con pace, ma per Elisabetta era
un’altra sollecitazione, perché teneva i giovani sotto la dettatura, oltre il
trapasso degli altri due appigionanti, che erano persone di tratto e ricevevano
molte visite. Vari mesi continuarono Elisabetta con le figlie ad andare a
pranzo e a cena dai suoceri, il consorte vi andava tardi per la cena e si
combinava in famiglia. Ad Elisabetta non conveniva ritirarsi con le figlie in
ora avanzata e pregò la suocera che prima di un’ora di notte avesse fatto
somministrare quel poco di cena; ella contentissima si dette il carico per gli
opportuni ordini. Ma non durò molto, perché le figlie, che avevano la consegna
di tutto e le sorelle della suocera che in parte supplivano a quello che faceva
Elisabetta quando era in famiglia, cominciarono a borbottare, non tanto le due
zie sorelle della suocera, quanto le figlie, ché le serviva di incomodo
preparare due cene. Lo dissero ad Elisabetta, ed ella rispose che avevano ragione,
e, dal momento che in quella casa non vi erano comodi, avrebbe procurato.
Pregò il padrone di casa di darle un’altra
cameretta, ma non vi era nell’istesso piano e le dette una soffitta con il
camino; si dovevano salire molti gradini di legno. Così combinarono che dopo il
pranzo le avrebbero dato il necessario per la cena, sicché la povera
Elisabetta, a guisa di serva, si portava i suoi fagotti di pane e l’altro
occorrente: le saccocciette di carbone, di fenico, i fiaschi di vino e di olio
sotto il fazzolettone. Il bello fu la prima sera che dovevano cenare nella
nuova cucina, ché non c’era nemmeno una sedia, c’era una sola canestra che la
suocera con le sue sorelle le mandarono con molti attrezzi, ma mancavano molte
cose. Elisabetta si sentiva alquanto sfinita di forze, si era fatta dare una
piccola pila di pancotto, non saprei se fosse con il brodo o con l’acqua.
Principiarono a svolgere la canestra, ma non fu trovato neppure un cucchiaio di
legno. Convenne alla buona Elisabetta di mangiarla con un piattino di
chicchera, seduta alla canestra, ma il grazioso era che rideva e ringraziava il
Signore che le presentava l’occasione di umiliazione e di vera povertà. Le
figlie piangevano e si avvilivano, se non sbaglio, mi pare, che poco o niente
vollero mangiare. Siccome la carità di Elisabetta era per tutti, molto più per
le figlie, le consolò dicendo: Domani
ammobilieremo la cucina, siete contente?.
La mattina le fece vestire e le condusse dalla sua
madre alla quale raccontò l’afflizione delle figlie. La buona nonna che era di
tanto buon cuore, disse alla figlia Maria, sorella maggiore di Elisabetta che,
in quello stesso giorno, dopo il pranzo, mandasse un tavolino per pranzare, le
sedie e tutti gli stili necessari per la cucina, dicendo alle nipoti che volentieri
dava quella roba, tanto aveva il duplicato e non le faceva spunto. Ma se non
avesse avuto questi comodi in duplicato, volentieri si sarebbe privata di
qualunque cosa. Le due figlie si rallegrarono per tanta amorevolezza della
nonna; la ringraziarono e il giorno ricevettero quanto aveva promesso la nonna
e la zia. Proseguivano l’incominciata carriera di questo umiliante sistema; il
suocero non si avvide di niente perché Elisabetta puntualmente faceva trovare
le figlie all’ora che tornava in casa il buon vecchio del nonno, acciò fossero
pronte, come il solito, quando erano in casa, ad andargli incontro, domandare
la benedizione e baciargli la mano.
Il buon vecchio che tanto le amava, proseguiva con
le solite dimostrazioni di regali, di dolci e di molte galanterie e, come bene
spesso metteva in mano alla nipote minore molte doppie di oro, dicendo: Voi siete la padroncina di casa, perché qui
con me in questa casa siete nata. Chi potrebbe descrivere la diversità di
affetti! Queste parole, quasi continue, si suscitavano nelle figlie stizza e
rabbia, alle nipoti avvilimento ed afflizione. Dicevano fra loro: Sapesse signor nonno come siamo trattate!
crede che questi denari li diamo a mamma per uso nostro mentre a noi vengono,
al momento, strappati dalle mani, ché ci troviamo in una situazione come
fossimo mendiche in questa casa, senza guardarci come se non ci avessimo
convissuto finora; siamo state sempre ai loro cenni senza mai contraddirle.
A queste lagnanze delle figlie, la buona
Elisabetta faceva fare delle riflessioni morali, dicendo: Riflettete quanti sono nel mondo che patiscono più di noi! e poi
gli esempi di Gesù Cristo e dei Santi e dobbiamo
persuaderci che per andare in paradiso bisogna patire.
In questo modo le andava consolando e le persuadeva,
poi aggiungeva: Non vi è di sollievo che vi compatisco e vi procuro qualunque
alleggerimento al peso che sentite?.
Un’appigionante della casa dove abitavano - stava
al piano di sotto - era donna anziana, molto timorata di Dio, fece molte esibizioni
ad Elisabetta; qualunque cosa le fosse occorsa avesse profittato di lei con
tutta libertà. Di questo mezzo si prevalse per consegnarle molte volte le sue
figlie, tanto per trattenimento, per qualche ora del giorno, quanto per
condurle un poco a spasso, consegnandole, come diceva, ad occhi chiusi essendo
una persona educata e di sana morale. Di questi pochi momenti profittava
Elisabetta per andare in qualche Chiesa a dare sfogo al suo represso spirito,
stando in queste circostanze sempre in stato violento, dovendo stare sempre
presente a se stessa in tutte le cose esterne e di somma vigilanza, non avendo
altra libertà, se così si può chiamare, che la notte quando il consorte aveva
preso sonno.
In questo duro sistema di vita dovette passare la povera
Elisabetta, buoni venti mesi più o meno, non ricordo bene. Per animare le
figlie, che volevano un poco risentirsi e domandare vari oggetti che
competevano loro, a non fare doglianze in famiglia, farle tacere e usare
prudenza per non inasprire di più le cognate, le confortava dicendo: Chissà, quanto presto vi troverete in
libertà di fare quello che vi pare, senza soggezione! Avrete il giardino, la
loggia, terrete gli uccelletti e assesterete la casa come vi piacerà, senza che
nessuno vi metta bocca.
Le figlie vedevano scorrere i mesi e domandavano: Dov’è mamma, non c’è principio, né si vede un largo a quanto ci dice, rispondeva,
abbiate un poco più di pazienza e Iddio
vi consolerà.
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