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Suor Maria Giuseppa Mora della SS. Trinità, figlia della Beata Elisabetta Canori Mora
Vita della Beata Elisabetta Canori Mora

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  • INTORNO ALLA VITA DELLA SERVA DI DIO ELISABETTA CANORI MORA MORTA IN ROMA IL DÌ 5 FEBBRAIO 1825 – BREVI CENNI SCRITTI DALLA FIGLIA MEDESIMA, MARIA LUCINA MORA, OSSIA MARIA GIUSEPPA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ, MONACA FILIPPINA
    • LIBRO PRIMO
        • 14 - Elisabetta viene discacciata dalla casa dei suoceri con le figlie e il consorte
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14 - Elisabetta viene discacciata dalla casa dei suoceri con le figlie e il consorte

 

Correva l’anno 1812, non saprei il mese; il consorte di Elisabetta aveva formato altri debiti per la cagione già detta di quella amicizia. Risapendo le sorelle di Cristoforo che i creditori volevano molestarle, presero l’espediente acciò il fratello cambiasse il domicilio di casa e variasse la sua abitazione. Chiamarono Elisabetta e le intimarono di trovare con sollecitudine una casa e di partire al più presto dalla loro abitazione con il consorte e le figlie, non volendo essere molestatesvergognate dai creditori del suo consorte, avendo ella parte a simili sconcerti, e molti altri rimproveri e che si affrettasse di eseguire subito il tutto, come fece, procurando una piccola casa di poche camere.

Dovette adattarsi a un subaffitto perché in quelle vicinanze non si trovava altro; al suocero fu celato il tutto per non disturbarlo. Ma chi potrà ridire il disgusto e il dispiacere della suocera, che tanto amava il figlio, di vederlo scacciato di casa dalle sorelle, e non era suscettibile di dare peso al suo male procedere, per il distacco della nuora che amava come figlia e delle nipoti alle quali voleva tanto bene! Non si può spiegare la scena tragica che fu nel distaccarsi, ma per non accrescere il dolore alla madre, combinarono che ogni mattina andassero a pranzare in casa, anche perché il buon vecchio del suocero non si accorgesse che non erano più in casa.

Come potrò mai spiegare quanto dovette soffrire lo spirito di Elisabetta nel vedersi priva affatto di libertà, benché non ne desse un minimo segno di turbamento, ma era ilare e contenta della disposizione divina.

Era questa una piccola abitazione situata all’ultimo piano diviso in tre famiglie e in subaffitto, in Via delle Muratte, passato l’Arco dei Carbognani; entravano tutti da un’antiporta.

Per la necessità era una soggezione; aveva tre sole camere: una per Elisabetta e il consorte, un’altra per le figlie e la terza per studio del consorte. Ad Elisabetta non restava nemmeno un piccolo angolo per le sue orazioni, ma ella indifferente, non mostrava dispiacere perché oltre questa simile situazione, non poteva stare in Chiesa in pace, ma si levava di buonora per sentire la Messa e fare la Santa Comunione, poi si ritirava in casa per non lasciare le figlie. Peraltro il consorte le diceva che stesse pur quieta ché si tratteneva fintanto che non tornava ella in casa; tanto più che il medesimo molte volte aveva da fare delle scritture. Le diceva: Sta con pace, ma per Elisabetta era un’altra sollecitazione, perché teneva i giovani sotto la dettatura, oltre il trapasso degli altri due appigionanti, che erano persone di tratto e ricevevano molte visite. Vari mesi continuarono Elisabetta con le figlie ad andare a pranzo e a cena dai suoceri, il consorte vi andava tardi per la cena e si combinava in famiglia. Ad Elisabetta non conveniva ritirarsi con le figlie in ora avanzata e pregò la suocera che prima di un’ora di notte avesse fatto somministrare quel poco di cena; ella contentissima si dette il carico per gli opportuni ordini. Ma non durò molto, perché le figlie, che avevano la consegna di tutto e le sorelle della suocera che in parte supplivano a quello che faceva Elisabetta quando era in famiglia, cominciarono a borbottare, non tanto le due zie sorelle della suocera, quanto le figlie, ché le serviva di incomodo preparare due cene. Lo dissero ad Elisabetta, ed ella rispose che avevano ragione, e, dal momento che in quella casa non vi erano comodi, avrebbe procurato.

Pregò il padrone di casa di darle un’altra cameretta, ma non vi era nell’istesso piano e le dette una soffitta con il camino; si dovevano salire molti gradini di legno. Così combinarono che dopo il pranzo le avrebbero dato il necessario per la cena, sicché la povera Elisabetta, a guisa di serva, si portava i suoi fagotti di pane e l’altro occorrente: le saccocciette di carbone, di fenico, i fiaschi di vino e di olio sotto il fazzolettone. Il bello fu la prima sera che dovevano cenare nella nuova cucina, ché non c’era nemmeno una sedia, c’era una sola canestra che la suocera con le sue sorelle le mandarono con molti attrezzi, ma mancavano molte cose. Elisabetta si sentiva alquanto sfinita di forze, si era fatta dare una piccola pila di pancotto, non saprei se fosse con il brodo o con l’acqua. Principiarono a svolgere la canestra, ma non fu trovato neppure un cucchiaio di legno. Convenne alla buona Elisabetta di mangiarla con un piattino di chicchera, seduta alla canestra, ma il grazioso era che rideva e ringraziava il Signore che le presentava l’occasione di umiliazione e di vera povertà. Le figlie piangevano e si avvilivano, se non sbaglio, mi pare, che poco o niente vollero mangiare. Siccome la carità di Elisabetta era per tutti, molto più per le figlie, le consolò dicendo: Domani ammobilieremo la cucina, siete contente?.

La mattina le fece vestire e le condusse dalla sua madre alla quale raccontò l’afflizione delle figlie. La buona nonna che era di tanto buon cuore, disse alla figlia Maria, sorella maggiore di Elisabetta che, in quello stesso giorno, dopo il pranzo, mandasse un tavolino per pranzare, le sedie e tutti gli stili necessari per la cucina, dicendo alle nipoti che volentieri dava quella roba, tanto aveva il duplicato e non le faceva spunto. Ma se non avesse avuto questi comodi in duplicato, volentieri si sarebbe privata di qualunque cosa. Le due figlie si rallegrarono per tanta amorevolezza della nonna; la ringraziarono e il giorno ricevettero quanto aveva promesso la nonna e la zia. Proseguivano l’incominciata carriera di questo umiliante sistema; il suocero non si avvide di niente perché Elisabetta puntualmente faceva trovare le figlie all’ora che tornava in casa il buon vecchio del nonno, acciò fossero pronte, come il solito, quando erano in casa, ad andargli incontro, domandare la benedizione e baciargli la mano.

Il buon vecchio che tanto le amava, proseguiva con le solite dimostrazioni di regali, di dolci e di molte galanterie e, come bene spesso metteva in mano alla nipote minore molte doppie di oro, dicendo: Voi siete la padroncina di casa, perché qui con me in questa casa siete nata. Chi potrebbe descrivere la diversità di affetti! Queste parole, quasi continue, si suscitavano nelle figlie stizza e rabbia, alle nipoti avvilimento ed afflizione. Dicevano fra loro: Sapesse signor nonno come siamo trattate! crede che questi denari li diamo a mamma per uso nostro mentre a noi vengono, al momento, strappati dalle mani, ché ci troviamo in una situazione come fossimo mendiche in questa casa, senza guardarci come se non ci avessimo convissuto finora; siamo state sempre ai loro cenni senza mai contraddirle.

A queste lagnanze delle figlie, la buona Elisabetta faceva fare delle riflessioni morali, dicendo: Riflettete quanti sono nel mondo che patiscono più di noi! e poi gli esempi di Gesù Cristo e dei Santi e dobbiamo persuaderci che per andare in paradiso bisogna patire.

In questo modo le andava consolando e le persuadeva, poi aggiungeva: Non vi è di sollievo che vi compatisco e vi procuro qualunque alleggerimento al peso che sentite?.

Un’appigionante della casa dove abitavano - stava al piano di sotto - era donna anziana, molto timorata di Dio, fece molte esibizioni ad Elisabetta; qualunque cosa le fosse occorsa avesse profittato di lei con tutta libertà. Di questo mezzo si prevalse per consegnarle molte volte le sue figlie, tanto per trattenimento, per qualche ora del giorno, quanto per condurle un poco a spasso, consegnandole, come diceva, ad occhi chiusi essendo una persona educata e di sana morale. Di questi pochi momenti profittava Elisabetta per andare in qualche Chiesa a dare sfogo al suo represso spirito, stando in queste circostanze sempre in stato violento, dovendo stare sempre presente a se stessa in tutte le cose esterne e di somma vigilanza, non avendo altra libertà, se così si può chiamare, che la notte quando il consorte aveva preso sonno.

In questo duro sistema di vita dovette passare la povera Elisabetta, buoni venti mesi più o meno, non ricordo bene. Per animare le figlie, che volevano un poco risentirsi e domandare vari oggetti che competevano loro, a non fare doglianze in famiglia, farle tacere e usare prudenza per non inasprire di più le cognate, le confortava dicendo: Chissà, quanto presto vi troverete in libertà di fare quello che vi pare, senza soggezione! Avrete il giardino, la loggia, terrete gli uccelletti e assesterete la casa come vi piacerà, senza che nessuno vi metta bocca.

 

Le figlie vedevano scorrere i mesi e domandavano: Dov’è mamma, non c’è principio, né si vede un largo a quanto ci dice, rispondeva, abbiate un poco più di pazienza e Iddio vi consolerà.

 


 




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