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Suor Maria Giuseppa Mora della SS. Trinità, figlia della Beata Elisabetta Canori Mora
Vita della Beata Elisabetta Canori Mora

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  • INTORNO ALLA VITA DELLA SERVA DI DIO ELISABETTA CANORI MORA MORTA IN ROMA IL DÌ 5 FEBBRAIO 1825 – BREVI CENNI SCRITTI DALLA FIGLIA MEDESIMA, MARIA LUCINA MORA, OSSIA MARIA GIUSEPPA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ, MONACA FILIPPINA
    • LIBRO PRIMO
        • 15 - Il Signore richiama a sé il dottor Mora suocero di Elisabetta - Divisione che la medesima fece con la suocera e le cognate
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15 - Il Signore richiama a sé il dottor Mora suocero di Elisabetta - Divisione che la medesima fece con la suocera e le cognate

 

Nell’agosto del 1813 il suocero di Elisabetta fu sorpreso da grave infermità; non si può esprimere il dispiacere comune, trattandosi di un capo di casa che governava tante persone. Il dolore della consorte era senza termine e misura, tanto più che conosceva che sarebbe stato di maggior pregiudizio per il figlio, la nuora e le nipoti, tanto più si affliggeva. Ma siccome nutriva una grande fiducia nelle orazioni di Elisabetta, si raccomandò che pregasse e facesse pregare il Signore acciò gli accordasse più lunga vita per il vantaggio della famiglia. Il Signore le fece intendere che a causa di quella infermità lo voleva richiamare a sé, essendo quello il meglio per l’anima sua. Benché non mancarono di far celebrare Messe, vari tridui e continue orazioni in famiglia, il decreto era fatto, per quanti rimedi e consulti gli fecero, niente gli giovò; conosceva da sé che il male era irrimediabile. Volle essere munito dei sacramenti che ricevette con un sentimento di fervore e di pietà straordinaria e, dando a tutti la paterna benedizione, con una tranquillità d’animo e rassegnazione alle divine disposizioni, placidamente se ne volò agli eterni riposi il giorno 25 agosto dedicato a San Bartolomeo apostolo e andò a ricevere il premio di una vita veramente cristiana e santa.

Era stato un uomo di una carità straordinaria, avendola esercitata non solo nella sua professione, - curava i poveri senza pagamento - ma somministrava anche il denaro occorrente per le medicine e per il sostentamento degli infermi. Con tanto garbo metteva la cartina sotto il cuscino dell’infermo acciò gli altri non si avvedessero di quello che faceva. Oltre a questo, manteneva mensilmente varie famiglie povere e ne faceva tenere particolare nota alle figlie, quando dette il maneggio acciò fossero puntuali nel pagare.

Subito spirato, gli fecero celebrare Messe e fare dei suffragi ma, più di tutti, il carico di liberarlo dal purgatorio lo prese Elisabetta. Non mi ricordo cosa particolare sopra di questo, ma so bene che la forza della sua preghiera gli abbreviò di molto il purgatorio.

Ognuno può immaginare che disappunto portò nella famiglia una tale perdita di un simile capo di casa. La buona consorte era fuori di sé; le figlie erano trapassate, le due sorelle della suocera molto afflitte, tutta la famiglia era in lutto, in pianto e in pena per tante variazioni che sarebbero accadute. Il figlio era bene trapassato e afflitto perché oltre la perdita del padre, distingueva che le sorelle non erano d’accordo per mantenere lui con la consorte e le figlie e se la passava in silenzio e in stato di sottomissione. Continuarono qualche tempo a seguitare ad andare a pranzare come prima: il figlio, Elisabetta e le figlie; ma passati molti giorni di lutto e di pianto, le sorelle di Cristoforo vollero formare una divisione e togliersi ogni pensiero. Chiamarono Elisabetta e le dissero: Il vostro consorte, nostro fratello, ha sciupato il vasto patrimonio e ci ha depauperato51, sicché egli non entra in porzione con noi; vi restituiremo la vostra dote perché la possiate disporre per voi e le vostre figlie; al nostro fratello non intendiamo dare niente, avendo sprecato tanti soldi, si mantenga con la sua professione e mantenga la famiglia; faccia da capo di casa e metta giudizio.

A questa parlata un poco dura ma ragionevole, Elisabetta chinò il capo e disse: Vedrò di trovare una casa di poca pigione e mi ritirerò con le figlie; parlerò al consorte circa le loro disposizioni e si adatterà al sistema, ché io procurerò di adattarmi con le figlie; se vorrà venire alla mia abitazione, faremo al meglio che si potrà.

Fece Elisabetta la sua parte con il consorte che si alterò un poco, parendogli come un torto che riceveva dalle sorelle; ma siccome aveva sortito dalla natura un buon carattere e se non avesse avuto quella sirena che lo deviava, sarebbe stato un uomo impareggiabile; poco dopo si calmò e disse: Fate voi quello che credete; trovate la casa dove vi pare e io verrò dove volete; procurerò di aiutare quanto posso ma, sapete che guadagno poco, avendo clienti spiantati. Era un pretesto combinato con le cognate e il consorte. Elisabetta si mise in giro per trovare una casa sfitta verso il quartiere Monti; ne fece parola ad un galantuomo che aveva conosciuto fin dal 1809 in casa di una povera inferma, dove ambedue andavano per fare qualche carità. Con quest’occasione fece la conoscenza del signor Giovanni Cherubini, ancor vivente, il quale si è prestato tanto, come a suo luogo si dirà.

In quel principio era amicizia di convenienza ma in questa ed altre occasioni l’aiutò moltissimo; domandò il favore al suddetto, che abitava alla strada dei Serviti vicino a San Nicola in Arcione, e infatti trovò una piccola casa adatta alla fine della strada Rasella52.

Il sulodato andò a parlare al padrone della casa e fece fare la locazione a nome di Elisabetta per scansare ogni pericolo di qualche creditore del consorte che si fosse fatto avanti, essendosi ritirati quando videro che stava in subaffitto con scarsissimo mobilio, sprovveduti di tutto. Fece dunque Elisabetta il trasporto alla nuova casa del mobilio e di tutto quello che le fu assegnato dalle cognate in porzione come conto di dote e, in questa divisione le dettero parte della libreria acciò la vendesse per riunire la somma della dote. Di denari ne ebbe molto pochi, meno ancora di biancheria, poche posate in argento e uno o due orologi.

 

Elisabetta si contentò di tutto quello che le dettero. Il mese preciso non lo ricordo, mi pare alla fine dell’anno 1813 che Elisabetta, il consorte e le figlie si portarono ad abitare nella nuova casa. Combinato che ebbe il tutto, si dovettero licenziare dalla famiglia, Elisabetta ringraziò la suocera, le cognate e le zie sorelle della suocera per la lunga pazienza esercitata con lei e le figlie. Ma non si può spiegare il disgusto per il distacco che provò la buona suocera che vedeva così allontanarsi il figlio, la nuora e le nipoti. In assenza delle figlie se ne espresse che più volentieri sarebbe andata con la nuora che restare con le figlie anche se avesse dovuto partire, ma questo non lo poté eseguire per molti riguardi e così si distaccarono e si divisero.

 


 




51 Impoverito.



52 All’angolo di Via delle Quattro Fontane, dirimpetto allo storico Palazzo Barberini.






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