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Suor Maria Giuseppa Mora della SS. Trinità, figlia della Beata Elisabetta Canori Mora Vita della Beata Elisabetta Canori Mora IntraText CT - Lettura del testo |
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16 - Nuovo sistema che dette Elisabetta alla sua famiglia dopo la divisione dalla suocera e dalle cognate
Elisabetta andò con le figlie alla nuova casa e sistemò il tutto con molta proprietà. Domandò in grazia al consorte di avere una camera libera per sé e farne del letto grande due piccoli, ed il medesimo le disse: Siete voi la padrona, fate quello che volete. Così divise le camere: una per il consorte e con un tramezzo gli formò la cameretta con il letto per dormire, il resto della camera, essendo grande, gli serviva di studio per scrivere, per ricevere clienti e anche per i giovani che teneva sotto la dettatura per le scritture; una per sé e l’altra per le figlie appresso la sua. La cucina era grande e l’accomodò anche per pranzarvi. Elisabetta avendo dell’ingegno, con i credenzoni, i tramezzi e le tende componeva tanto bene le camerette e in questo modo raddoppiò la casa che compariva più grande e sufficiente al bisognevole. Nella casa vi erano molti comodi: il giardinetto con due camere molto comode, una bella loggia e la cantina, sicché niente mancava, con una pigione tenue di due scudi o al più 25 pavoli al mese, non ricordo bene. Disse dunque Elisabetta alle figlie: Vedete, qui niente vi manca; siete senza soggezione, potete fare quello che volete; vi consegno la casa acciò diate sesto, come vi aggrada. Prendete gli uccelletti come vi piacciono, il giardino sarà coltivato come gradirete e se vorrà vostro padre, alla loggia metterete i vasi con i fiori che vi andranno a genio. Se saprete profittare di questa santa libertà e sollievo che vi dà Iddio, farete una vita tranquilla. Ve lo dicevo che sareste arrivate a non avere chi vi misura i passi! io non voglio gravarvi di lavoro, ma vorrei che imparaste bene il ricamo. Le figlie furono contentissime di quanto propose la madre che procurò una brava e santa maestra che si portava in casa due o tre volte la settimana, e così sotto i suoi occhi impararono questa virtù. In questo modo occupò le figlie nel lavoro e nelle faccende domestiche, procurò anche qualche piccolo sollievo innocente, come mandarle a fare delle camminate con persone savie e dedite alla pietà. Non mancò di condurle a far visita alla nonna, sua suocera e alle cognate, facendo quegli atti di urbanità e sottomissione, benché ne riportava sempre qualche rimprovero. Ella tollerava tutto senza mostrarsi disgustata delle loro disapprovazioni, perché il tutto si raggirava intorno alla vita che menava di bizzoca e teneva le figlie come rinchiuse, e in questo modo mai si potevano allocare. Ella a queste parole interrotte di beffe, taceva senza scusarsi anche se con tutta ragione, poteva fare qualche rimprovero; la buona suocera pativa tanto nel vedere che le figlie non facevano una cordiale accoglienza ad Elisabetta. Avrebbe desiderato che le avessero domandato come se la passava, se le mancava qualche cosa e glielo avessero somministrato. Ma di questo mai si parlava, benché loro nuotassero nell’abbondanza di tutto, Elisabetta non domandò mai qualcosa e nemmeno fece mai conoscere che aveva bisogno per non dare motivo di inquietarsi. Siccome la suocera bene spesso andava a trovare Elisabetta per stare in compagnia della medesima, del figlio e delle nipoti, si tratteneva a pranzare con loro e verso sera se ne tornava a casa; diceva di fare le svignate. Elisabetta non le faceva distinguere mai la sua strettezza per non darle afflizione, perché non aveva in mano nemmeno un baiocco, e diceva: Non vi posso portare niente, ragazze mie, perché sto a parte in mani, nipoti mie datemi da lavorare, così vi compenso, diceva così ridendo per scherzo, ma ci soffriva molto desiderando farle parte del molto che aveva, ma ne era impedita. Così dunque passavano le cose nella piccola famiglia di Elisabetta. Procurò sempre che tutto fosse regolato in buon ordine: le ore che dovevano occuparsi nelle orazioni, le lezioni, le faccende domestiche e i lavori manuali. Il tutto era ben distribuito, non ritirandosi dall’operare anch’ella secondo il bisogno. In questa nuova situazione, per il suo spirito trovò altro pascolo e libertà. La mattina poteva stare in Chiesa più tempo, perché quando aveva disposto tutto, le figlie operavano e facevano quello che c’era da fare. Se poi il consorte sortiva di casa tardi, per non lasciare le figlie sole, tornava dalla Chiesa prima che il suddetto sortisse e così alternativamente andava combinando perché il tutto andasse in regola, avendo il comodo di avere vicine la Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, e la Chiesa delle Monache Sacramentarie53, e se le riusciva tornava nella mattina tardi o il giorno dopo il pranzo come poteva combinare. Le era di molto sollievo spirituale poter passare qualche ora in tutta libertà in camera. La notte godeva stare da sola, è vero che lasciava la porta aperta per osservare ciò che facevano le figlie nella loro camera e non potevano sortire da quella senza attraversare la sua; non avevano finestre sulla strada ma sopra la loro loggia e così stava tranquilla. Con questo sistema e tenore di vita se la passarono Elisabetta e le figlie con molta quiete con i piccoli sollievi di essere padrone di guidare le faccende domestiche e il lavoro, a loro piacimento e di ricrearsi nel piccolo giardino e coltivare i vasi di fiori nella loggia. Si trovavano veramente contente godendo un’inalterabile pace e così continuarono fino alla fine dell’anno 1814.
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53 Monache Cappuccine del Santissimo Sacramento a Monte Cavallo. (Cfr. La mia vita…op. cit., p. 242). |
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