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Suor Maria Giuseppa Mora della SS. Trinità, figlia della Beata Elisabetta Canori Mora
Vita della Beata Elisabetta Canori Mora

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  • INTORNO ALLA VITA DELLA SERVA DI DIO ELISABETTA CANORI MORA MORTA IN ROMA IL DÌ 5 FEBBRAIO 1825 – BREVI CENNI SCRITTI DALLA FIGLIA MEDESIMA, MARIA LUCINA MORA, OSSIA MARIA GIUSEPPA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ, MONACA FILIPPINA
    • LIBRO PRIMO
        • 17 - Elisabetta riceve un gravissimo disgusto dalle sue due figlie
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17 - Elisabetta riceve un gravissimo disgusto dalle sue due figlie

 

In questa situazione di tranquillità non mancarono alla buona Elisabetta molte sollecitudini perché in famiglia ci fosse il sostentamento necessario e tutto l’occorrente. Procurava con le sue prudenti maniere che il consorte somministrasse il bisognevole per poter presentare al Signore che soddisfaceva all’obbligo proprio, ma non era sufficiente. Il motivo si è già detto che non metteva tutto in casa, ma in ogni modo, un poco con il lavoro, il più con la preghiera, si può dire che miracolosamente mantenne la famiglia senza farle mancare il necessario di vitto e vestito. Ma le figlie ingrate cominciarono a desiderare il superfluo e volevano allocarsi e liberarsi della madre che sempre era assorta in Dio e stava quasi sempre in orazioni. I parenti facevano sempre atti di compassione, con tutte queste persuasive, dicendo: Come fate, povere ragazze, a stare sempre con una madre bizzoca, procuratevi un qualche collocamento che bene vi può riuscire, direi ancora attizzati dal demonio. Le due ragazze erano molto spiritose e di età tenera, non avendo la maggiore che 16 anni e la minore 14 nemmeno compìti; non saprei nemmeno descrivere come fecero amicizia con due militari graduati nell’impiego di capitani. Le due ragazze prendevano le ore che nessuno passava e ci discorrevano dalla finestra e dalla loggia; la strada in quei tempi era tanto isolata come un cortile e, con il mezzo di biglietti, in pochi giorni avevano stabilito di fuggire e fare il matrimonio di nascosto. Il padre si era avveduto che le figlie erano un poco divagate e ne avvisò Elisabetta. Procurò la buona madre di stare in guardia, faceva ancora delle esortazioni che se il Signore le voleva allocate al secolo, non sarebbero mancati i mezzi, ma intanto, essendo di poca età, pregassero il Signore acciò potessero conoscere la Sua santissima volontà. Nonostante, procurò di stare in osservazione e quando Elisabetta andava in Chiesa le conduceva seco o le chiudeva nella loro camera. Non dava più libertà di avere la casa in mano come faceva prima che chiudeva la sola porta di casa, acciò le figlie non potessero aprirericevere alcuno se non c’era in casa la madre. Ma con tutte queste raddoppiate cautele, riuscirono ad accordare la fuga in una notte, se non sbaglio, nel gennaio 1815.

Idearono di scavalcare il muro della finestra della loro camera che corrispondeva sopra la loggia e poi dalla porta del giardino, così avevano proposto la fuga, e bene sarebbe riuscita essendo militari esperti nel fare in modo che alcuno si avvedesse dell’attentato.

Ma il pietoso Signore non permise che queste due incaute restassero preda di tanta malvagità e in un attentato così enorme. Il Signore scoprì in spirito ad Elisabetta il concordato delle figlie e con questa intelligenza tutta la notte stette sempre in guardia e cacciò quegli sparvieri che erano andati a rapire le sue colombe. Con modo mirabile li fece desistere dal disegno di entrare nel suo giardino e disviò in un momento questa trattativa. La mattina non mancò la buona Elisabetta di fare una forte correzione alle figlie, ma con una mansuetudine inalterabile e con grande sentimento di dolore ché tanto avevano offeso Iddio, facendo conoscere che si erano esposte di rovinarsi in questo mondo per tutta la vita, con un simile disdoro54 della loro reputazione e il gran pericolo di perdere l’anima se si fossero trovate in mezzo al secolo con un simile capriccio. Cosa potevano aspettarsi che il Signore, irritato da un simile attentato, non le abbandonasse per sempre? Che vi fa mancare per Sua sola misericordia, di che vi potete gravare? Volete dunque andare dietro le passioni mondane? E simili sentimenti accompagnati da una fortezza d’animo per scuoterle da quella cattiva maniera di procedere.

Le fece riconvenire55 anche dal padre perché le servisse di remora56 a non ricadere. Fu tanto grande il dolore che provò Elisabetta per il disgusto recato al Signore dalle figlie che fu sorpresa l’istesso giorno da un deliquio57 mortale. Le figlie si sbigottirono e il consorte che era in casa si mise in gran pena. Chiamò il medico e le fece levare subito il sangue e così a poco a poco rinvenne e si sollevò alquanto.

Con questa occasione il padre corresse maggiormente con fortezza le figlie e le obbligò a domandare perdono alla madre, promettendole di non ricadere mai più in simili ragazzate e a non darle mai più tali disgusti, facendole riflettere quanto le dovevano per tante cure, premure e stenti e che una simile madre non si trovava al mondo ed egli era indegno di esserle consorte.

Le figlie si trovarono smarrite ma convinte e persuase anche di un simile parlare del padre. Il giorno, dopo che Elisabetta poté alzarsi, se non sbaglio andò in Chiesa come al solito per fare la Santa Comunione. Tornata a casa, le figlie le si fecero avanti tutte mortificate e si misero in ginocchio per domandarle perdono. La buona Elisabetta disse che lo domandassero di cuore al Signore ché lo avevano disgustato tanto e che queste erano le sue pene, non per se stessa, meritando qualunque disgusto. Le fece animo e promettere al Signore di non ricadere più e di non dare ascolto alle tentazioni. La maggiore rispose: Sì, è vero, ci siamo esposte ad un gran male, ma io desidero allocarmi58; lei mamma mia, vorrebbe che ci facessimo monache, io non

 

me la sento. Elisabetta senza punto alterarsi, rispose: Figlia, levatevi queste idee, io non desidero altro che quello che vuole Iddio, ma aspettate che vi mandi un soggetto adatto al vostro stato per vivere in grazia di Dio, e questo non ci può essere con i capricci. Così procurò di persuaderla e toglierle l’idea concepita che la madre voleva che si facessero monache, mentre la buona Elisabetta non desiderava altro che si eseguisse in tutto il divino beneplacito. Sembra doversi tacere questa seconda parte, ma dovendo il tutto narrare con quella ingenuità che mi sono obbligata fin dal principio, proseguo.

La figlia minore, siccome amava teneramente la madre, era trapassata di averle recato tanto disgusto e nel domandarle perdono le fece la promessa che a qualunque costo mai più si sarebbe lasciata sopraffare da simili trattati capricciosi e se il Signore l’aveva destinata di accasarsi voleva che venisse dalle mani materne e non ricercato da sé. Fece questa protesta con tutta l’intenzione dell’animo che poté, con l’aiuto di Dio, riuscire vittoriosa da molte occasioni che le si presentarono nel decorso del tempo.

Elisabetta tacque riguardo alla protesta diversa delle figlie, ma proseguì a farle rientrare nei propri doveri e a riconciliarsi con Dio con il mezzo di una buona confessione. Dimostrò il torto che avevano di eseguire le tracce del figliol prodigo, mentre nella loro casa niente mancava, giacché godevano la libertà di distribuirsi la giornata innocentemente e, se non potevano fare e disfare, non mancava il necessario. Benché il padre metteva poco in casa, fece conoscere come la misericordia di Dio suppliva: Vedete, senza domandare niente, senza vendereimpegnare mai alcuno oggetto, in casa non manca niente. Chi è che mette nel cuore delle persone i nostri bisogni, se non Iddio? Mentre lo vedete che io mai esterno le proprie indigenze e di più alle volte non vi accorgete che tanti generi crescono e quello che basterebbe appena per pochi giorni, questi si aumentano anche per dare qualche elemosina; dunque ringraziate Iddio, così provvido verso di voi benché così ingrate, e vi prometto, se sarete buone e vi porterete bene con Dio che di qui a qualche tempo vi troverete in stato di sfarzo in un modo mirabile, e lo vedrete. Così si pacificarono e si sottomisero al volere materno praticando le devozioni e le cure domestiche come facevano prima. Così la povera Elisabetta sopporta le molestie interne ed esterne, essendo sempre come Maddalena riguardo allo spirito e Marta nelle cure domestiche in tutte le occorrenze, sempre pronta a disimpegnare il suo dovere tanto con il consorte, quanto con le figlie e tutti i parenti che volevano dominare impunemente, disapprovando il suo procedere senza peraltro mai soccorrerla.

Le visite continue della suocera erano le uniche che non le davano molestia, non poteva darle sollievo perché non poteva, ma nemmeno aggravio come gli altri che non facevano altro nelle loro visite che farsi beffe e criticare il suo tenore di vita. Il tutto venne sofferto da Elisabetta con magnanima generosità e pazienza. In queste dure circostanze aveva l’unico sollievo di quel buon amico del signor Giovanni Cherubini che, di cuore come un fratello, si prestava unitamente alla sua consorte, santa donna di costumi angelici. Il medesimo le sistemò vari interessi, le fece vendere la libreria del suocero che le era toccata in porzione e disbrigò molti affari con un’amorevolezza e carità inarrivabile, continuando questa carità instancabile, fin dopo la morte di Elisabetta, accettando il carico di esecutore testamentario fintanto che non avesse collocate le figlie, come puntualmente eseguì con una cordiale premura come un padre, volendo con tutta esattezza soddisfare alla richiesta di Elisabetta che tanto stimava, come in effetti soddisfece soprabbondantemente e amorevolmente.


 




54 Disonore.



55 Rimproverare.



56 Freno.



57 Svenimento.



58 Accasarmi.






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