Ecco come accadde il prodigio singolare operato
dalla Santa Immagine di Gesù Nazareno. Non avevano terminato di scrostare il
muro della camera che con sorpresa di tutti l’inferma sentì come rinvigorirsi e
si trovò in forze da potersi alzare per vedere il lavoro; volle ogni giorno essere
lei la direttrice degli artisti. A farla breve, terminata che fu la camera, si
trovò perfettamente guarita. Allora disse: Mamma
mia, non è per me la camera ma è per fare
la cappella a Gesù Nazareno. Io
gliela cedo di cuore giacché mi ha risanata interamente, senza rimedi che avevo
lasciato ed ero abbandonata perfino dai medici nella mia cronicità, non
essendoci nell’arte più alcun rimedio da tentare. Il padrone mi ha guarita e
voglio che si prenda la camera ben adorata, per Sua residenza. Il mio letto lo
situeremo accanto a quello di mia sorella, tanto ci cape. Voglio togliere a lei
la soggezione e l’impiccio dalla sua camera, non posso attaccare alcun male a
mia sorella, essendo sana e perfettamente guarita.
E così fu eseguito quanto aveva determinato questa
buona figliola risanata. A questo così inaspettato prodigio tutti resero
affettuose grazie a Gesù Nazareno, che operava tanti prodigi. Questa Santa
Immagine aveva già molti ornamenti nell’altarino che Elisabetta aveva formato
nella Sua camera, ma con questa occasione la suddetta fece fare un altare
adatto per celebrarvi la Santa Messa con il baldacchino di sopra, i gradini per
i candelieri e in mezzo una gradinata che sosteneva un bel tempietto, in mezzo del
quale vi era una colonnetta che serviva da base alla sagra immagine di Gesù
Nazareno. Furono tanti i doni gratuiti e spontanei che in breve tempo fu
formata una cappella completa di quasi tutti gli arredi sagri, senza domandare
niente ad alcuno. Quel soggetto che aveva fatto parare la camera per l’inferma,
avendo veduto un tale prodigio approvò molto che quella camera si convertisse
in cappella e si portava spesso per vedere cosa mancava per renderla più
adorna. Un giorno mandò la Via Crucis
di una stampa grande di buon autore, molto espressiva con le sue cornici
lustre. Elisabetta per quadro dell’altare esponeva per l’avvento il Santo
Presepio e lo lasciava fino alla purificazione di Maria Santissima. Il mese di
marzo vi esponeva un quadro di San Giuseppe, il resto dell’anno vi teneva un
quadro di Maria Santissima Addolorata. Questa cappella restò ultimata in giugno
dell’istesso anno, con molta consolazione di Elisabetta, delle figlie e di
tutti i devoti di Gesù Nazareno, cadendo in luglio l’anniversario dell’arrivo
della suddetta santa immagine nella casa di Elisabetta. La medesima pensò di
fargli una piccola festa nella sua nuova cappella. Pregò un prelato se voleva
favorirla con ottenerle dal Santo Padre Pio VII72 se si compiaceva di
accordarle per quel giorno cinque Messe. Per grazia il Santo Padre in voce
benignamente gliele accordò. Elisabetta con questi cinque sacrifici intese
celebrare nel miglior modo la festa e l’anniversario del suo Gesù Nazareno. Con
quale devozione e gratitudine assistette a questi santi sacrifici è impossibile
spiegarlo, mentre il suo spirito era sempre unito con il suo Signore.
Anche nel giorno 23 ottobre faceva la festa, ma
senza far celebrare la Messa fintanto che in seguito, per le indisposizioni di
salute della suddetta, ottenne il permesso con i riscritti formali di
segreteria del vicariato e con la visita di quei sacerdoti addetti per vedere
se il luogo era decente e se il tutto era in buona forma per potervi celebrare
la Santa Messa, come a suo luogo si dirà. Non avendo più fatta menzione del
consorte di Elisabetta dall’arrivo della sagra immagine di Gesù Nazareno, mi
sembra necessario far conoscere che per effetto del suo buon carattere
approvava tutto quello che faceva la consorte sia delle disposizioni di famiglia,
sia delle devozioni che praticava. Fu molto contento che la figlia volle cedere
la camera per erigere la cappella a Gesù Nazareno, in una parola era contento
di tutto e ogni cosa gli andava bene. Si prestava per quel poco, come si è
detto, perché aveva quel gravame sopra indicato, che doveva servire per croce
alla consorte e alle figlie. Ma il Signore nella Sua venuta supplì con darle i
mezzi acciò non le mancasse il necessario e così continuarono con quiete e pace
fino al principio dell’anno 1819.
Nell’entrare nel gennaio, non saprei precisare il
giorno, Elisabetta chiamò la sua figlia minore e le disse: Riflettete alle molte grazie che vi ha compartito il Signore, in modo
speciale alla vocazione che vi aveva donato fin da fanciulla, ma da voi
discacciata con quell’amore profano aderito in quell’occasione del vostro
traviamento. Buon per voi che prometteste a Iddio e a me di non farvi più
sedurre da qualunque cimento in cui più volte vi siete trovata. Vedete e
considerate, vi siete riuscita con l’aiuto divino e la vocazione che il Signore
vi ha ridonato perché vuole che assistiate me, di più vi costituisce mia
segretaria. Se fino ad ora mi sono confidata di qualche cosa, adesso, da qui in
avanti voi sarete a parte di tutto ciò che Iddio vuole da me. Sappiate dunque
che io avrò da sostenere una forte battaglia con la potestà delle tenebre. Non
vi sgomentate, dal mondo sarò trattata da pazza e da stolida; non vi prendete
alcuna pena, comparirà come una malattia stravagante, ma io vi prevengo come
dovete regolarvi, prima di proseguire. Vi confiderò che dalla notte del Santo
Natale, dopo aver goduto, per mezzo di particolare unione, i tratti più amorosi
dell’infinita carità di Dio, che sotto l’immagine di vago bambinello,
unitamente alla Sua santissima Madre e al Suo padre putativo San Giuseppe, mi apparve. A questa vista sì ammirabile di
questi tre personaggi la povera anima mia si riempì di santi affetti. Il
rispetto, la stima, la venerazione, l’amore, il timore, l’umiltà mi
profondavano nel mio proprio nulla e non ardivo rimirare il bel sole di
giustizia che in braccio della santissima Madre, volgeva verso di me i suoi
sguardi amorosi, e facendomi coraggio di approssimarmi a lui. Ma la povera
anima mia si disfaceva in lagrime di dolore per avere offeso un Dio tanto
buono.
Oh
quanto mai mi dispiaceva di averlo disgustato! Con quante lagrime detestavo i
miei peccati, non so spiegarlo! Ma unito al dolore sentivo un amore tanto
grande che mi faceva piangere di gratitudine e di tenerezza, vedendomi tanto
amata e tanto beneficata. Mi riconoscevo immeritevole di ogni bene, ma intanto
sentivo un grande desiderio di amare il mio caro Gesù, mi offrivo a lui senza
intervallo, né riserva alcuna, desiderosa di patire per amor suo qualunque gran
male.
Il
santo Bambino si compiacque della mia povera offerta e mi degnò dei suoi
purissimi abbracciamenti. Oh qual contento! Oh qual dolcezza provò il mio
cuore! non è spiegabile. Il mio spirito fu sopraffatto da una soavità tanto
grande, che perdetti ogni idea non solo sensibile, ma ancora intellettuale.
Dopo aver goduto questo gran bene, il Signore, per mezzo di intelligenza, mi
fece intendere e mi mostrò la sua divina giustizia sdegnata contro di noi
poveri peccatori, e il tremendo castigo che vuole mandare sopra la terra per i
gravi peccati che si commettono. Io credetti di morire
dallo spavento e incessantemente mi raccomandavo offrendo i meriti infiniti di
Gesù Cristo all’eterno Divin Padre. Mi
pareva di ottenere la grazia di dilazionare il tempo per non vedere tante anime
piombare all’inferno. Io, benché la più miserabile di tutte le creature che
abitano la terra per essere la più indegna peccatrice, ciò nonostante mi offrii
di patire ogni travaglio per la Gloria di Dio e per il vantaggio del mio
prossimo, sentendo nel mio cuore un’ardente fiamma di carità che tutta mi
consumava di santo amore. Mi offrii qual vittima di riconciliazione, unendomi
agli infiniti meriti di Gesù Cristo;
gradì molto il Signore per Sua bontà e misericordia, la mia intrapresa offerta
e mi dette intelligenza di intendere e conoscere ciò che mi sovrastava, che mi
fossi preparata a sostenere una forte
battaglia con i miei spietati nemici. Mi fece intendere che la sua santa grazia
avrebbe prevenuto il mio patire, e lui sarebbe stato sempre con me, e mi
avrebbe assistito con la sua infinita potenza, con la sua infinita sapienza,
con la sua infinita bontà.
A
questa amorosa esibizione la povera anima mia tutta a Iddio si consacrò e piena
di gratitudine, adorò i suoi divini decreti e si unì alla sua divina volontà; il
mio povero cuore si preparò a patire ogni sorta di pene, per piacere al mio
caro Gesù, e protestandomi non solo in quel
momento ma ogni giorno di tener preparato il mio cuore a patire quanto a lui
piacesse, pregandolo del suo divino aiuto.
Mi
dette chiarissima cognizione di quanto avevo da patire per glorificare l’eterno
suo divin Padre, e così placare la sua divina
inesorabile giustizia che era sdegnata con tutto il mondo. Mi dette ad un
tratto a vedere tutti i tormenti che mi erano preparati dal nemico infernale e
come per sua permissione dovevo patire tutti quei gravi tormenti, senza alcun
conforto.
A questa vista, sì terribile e dolorosa, si
atterrì il mio povero spirito, e, pieno di spavento, restò sopraffatto dal
terrore di tanti e sì terribili supplizi. Piena di spavento e di timore, pregavo
il mio buon Gesù: «Mio
Gesù, sposo mio, unico conforto dell’anima mia, aiutami per carità! vieni in
soccorso della tua povera serva, non è possibile che io sostenga sì fiera
battaglia, soccorrimi per pietà!»
Ecco
che già mi vedevo circondata da ogni sorta di patimenti, mi vedevo in mezzo ad
una voragine di supplizi, di angustie, di desolazioni, di affanni, quando di
nuovo mi apparve il mio Gesù, circondato di splendidissima luce, che al momento
rischiarò le folte tenebre in cui mi trovavo, e piena di rispetto e riverenza,
mi profondai nel mio nulla, e con la fronte per terra, mi umiliai e mi
rassegnai nelle sue santissime mani, pronta a soffrire tutto.
Dopo avere narrato Elisabetta queste intelligenze
di spirito alla figlia, perché fosse prevenuta del futuro e potesse regolare e
disbrigare le dicerie che sarebbero insorte in questa malattia straordinaria,
le soggiunse: Non solo per questi giorni
che non starò nei propri sensi e avrò questa
come specie di malattia, intendo di darvi norma cosa dovete fare, riguardo ai
parenti professori e amici, per tutto le dette regolamento e le disse: Non solo per questa volta, ma anche per il
futuro, di qui a non molto sopravverrà un’altra infermità di eguale causa,
ma le precisò le minime circostanze anche di questa seconda e tutte le dicerie
che sarebbero insorte dai parenti.
Diceva queste cose con una disinvoltura e
candidezza come non avesse parlato di se stessa: La terza sarà una malattia leggera e a tutti sembrerà di niun pericolo,
quella sarà l’ultima della mia vita,
spiegandole le più minute circostanze, parlando del futuro, come se già fosse
passato, come quando una persona rammenta i travagli che ha passato.
Elisabetta vedendo che la figlia si conturbava e
si affliggeva restando sospesa, cominciò ad esclamare: Non sia mai che questi travagli vengano a toglierci la tranquillità in
cui ci troviamo, croci non ne mancano, al Signore gli basterà; non è possibile
che noi ci abbiamo da trovare prive della Sua assistenza e indirizzo. Se ci
troverà prive di sentimenti, come faremo noi?. La buona madre vedendola così sgomentata principiò a dare in
celie e quasi scherzando proseguì l’argomento, soggiungendo: Vi metto un nome, ma riderete, vi chiamerò Ortichella - significandole il
senso di questo nome - di voi Iddio si
servirà per piantarmi e poi ne
seguirà che come l’ortica nasce, non solo nella terra, si dilata e si trova
perfino nei tetti, così farete voi. E senza spiegare di più su questo
proposito, la mandò a lavorare o fare qualche altra faccenda e così terminò per
quel giorno, e con indifferenza ne passarono vari altri. Ma quando mancavano
due o tre giorni a questa, dirò malattia di Elisabetta, chiamò tutte e due le
figlie e le prevenne dell’infermità che era per sorprenderla. Le assicurò che
non temessero e le pregò di assisterla e di non farla toccare da nessuno, e
stessero pur quiete che sarebbe stata docile come una fanciulla nelle loro
mani, e che il Signore le avrebbe dato la forza per reggere il giorno e la
notte. A questo parlare le figlie si misero a piangere e le promisero che
l’avrebbero assistita sempre non solo in quella malattia, ma in qualunque
altra: Speriamo - dissero - non accada né questa volta né mai, ma le promettiamo che se lei morisse prima di noi siamo pronte a fare il
sagrificio di vestirla dopo morta,
come fecero quando seguì e a suo luogo si narrerà.
Chi può ridire in che angustia si trovarono queste
figliole! Ma senza parlare con alcuno stavano in silenzio, né la minore si fece
mai conoscere dalla sorella che ne sapeva di più.
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