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Suor Maria Giuseppa Mora della SS. Trinità, figlia della Beata Elisabetta Canori Mora
Vita della Beata Elisabetta Canori Mora

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  • INTORNO ALLA VITA DELLA SERVA DI DIO ELISABETTA CANORI MORA MORTA IN ROMA IL DÌ 5 FEBBRAIO 1825 – BREVI CENNI SCRITTI DALLA FIGLIA MEDESIMA, MARIA LUCINA MORA, OSSIA MARIA GIUSEPPA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ, MONACA FILIPPINA
    • LIBRO PRIMO
        • 23 - Elisabetta si porta in Albano per cambiare aria - Conduce seco le sue due figlie
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23 - Elisabetta si porta in Albano per cambiare aria - Conduce seco le sue due figlie

 

Elisabetta si trovava così infermiccia per molte cause, ma la principale era perché stava in un’estasi continua e il Signore la chiamava a molte comunicazioni e per conseguenza compariva cagionevole e debole all’esterno e quasi come insensibile alle cose sensibili. Tutti credevano per effetto di debolezza per cagione della grave infermità sofferta, come si direbbe, ed ella era contentissima che il tutto venisse celato con questa interpretazione di poco bene.

Quel soggetto, altre volte nominato, spesso si portava a visitarla e vedendo che non si ristabiliva in salute, le fece il progetto di mandarla a cambiare aria.

La buona Elisabetta non si oppose alla caritativa esibizione, né volle manifestare che il cambiamento d’aria per lei era inutile, ma gli fece solo conoscere che doveva domandare molti permessi e ne farebbe la richiesta, come fece, tanto al suo confessore, quanto al consorte e agli altri parenti, i quali convennero tutti con molto piacere sperando con questo mezzo di vederla ristabilita in salute.

A questa comune approvazione si rassegnò e prontamente si dispose.

Elisabetta convenne con il consorte che era bene chiudere la casa della loro abitazione, pregò la suocera e le cognate di ricevere in casa il consorte fino al suo ritorno in Roma; volle la licenza e la benedizione della madre, la quale si portò in persona a visitare la figlia e le disse che era contentissima della partenza, sperando di vederla perfettamente ristabilita al suo ritorno, e così il tutto si combinò. Si stabilì il giorno, che seguì il 21 giugno 1819 ed Elisabetta partì da Roma con le sue due figlie.

Il luogo della loro dimora in Albano75 fu la foresteria delle monache Oblate di Gesù e Maria.

Si dette la circostanza che in quel monastero stavano diverse monache del santissimo Bambino di Roma, fra le quali una cugina di Elisabetta, per cambiare aria.

Le buone religiose si fecero incontro a riceverle e quella prima giornata la passarono insieme. Ma pochi giorni dopo la superiora del santissimo Bambino si portò in Albano a riprendersi tre o quattro religiose che si erano ristabilite e ne condusse un’altra che aveva sofferto una forte malattia. Trovando Elisabetta in quel paese, la pregò se voleva avere pensiero di quella sua monaca, senza lasciarle un’altra per accompagnatrice, avendo questa bisogno di fare moto. Le disse: Io la consegno a lei e torno a Roma con queste altre senza pensiero, la mandi a spasso con le sue figlie e faccia quello che crede; la notte starà nel monastero, ma ho già parlato alla superiora che il giorno le accordi di stare con lei o con le sue figlie, come vuole.

La circostanza di questa buona monaca fu un sollievo per Elisabetta perché in quel paese non conosceva nessuno e non avrebbe avuto alcuno con cui mandare le figlie a camminare e con questo mezzo stava quietissima di farle andare. Trattandosi che erano ragazze, non avrebbero potuto stare in una situazione di due sole camerette e un’altra di passo per pranzare; non era possibile potessero stare così rinchiuse e con questo vantaggio Elisabetta poté godere della sua solitudine consegnando le due figlie la mattina a Luisa Diamilla, degna religiosa.

Il dopo pranzo, tutte e tre andavano a fare una passeggiata e dopo a visitare qualche Chiesa, e se c’era qualche funzione o novena con la benedizione del Venerabile, vi andavano. Se il tempo era piovoso, la religiosa andava a trattenersi alla foresteria con le suddette a lavorare o a leggere, e qualche giorno invece le due giovane andavano a trattenersi con la suddetta monaca nel monastero, parimenti a lavorare, con tanta soddisfazione di ambo le parti.

Il metodo che tenne Elisabetta durante la sua villeggiatura fu di levarsi per tempo e trattenersi in orazioni; dopo si portava alla Chiesa delle suddette monache, ascoltava la Santa Messa e si comunicava. Poteva trattenersi in Chiesa quanto le pareva, perché le figlie andavano con la già mentovata monaca. Il pranzo si ordinava dalla sera alla fattora delle monache, sicché con quiete se ne stava in un angolo di quella Chiesa due o tre ore, poi se ne tornava alla foresteria e si chiudeva nella sua camera, benché le figlie con la monaca qualche giorno si trattenevano a lavorare nell’altra camera o in quella di passo dove pranzavano. Sicché non alteravano niente alla solitudine di Elisabetta e così poteva proseguire le sue orazioni, o per meglio dire, le sue continue contemplazioni e unioni con Dio. A mezzogiorno si andava in tavola, ma il suo cibo non era che una minestra con l’acqua e due uova; mangiava una sola volta ogni 24 ore. La novena dell’Assunzione di Maria santissima e quella di Gesù Nazareno la fece tutta di magro, si può dire a pane e acqua; così se la passò per tutto il tempo che dimorò in Albano.

Si può dire che non vide affatto quel paese, benché ci dimorò più di quattro mesi. Con tutto che Elisabetta stava così ritirata e nascosta in quel cantone di abitazione, che non aveva uscita, ma era come un cortile, fu molto il bene che fece a tanti poveri infermi.

 Si servì del cerotto e dell’unguento per le scottature, ma il più lo fece la prodigiosa acqua di Gesù Nazareno perché erano si può dire mali incurabili, cattivi tumori e piaghe incancrenite, che mettevano spavento al solo vederli e in questo modo restarono guarite più di sessanta persone, così perfettamente che poterono subito rimettersi al loro lavoro, essendo tutte persone di campagna.

Tutti ringraziavano il Signore che aveva mandato una simile benefattrice. Nel tempo della novena di Maria santissima assunta in cielo, Elisabetta andò a farla nella Chiesa di San Pietro76, poco distante dalla foresteria delle monache dove abitava.

La vigilia della gloriosa Assunzione si tratteneva in orazione.

Ecco come lo raccontò in segreto alla sua figlia minore la sera, prima di andare a riposare, stando la medesima nella camera con la madre, per lasciare alla figlia maggiore una camera libera, come in grazia aveva domandato alla madre ed Elisabetta, non curando il suo incomodo, procurava di compiacerla nelle richieste innocenti per tenerla contenta.

Le disse dunque: Stavo nella Chiesa di San Pietro con molto raccoglimento, quando ad un tratto il mio spirito è stato sopito da una profonda estasi che mi ha privato affatto dei sensi. Mi è apparso in questo tempo il glorioso apostolo San Pietro e mi ha comandato di impegnarmi per il risarcimento di questa sua Chiesa, perché non più Chiesa ma fienile può chiamarsi. Mi ha detto ancora che farei un’opera molto gradita al Signore di far risarcire la Sua Chiesa, e che avessi a cuore la gloria di Dio e il suo culto.

Io mi rivolsi al Santo Apostolo con sommo rispetto e con umiltà: E come volete, o santo glorioso, che mi impegni di fare questa opera? Da chi devo andare? Io niuno conosco che possa fare quanto voi mi comandate.

Piena di smarrimento tornavo a ripetere: Mi si rende impossibile poter eseguire quanto mi comandate. Dispensatemi, per carità!.

Ho dato in dirotto pianto, mi conoscevo affatto inabile a fare questa opera; ma il santo apostolo mi ha confortata e animata, assicurandomi che appena avessi accennato questo sentimento di restaurare la suddetta Chiesa, subito avrei trovato persona che si sarebbe esibita di sborsare il denaro occorrente per risarcirla, e avessi prestato fede alle sue parole.

A questo racconto la figlia le disse: mamma mia non si perda d’animo, vedrà che le riuscirà bene, e difatti così seguì.

Mandò subito a chiamare monsignor vicario ed un canonico, e comunicò i suoi sentimenti di non essere decente di vedere una Chiesa come un fienile.

Li pregò a dare mano a fare quest’opera, e restaurarla. I suddetti pieni di contento esultarono nel Signore, dicendole che con somma loro pena si vedevano obbligati dalla sagra visita, di sospendere di demolire la suddetta Chiesa, per non essere più luogo decente per fare le sagre funzioni, perché del tutto diroccata e quasi rovinata; ammirando l’infinita provvidenza di Dio, le promisero di prestarsi per quanto potevano.

Intanto una persona molto pia sentendo il desiderio di Elisabetta che voleva far risarcire la suddetta Chiesa, somministrò subito il denaro come il Santo Apostolo le aveva promesso.

Con tutta premura e sollecitudine furono chiamati gli artisti e si mise mano all’opera con somma consolazione di tutti, segnatamente delle donne albanesi per essere una Chiesa di loro devozione e molto comoda, e per conseguenza molto frequentata, di maniera che non si poté chiudere quando si riattava; benché ci lavoravano gli artisti, in una cappella fecero le loro solite novene, concorrendo secondo il solito a folla il popolo al solo tocco della campana della suddetta Chiesa di San Pietro. L’opera si compì il giorno 6 novembre 1819, con applauso e gradimento straordinario, di tutta la città di Albano.

In tutto il tempo che Elisabetta dimorò in Albano, il Padre Ferdinando, confessore di Elisabetta e delle figlie, qual degnissimo soggetto, si prese il pensiero di ivi condursi, ogni quindici giorni, e così non ebbero occasione di variare confessore.

Nel fine del settembre essendosi ristabilita la suddetta religiosa, la superiora tornò a riprenderla, ma siccome si erano tanto affezionate, fu un gran distacco doversi dividere.

La buona monaca pensò di pregare una santa zitella che conosceva e si era portata in Albano per cambiare aria, di sostituirla in suo supplemento, per portare le due giovani a camminare.

Disse ad Elisabetta la buona monaca: Le consegni pure le sue figlie come le dava a me, essendo una giovane di ottimi costumi e di famiglia specchiatissima.

In questo metodo terminò la villeggiatura e la dimora in Albano di Elisabetta e delle figlie.

 

 

 


 




75 Albano Laziale sorge alle pendici dei Colli Albani a circa 25 Km da Roma, lungo il percorso della Via Appia. È luogo di soggiorno di antichissima origine (Castra Albana), con celebri opere d’arte: Chiese (Duomo, Chiesa di S. Paolo, Chiesa di S. Maria della Rotonda, Chiesa di S. Maria della Stella, Chiesa di S. Pietro), monumenti, ville sontuose, catacombe cristiane del IV secolo, un castello, ecc. Dal V secolo è sede vescovile. (Cfr. Museo Italia, op. cit.).

 



76 Importante monumento medievale, è situata al centro dell’odierna cittadina.






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