Elisabetta si trovava così infermiccia per molte
cause, ma la principale era perché stava in un’estasi continua e il Signore la
chiamava a molte comunicazioni e per conseguenza compariva cagionevole e debole
all’esterno e quasi come insensibile alle cose sensibili. Tutti credevano per
effetto di debolezza per cagione della grave infermità sofferta, come si
direbbe, ed ella era contentissima che il tutto venisse celato con questa
interpretazione di poco bene.
Quel soggetto, altre volte nominato, spesso si
portava a visitarla e vedendo che non si ristabiliva in salute, le fece il
progetto di mandarla a cambiare aria.
La buona Elisabetta non si oppose alla caritativa
esibizione, né volle manifestare che il cambiamento d’aria per lei era inutile,
ma gli fece solo conoscere che doveva domandare molti permessi e ne farebbe la
richiesta, come fece, tanto al suo confessore, quanto al consorte e agli altri
parenti, i quali convennero tutti con molto piacere sperando con questo mezzo
di vederla ristabilita in salute.
A questa comune approvazione si rassegnò e
prontamente si dispose.
Elisabetta convenne con il consorte che era bene
chiudere la casa della loro abitazione, pregò la suocera e le cognate di ricevere
in casa il consorte fino al suo ritorno in Roma; volle la licenza e la
benedizione della madre, la quale si portò in persona a visitare la figlia e le
disse che era contentissima della partenza, sperando di vederla perfettamente
ristabilita al suo ritorno, e così il tutto si combinò. Si stabilì il giorno,
che seguì il 21 giugno 1819 ed Elisabetta partì da Roma con le sue due figlie.
Il luogo della loro dimora in Albano75 fu
la foresteria delle monache Oblate di Gesù e Maria.
Si dette la circostanza che in quel monastero
stavano diverse monache del santissimo Bambino di Roma, fra le quali una cugina
di Elisabetta, per cambiare aria.
Le buone religiose si fecero incontro a riceverle
e quella prima giornata la passarono insieme. Ma pochi giorni dopo la superiora
del santissimo Bambino si portò in Albano a riprendersi tre o quattro religiose
che si erano ristabilite e ne condusse un’altra che aveva sofferto una forte
malattia. Trovando Elisabetta in quel paese, la pregò se voleva avere pensiero
di quella sua monaca, senza lasciarle un’altra per accompagnatrice, avendo
questa bisogno di fare moto. Le disse: Io
la consegno a lei e torno a Roma con queste altre senza pensiero, la mandi a
spasso con le sue figlie e faccia quello che crede; la notte starà nel
monastero, ma ho già parlato alla superiora che il giorno le accordi di stare
con lei o con le sue figlie, come vuole.
La circostanza di questa buona monaca fu un
sollievo per Elisabetta perché in quel paese non conosceva nessuno e non
avrebbe avuto alcuno con cui mandare le figlie a camminare e con questo mezzo
stava quietissima di farle andare. Trattandosi che erano ragazze, non avrebbero
potuto stare in una situazione di due sole camerette e un’altra di passo per
pranzare; non era possibile potessero stare così rinchiuse e con questo
vantaggio Elisabetta poté godere della sua solitudine consegnando le due figlie
la mattina a Luisa Diamilla, degna religiosa.
Il dopo pranzo, tutte e tre andavano a fare una
passeggiata e dopo a visitare qualche Chiesa, e se c’era qualche funzione o
novena con la benedizione del Venerabile, vi andavano. Se il tempo era piovoso,
la religiosa andava a trattenersi alla foresteria con le suddette a lavorare o
a leggere, e qualche giorno invece le due giovane andavano a trattenersi con la
suddetta monaca nel monastero, parimenti a lavorare, con tanta soddisfazione di
ambo le parti.
Il metodo che tenne Elisabetta durante la sua
villeggiatura fu di levarsi per tempo e trattenersi in orazioni; dopo si
portava alla Chiesa delle suddette monache, ascoltava la Santa Messa e si
comunicava. Poteva trattenersi in Chiesa quanto le pareva, perché le figlie
andavano con la già mentovata monaca. Il pranzo si ordinava dalla sera alla
fattora delle monache, sicché con quiete se ne stava in un angolo di quella
Chiesa due o tre ore, poi se ne tornava alla foresteria e si chiudeva nella sua
camera, benché le figlie con la monaca qualche giorno si trattenevano a
lavorare nell’altra camera o in quella di passo dove pranzavano. Sicché non
alteravano niente alla solitudine di Elisabetta e così poteva proseguire le sue
orazioni, o per meglio dire, le sue continue contemplazioni e unioni con Dio. A
mezzogiorno si andava in tavola, ma il suo cibo non era che una minestra con
l’acqua e due uova; mangiava una sola volta ogni 24 ore. La novena
dell’Assunzione di Maria santissima e quella di Gesù Nazareno la fece tutta di
magro, si può dire a pane e acqua; così se la passò per tutto il tempo che
dimorò in Albano.
Si può dire che non vide affatto quel paese,
benché ci dimorò più di quattro mesi. Con tutto che Elisabetta stava così
ritirata e nascosta in quel cantone di abitazione, che non aveva uscita, ma era
come un cortile, fu molto il bene che fece a tanti poveri infermi.
Si servì del
cerotto e dell’unguento per le scottature, ma il più lo fece la prodigiosa
acqua di Gesù Nazareno perché erano si può dire mali incurabili, cattivi tumori
e piaghe incancrenite, che mettevano spavento al solo vederli e in questo modo
restarono guarite più di sessanta persone, così perfettamente che poterono
subito rimettersi al loro lavoro, essendo tutte persone di campagna.
Tutti ringraziavano il Signore che aveva mandato
una simile benefattrice. Nel tempo della novena di Maria santissima assunta in
cielo, Elisabetta andò a farla nella Chiesa di San Pietro76, poco
distante dalla foresteria delle monache dove abitava.
La vigilia della gloriosa Assunzione si tratteneva
in orazione.
Ecco come lo raccontò in segreto alla sua figlia
minore la sera, prima di andare a riposare, stando la medesima nella camera con
la madre, per lasciare alla figlia maggiore una camera libera, come in grazia
aveva domandato alla madre ed Elisabetta, non curando il suo incomodo,
procurava di compiacerla nelle richieste innocenti per tenerla contenta.
Le disse dunque: Stavo nella Chiesa di San Pietro con molto raccoglimento, quando ad un
tratto il mio spirito è stato sopito da una profonda estasi che mi ha privato
affatto dei sensi. Mi è apparso in questo tempo il glorioso apostolo San Pietro
e mi ha comandato di impegnarmi per il risarcimento di questa sua Chiesa,
perché non più Chiesa ma fienile può chiamarsi. Mi ha detto ancora che farei
un’opera molto gradita al Signore di far risarcire la Sua Chiesa, e che avessi
a cuore la gloria di Dio e il suo culto.
Io
mi rivolsi al Santo Apostolo con sommo rispetto e con umiltà: E come volete, o santo glorioso, che mi
impegni di fare questa opera? Da chi devo andare? Io niuno conosco che possa
fare quanto voi mi comandate.
Piena
di smarrimento tornavo a ripetere: Mi si rende impossibile poter eseguire
quanto mi comandate. Dispensatemi, per carità!.
Ho
dato in dirotto pianto, mi conoscevo affatto inabile a fare questa opera; ma il
santo apostolo mi ha confortata e animata, assicurandomi che appena avessi
accennato questo sentimento di restaurare la suddetta Chiesa, subito avrei
trovato persona che si sarebbe esibita di sborsare il denaro occorrente per
risarcirla, e avessi prestato fede alle sue parole.
A questo racconto la figlia le disse: Sì mamma mia non si perda d’animo, vedrà che
le riuscirà bene, e difatti così
seguì.
Mandò subito a chiamare monsignor vicario ed un
canonico, e comunicò i suoi sentimenti di non essere decente di vedere una
Chiesa come un fienile.
Li pregò a dare mano a fare quest’opera, e
restaurarla. I suddetti pieni di contento esultarono nel Signore, dicendole che
con somma loro pena si vedevano obbligati dalla sagra visita, di sospendere di
demolire la suddetta Chiesa, per non essere più luogo decente per fare le sagre
funzioni, perché del tutto diroccata e quasi rovinata; ammirando l’infinita
provvidenza di Dio, le promisero di prestarsi per quanto potevano.
Intanto una persona molto pia sentendo il
desiderio di Elisabetta che voleva far risarcire la suddetta Chiesa,
somministrò subito il denaro come il Santo Apostolo le aveva promesso.
Con tutta premura e sollecitudine furono chiamati
gli artisti e si mise mano all’opera con somma consolazione di tutti,
segnatamente delle donne albanesi per essere una Chiesa di loro devozione e
molto comoda, e per conseguenza molto frequentata, di maniera che non si poté
chiudere quando si riattava; benché ci lavoravano gli artisti, in una cappella
fecero le loro solite novene, concorrendo secondo il solito a folla il popolo al
solo tocco della campana della suddetta Chiesa di San Pietro. L’opera si compì
il giorno 6 novembre 1819, con applauso e gradimento straordinario, di tutta la
città di Albano.
In tutto il tempo che Elisabetta dimorò in Albano,
il Padre Ferdinando, confessore di Elisabetta e delle figlie, qual degnissimo
soggetto, si prese il pensiero di ivi condursi, ogni quindici giorni, e così
non ebbero occasione di variare confessore.
Nel fine del settembre essendosi ristabilita la
suddetta religiosa, la superiora tornò a riprenderla, ma siccome si erano tanto
affezionate, fu un gran distacco doversi dividere.
La buona monaca pensò di pregare una santa zitella
che conosceva e si era portata in Albano per cambiare aria, di sostituirla in
suo supplemento, per portare le due giovani a camminare.
Disse ad Elisabetta la buona monaca: Le consegni pure le sue figlie come le dava
a me, essendo una giovane di ottimi costumi e di famiglia specchiatissima.
In questo metodo terminò la villeggiatura e la
dimora in Albano di Elisabetta e delle figlie.
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