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Suor Maria Giuseppa Mora della SS. Trinità, figlia della Beata Elisabetta Canori Mora
Vita della Beata Elisabetta Canori Mora

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  • INTORNO ALLA VITA DELLA SERVA DI DIO ELISABETTA CANORI MORA MORTA IN ROMA IL DÌ 5 FEBBRAIO 1825 – BREVI CENNI SCRITTI DALLA FIGLIA MEDESIMA, MARIA LUCINA MORA, OSSIA MARIA GIUSEPPA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ, MONACA FILIPPINA
    • LIBRO PRIMO
        • 26 - Elisabetta si porta a Marino e conduce seco le sue figlie - Grazie singolari che compartì la prodigiosa immagine di Gesù Nazareno
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26 - Elisabetta si porta a Marino e conduce seco le sue figlie - Grazie singolari che compartì la prodigiosa immagine di Gesù Nazareno

 

Non sarà discaro89 a chi legge se prima narro la causa per cui una famiglia di Marino90 volle assolutamente che Elisabetta si conducesse fra loro a titolo di villeggiatura; non ricordo bene se il caso seguisse nell’anno 1819.

Nell’accennata famiglia si accasò in Roma una figlia, non erano passati quaranta giorni che il consorte la trovò la mattina quando si destò, trapassata all’altra vita nel letto, senza che egli si fosse avveduto che era morta. Chi può ridire il dolore della buona madre quando giunse questa nuova, sentiva la perdita all’improvviso della figlia e senza sagramenti; fu tanto il dolore e l’angustia che credevano impazzisse. Non c’era modo di consolarla e per quanto sacerdoti e religiosi si prestassero, non ascoltava nessuno, diceva: Ho perduto una figlia per tutta l’eternità e così andrò a terminare anch’io.

Una buona serva di Dio dello stesso paese era stata in prova in un Monastero di Roma ma non si era potuta vestire per cagione di salute, e stando in Roma aveva conosciuto Elisabetta. E vedendo che non c’era modo di consolare questa madre afflitta, siccome le era grande amica, le disse: Vi consiglio di portarvi in Roma da una che conosco, conducete con voi la vostra nuora per compagnia. Vi farò due righe per presentarvi e sono sicura che resterete consolata e vi quieterete; mangerete, dormirete e farete orazioni, perché in questo modo è impossibile che viviate.

Piacque molto questo consiglio a questa donna e si portò a Roma con sua nuora. Il Signore aveva già prevenuta Elisabetta. Appena giunse questa donna le fece molta accoglienza, lesse la lettera dell’amica con tutta indifferenza, poi si mise ad interrogarla. Ma era tanta la copia delle lagrime che non poteva parlare; disse alla nuora che raccontasse bene il tutto. Elisabetta prese a consolarla e le disse che stesse pur quieta che Iddio è Padre di misericordia. La condusse in cappella a visitare il suo Gesù Nazareno e quando sortì di disse alla nuora: Io mi sento come ravvivata91.

Elisabetta l’esortò a fare delle Comunioni per l’anima della figlia e le promise che avrebbe fatto pregare qualche anima buona per sapere lo stato della defunta, sua figlia, per non farsi scoprire che il Signore glielo aveva già rivelato.

La suddetta si partì per quel giorno molto consolata, per la strada disse a sua nuora che le pareva di trovarsi come rinata, con un contento di spirito mai provato. Nei pochi giorni che si trattenne in Roma non solo fece molte orazioni e comunioni in suffragio della figlia, ma fece celebrare delle Messe. Poi tornò da Elisabetta ansiosa di sapere qualche risposta, la quale le disse che una persona l’aveva assicurata che sua figlia si era salvata, benché fosse morta così in compendio senza sagramenti, ma che conveniva un lungo purgatorio.

La buona donna: Mia figlia dunque si è salvata, sia sempre ringraziato il Signore, sento tanta quiete e contento dal giorno che venni qui da voi, mi pareva di non credere a me stessa; adesso sento che la mia figlia è salva, vi prego di fare dei suffragi e farli fare, perché presto sia liberata dal purgatorio, disse piangendo la suddetta con la sua nuora che era un angelo in carne, facendo ambedue la stessa petizione. Allora Elisabetta disse: State tranquille, che in breve quest’anima andrà a godere l’eterno riposo della gloria beata, tornate tranquille alla cura della famiglia e il giorno che quest’anima volerà in cielo ne sentirete i buoni effetti. Come seguì.

La suocera e la nuora, una mattina andarono ad ascoltare la Santa Messa e a ricevere la Santa Comunione, non saprei dire dopo quanti giorni, se non erro due o tre, appena tornate da fuori. In quel tempo si trovarono come in un mare di gioia, ma la suocera si trovò come in un’attrazione di spirito che le parve di trovarsi in paradiso quasi a rimirare l’ingresso della sua figlia in cielo. Fu tale il contento di spirito che per quel giorno non capiva le cose sensibili e non poté mangiare, sentendo come una sazietà di paradiso. Pregò la surriferita amica che scrivesse a Elisabetta per ringraziarla di tanta carità che le aveva usato.

Mi pare nel luglio del 1820, cadde infermo il consorte della suddetta donna, scrissero subito ad Elisabetta la loro grande afflizione per la malattia del capo di casa. Alla buona Elisabetta dispiacque il travaglio di questa buona famiglia e si mise di cuore a pregare il Signore per la guarigione dell’infermo.

Iddio le fece intendere la sua giusta determinazione che per questo uomo era giunto il termine della sua vita e che doveva morire. Intanto riceveva lettere di molta premura tanto dai parenti dell’infermo, quanto dalla suddetta amica; questa scriveva con grande impegno e la notiziava delle grandi orazioni che si facevano per ottenere la salute di questo infermo.

Elisabetta scrisse all’amica che tutte le orazioni che facevano fare le avessero rivolte all’eterna salute dell’infermo, accompagnando le preghiere con molto fervore.

Un giorno di venerdì, Elisabetta disse alle figlie: Me ne vado in Chiesa alle Sacramentarie a pregare il Signore per quel povero infermo di Marino, non vi date pensiero ché mi tratterrò alla benedizione.

Risposero le figlie: Mamma mia è troppo presto, non sono le 20 per la benedizione, hanno da passare più di tre ore e con questo caldo! Ma alla medesima premeva l’infermo che doveva trapassare, non il suo patimento.

Così se ne andò in quella Chiesa dove si metteva sempre in un angolo, e in quel cantone non poteva essere osservata né dalle monache e nemmeno dalle persone che andavano a visitare il Santissimo.

Quando tornò a casa pareva un cadavere, la figlia minore la rimproverò un poco ché si esponeva a un patire sopra le forze: Ah - le rispose Elisabetta - figlia che dite, sarei stata pure sopra il fuoco per aiutare quel povero infermo. A diverse interrogazioni della figlia, Elisabetta rispose: A voi dirò tutto come a mia segretaria, avendone il permesso dal mio confessore, sentite dunque.

 Stando in orazione, alla presenza di Gesù Sacramentato esposto, pregando per un felice passaggio di quell’infermo, Iddio per la Sua infinita bontà si è degnato sollevare il mio spirito, e mi ha fatto vedere la discussione della causa di quest’anima ed il terribile giudizio che era di perdizione. A questa funesta nuova, non vi so spiegare quale sia stato l’impegno che ha inteso profondere il mio povero spirito per ottenere a questo infelice la grazia.

Ho pianto amaramente, ho pregato con tutto il fervore, mi sono offerta a patire qualunque male, ho perorato di tutto cuore la sua gran causa, per ottenergli la vita eterna per mezzo degli infiniti meriti di Gesù Cristo.

Ero fuori di me stessa per il dolore e per l’afflizione, ciò nonostante pregavo incessantemente con abbondanti lagrime e con affannosi sospiri. Proseguivo la preghiera, quando ad un tratto il mio spirito si è sopito e mi è parso in quel tempo di trovarmi davanti al grande tribunale di Dio, vedevo quest’anima tutta tremante e confusa per il grande rendimento di conti che doveva fare a Iddio, sommo giudice e testimone di tutta la sua vita di oltre settant’anni. Vedevo il sommo giudice sdegnato, il suo santo angelo custode che teneva un piccolo libricciolo nelle sue mani, che stava tutto mesto e dolente, che non aveva coraggio di aprire. Vedevo poi un arrogante demonio, che teneva un grandissimo libro nelle sue mani, e con somma audacia e superbia pretendeva di aprire il grosso volume avanti a questo infelice che stava pieno di terrore e di spavento.

Il povero mio spirito se ne stava profondato nel suo nulla, quanto mai afflitto e pieno di spavento nel vedere questo gran fatto, ma la compassione e la carità mi diedero coraggio. Piena di lagrime mi rivolsi a Maria santissima e al suo santissimo Figliolo: «Ah Gesù mio», gli dissi, «non condannate quest’anima, ve ne supplico per la vostra passione e morte e per i dolori della vostra santissima Madre. Vi prego, per la vostra infinita bontà, di volervi ricordare la promessa che mi avete fatto di salvare tutti quelli che mi avessero fatto del bene. La vostra parola non può mancare, in voi confido, in voi spero, Gesù mio, questo riguardatelo come un mio benefattore, salvatelo per carità, ve ne supplico per il vostro preziosissimo sangue. Io so benissimo di non meritare questa grazia, ma la vostra parola non può mancare. Oggi è venerdì, giorno nel quale voi avete sparso tutto il vostro prezioso sangue, e che perdonaste un ladro, salvate adesso quest’anima, Gesù mio, non la giudicate, nel vostro santo nome, salvatela». Con queste ed altre simili parole pregava la povera anima mia. Ma, lo crederesti o figlia? Non ti sorprende l’infinita bontà di Iddio? Veramente incomprensibile! Il mio buon Gesù si è degnato di rispondermi: «Figlia, la tua preghiera fa violenza al mio cuore, lo vuoi salvo? Salvo lo avrai».

Nel sentire proferire queste parole dall’umanità e divinità santissima di Gesù Cristo, ho creduto veramente di morire, parte per la grande consolazione e anche per il profondo rispetto e venerazione. Non vi saprei spiegare i santi affetti di cui sono stata ricolma in un momento. La povera anima mia non sapeva esprimere la gratitudine verso il mio Dio e la profonda umiltà nel vedere esaudita la povera mia preghiera; una consolazione di spirito che mi ha fatto struggere in lagrime di santo amore. Ma non sono terminate qui le mie consolazioni, ha voluto Iddio per la Sua infinita bontà, farmi vedere il compimento della grazia col farmi assistere di presenza all’infinita Sua misericordia.

Si è venuto dunque alla finale sentenza, ecco che vedo Gesù Cristo cinto di gloria e di maestà, seduto sopra splendide nubi, tutto raggiante di chiarissima luce, corteggiato da molti Santi e da innumerabili schiere angeliche. Vi era Maria santissima tutta ammantata di chiarissima luce, corteggiata da molte sante vergini.

Ho veduto poi presentare la suddetta anima per essere giudicata. Il sommo giudice Gesù Cristo, ha ordinato che si presentasse il suo processo. Un santo angelo ha preso il grande libro dalle mani del demonio e l’ha presentato al sovrano giudice, il quale ha preso un sigillo e l’ha posto sopra la cicatrice del Suo divino costato. Il sigillo è restato tinto del Suo preziosissimo sangue e sopra quel grande libro vi ha impresso tre sigilli. Con questo ha significato che per grazia non voleva giudicare quest’anima, ma la voleva salvare per mezzo dell’infinita misericordia, senza giudicare la sua causa.

Impressi i tre sigilli, ha ordinato ad un altro santo angelo che lo avesse annegato nel mare immenso della Sua divina misericordia. Il libro è stato annegato e quest’anima ha ricevuto l’eterna benedizione.

Come potrei esprimervi quale gaudio di paradiso ha ricolmato il mio cuore e che consolazione ho provata! Quali e quanti sono stati i ringraziamenti al mio Iddio! Mi trovo fuori di me stessa. Vi pare che posso pensare a riguardare la mia salute quando il Signore chiama ad aiutare il prossimo, benché io sia tanto insufficiente e miserabile?.

Il giorno dopo Elisabetta ricevette una lettera dai parenti che il loro capo di casa era trapassato il giorno avanti, prima delle ore 23. Non mancò Elisabetta di consolarli per lettera. Pochi giorni dopo si portò in Roma il figlio di questo trapassato, per ringraziare Elisabetta delle orazioni anche a nome della madre e di tutta la famiglia avendo veduto prodigi.

Le disse il suddetto: Abbiamo fatto dare la benedizione a mio padre da un religioso francescano con la reliquia di San Francesco, mentre era agonizzante. Io mi trattenevo in ginocchio ai piedi del letto di mio padre, raccomandandolo di cuore al Signore per un felice passaggio, mentre non vi era speranza che potesse guarire. Accanto al letto di mio padre, sopra l’inginocchiatoio, vi era il piccolo quadruccio con l’immagine del suo Gesù Nazareno. Guardando io questa santa immagine mentre pregavo incessantemente, vidi con sommo stupore che la sagra immagine, sciolta la mano destra rivolta verso mio padre moribondo, si degnò dargli la santa benedizione. A questo prodigio restai estatico e fuori di me stesso nel vedere un simile miracolo e mi persuasi che questa benedizione esternata ai miei occhi, da quella Santa immagine, fosse quella che riceveva da Gesù Cristo nel suo spirare per condurlo fra gli eletti.

Questo giovane disse ad Elisabetta che nel fare questo racconto si sentiva commuovere per i santi affetti e le aggiunse che questo prodigio fu tanto chiaro che non avrebbe avuta difficoltà di contestarlo; mentre conservava la santa immagine con la mano destra sciolta dalla corda, non come sta nell’originale e nel rame: tutte e due le mani legate dalla corda, come tutti possono vedere. Proseguendo a dire molte altre espressioni e ringraziamenti, disse: Fra breve manderò a Roma mia madre e mia moglie non solo per ringraziarvi, ma per pregarvi, come abbiamo già risoluto, che per ottobre vi vogliamo in casa nostra; loro spianeranno le difficoltà.

Elisabetta a tutte queste soprabbondanti amorevolezze restò confusa e lo pregò di non manifestare l’accaduto ma di tenerlo occulto per quanto fosse possibile, dicendogli: Le grazie del Signore ci devono rallegrare e consolare in Dio medesimo.

Dopo vari giorni si portarono a Roma la madre e la consorte del suddetto giovane; furono tante le preghiere che Elisabetta non poté negare la consolazione di dar parola di portarsi a Marino con il suo Gesù Nazareno e le figlie.

Elisabetta prese dunque la licenza come aveva fatto l’anno avanti quando andò ad Albano; il consorte per quei giorni lo ricevettero in casa la madre e le sorelle e il giorno 28 settembre 1820 Elisabetta con le sue figlie si portò a Marino. Non ho termini per descrivere le accoglienze e le dimostrazioni che le fecero non solo quella famiglia, ma tutto il parentato, perché a Marino la padrona di casa aveva un’altra figlia maritata che aveva veduti i prodigi della morte del padre ed era ancora fuori di sé per la consolazione dell’arrivo di Elisabetta con il suo Gesù Nazareno.

Non si possono descrivere i prodigi che in quella città operasse quella Santa immagine: guarigioni quasi istantanee, conversioni strepitose, molti che stavano in discordia si pacificarono, molti terreni sterili che non rendevano frutto, aspersi con un poco di acqua di Gesù Nazareno, furono resi al momento fertili. Furono tanti i prodigi che quei buoni marinesi non sapevano come esprimere la loro gratitudine per tanti benefici e tutti si procuravano l’accesso per parlare con Elisabetta e per farsi presentare Gesù Nazareno.

Ma ella gelosa di custodire la sua solitudine e perché non si distinguesse che il Signore la chiamava a sé, diceva che le sue indisposizioni non le permettevano di parlare se non pochi momenti nella giornata. Ecco l’orario: la mattina si levava di buonora e stava in camera ad orare, poi se ne andava al Duomo per fare la Santa Comunione e vi si tratteneva due o tre ore; dopo si ritirava in casa e al più presto in camera, ma molte volte le conveniva dare sfogo a molti che volevano parlarle. Il dopo pranzo, se le riusciva, tornava in Chiesa a visitare il Santissimo essendo molto vicino dalla casa dove stava. L’ottava dei morti si portava al Duomo prima delle ore 21 e si metteva in un angolo come una statua immobile, finché non era data la benedizione e, per ricondurla a casa, il venerabile e le figlie dovevano scuoterla.

Elisabetta in più di quaranta giorni, mai andò a vedere il paese; due o tre volte si portò in casa della figlia della padrona di casa dove era alloggiata, essendo la suocera allettata e desiderando questa vecchierella parlarle e vedere Gesù Nazareno, tranne questi atti di carità non andò mai a camminare per sollievo.

Alle figlie dava il permesso di andare a divertirsi, facendo a gara quelle famiglie per condurle anche negli altri paesi. Quel mentovato soggetto, varie volte le condusse il Padre Ferdinando confessore di Elisabetta, altre volte il medesimo vi andò con i figli e in queste occasioni Elisabetta mandava le figlie in campagna per qualche ricreazione o in qualche altro paese, ma lei non vi andava mai.

Procurava di stare più ritirata che poteva, non andava nelle Chiese più distanti per non avere nemmeno quel piccolo sollievo benché spirituale. Si contentò di andare sempre al Duomo per essere più vicino. Menò questa vita così ritirata non solo per esercitare la mortificazione che era veramente sua carissima compagna, ma ancora per fuggire il plauso e il concorso perché stavano in attenzione appena sortiva per andare in Chiesa o quando tornava a casa.

Si affollavano intorno, chi per ringraziarla delle grazie ricevute, chi per pregarla acciò gli ottenesse qualche grazia ed in realtà nessuno restò sconsolato e tutti ottennero quanto domandavano per vantaggio spirituale e molte grazie temporali di guarigioni straordinarie e di riunioni di famiglie che erano in dissenso.

In questo modo terminò Elisabetta la sua villeggiatura e risolvette, appena terminata l’ottava dei morti, di ricondursi a Roma con le sue figlie. Chi può descrivere il dispiacere di quella famiglia quando intesero la risoluzione di Elisabetta, per quanto la suddetta esprimesse la sua gratitudine per avere recato bastante incomodo, ma era stata tanto grande la consolazione in quella famiglia di averla ricevuta nella loro casa, in particolar modo la consorte di quel defunto con la nuora dicevano: Non aggravio ci avete dato ma sollievo e consolazione, se potessimo avervi sempre con noi ci stimeremmo felici, ma giacché questo è impossibile, prometteteci di venire con noi ogni anno in ottobre. Furono tante le preghiere che Elisabetta disse: Se piacerà al Signore, ritornerò.

 


 




89 Sgradito.



90 Cittadina del Lazio in provincia di Roma da cui dista 24 Km, è situata a nord del lago craterico di Albano. Sorta nel luogo dell’antica Castromoenium, Marino fu feudo degli Orsini e dei Colonna; fra i suoi monumenti: il Palazzo Colonna (sec. XVI), ora municipio e la Chiesa di San Barnaba (sec. XVII). (Cfr. Museo Italia, op. cit.).



91 Rianimata.






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