Non sarà discaro89 a chi legge se prima
narro la causa per cui una famiglia di Marino90 volle assolutamente che
Elisabetta si conducesse fra loro a titolo di villeggiatura; non ricordo bene
se il caso seguisse nell’anno 1819.
Nell’accennata famiglia si accasò in Roma una
figlia, non erano passati quaranta giorni che il consorte la trovò la mattina
quando si destò, trapassata all’altra vita nel letto, senza che egli si fosse
avveduto che era morta. Chi può ridire il dolore della buona madre quando
giunse questa nuova, sentiva la perdita all’improvviso della figlia e senza
sagramenti; fu tanto il dolore e l’angustia che credevano impazzisse. Non c’era
modo di consolarla e per quanto sacerdoti e religiosi si prestassero, non
ascoltava nessuno, diceva: Ho perduto una
figlia per tutta l’eternità e così andrò a terminare anch’io.
Una buona serva di Dio dello stesso paese era
stata in prova in un Monastero di Roma ma non si era potuta vestire per cagione
di salute, e stando in Roma aveva conosciuto Elisabetta. E vedendo che non
c’era modo di consolare questa madre afflitta, siccome le era grande amica, le
disse: Vi consiglio di portarvi in Roma
da una che conosco, conducete con voi la vostra nuora per compagnia. Vi farò
due righe per presentarvi e sono sicura che resterete consolata e vi
quieterete; mangerete, dormirete e farete orazioni, perché in questo modo è
impossibile che viviate.
Piacque molto questo consiglio a questa donna e si
portò a Roma con sua nuora. Il Signore aveva già prevenuta Elisabetta. Appena
giunse questa donna le fece molta accoglienza, lesse la lettera dell’amica con
tutta indifferenza, poi si mise ad interrogarla. Ma era tanta la copia delle
lagrime che non poteva parlare; disse alla nuora che raccontasse bene il tutto.
Elisabetta prese a consolarla e le disse che stesse pur quieta che Iddio è
Padre di misericordia. La condusse in cappella a visitare il suo Gesù Nazareno
e quando sortì di lì disse alla nuora: Io
mi sento come ravvivata91.
Elisabetta l’esortò a fare delle Comunioni per
l’anima della figlia e le promise che avrebbe fatto pregare qualche anima buona
per sapere lo stato della defunta, sua figlia, per non farsi scoprire che il
Signore glielo aveva già rivelato.
La suddetta si partì per quel giorno molto
consolata, per la strada disse a sua nuora che le pareva di trovarsi come
rinata, con un contento di spirito mai provato. Nei pochi giorni che si
trattenne in Roma non solo fece molte orazioni e comunioni in suffragio della
figlia, ma fece celebrare delle Messe. Poi tornò da Elisabetta ansiosa di
sapere qualche risposta, la quale le disse che una persona l’aveva assicurata
che sua figlia si era salvata, benché fosse morta così in compendio senza
sagramenti, ma che conveniva un lungo purgatorio.
La buona donna: Mia figlia dunque si è salvata, sia sempre ringraziato il Signore,
sento tanta quiete e contento dal giorno che venni qui da voi, mi pareva di non
credere a me stessa; adesso sento che la mia figlia è salva, vi prego di fare
dei suffragi e farli fare, perché presto sia liberata dal purgatorio, disse
piangendo la suddetta con la sua nuora che era un angelo in carne, facendo
ambedue la stessa petizione. Allora Elisabetta disse: State tranquille, che in breve quest’anima andrà a godere l’eterno
riposo della gloria beata, tornate tranquille alla cura della famiglia e il
giorno che quest’anima volerà in cielo ne sentirete i buoni effetti. Come
seguì.
La suocera e la nuora, una mattina andarono ad
ascoltare la Santa Messa e a ricevere la Santa Comunione, non saprei dire dopo
quanti giorni, se non erro due o tre, appena tornate da fuori. In quel tempo si
trovarono come in un mare di gioia, ma la suocera si trovò come in
un’attrazione di spirito che le parve di trovarsi in paradiso quasi a rimirare
l’ingresso della sua figlia in cielo. Fu tale il contento di spirito che per
quel giorno non capiva le cose sensibili e non poté mangiare, sentendo come una
sazietà di paradiso. Pregò la surriferita amica che scrivesse a Elisabetta per
ringraziarla di tanta carità che le aveva usato.
Mi pare nel luglio del 1820, cadde infermo il
consorte della suddetta donna, scrissero subito ad Elisabetta la loro grande
afflizione per la malattia del capo di casa. Alla buona Elisabetta dispiacque
il travaglio di questa buona famiglia e si mise di cuore a pregare il Signore
per la guarigione dell’infermo.
Iddio le fece intendere la sua giusta
determinazione che per questo uomo era giunto il termine della sua vita e che
doveva morire. Intanto riceveva lettere di molta premura tanto dai parenti
dell’infermo, quanto dalla suddetta amica; questa scriveva con grande impegno e
la notiziava delle grandi orazioni che si facevano per ottenere la salute di
questo infermo.
Elisabetta scrisse all’amica che tutte le orazioni
che facevano fare le avessero rivolte all’eterna salute dell’infermo,
accompagnando le preghiere con molto fervore.
Un giorno di venerdì, Elisabetta disse alle
figlie: Me ne vado in Chiesa alle
Sacramentarie a pregare il Signore per quel povero infermo di Marino, non vi
date pensiero ché mi tratterrò alla
benedizione.
Risposero le figlie: Mamma mia è troppo presto, non sono le 20 per la benedizione, hanno da passare più di tre ore
e con questo caldo! Ma alla medesima premeva l’infermo che doveva
trapassare, non il suo patimento.
Così se ne andò in quella Chiesa dove si metteva
sempre in un angolo, e in quel cantone non poteva essere osservata né dalle
monache e nemmeno dalle persone che andavano a visitare il Santissimo.
Quando tornò a casa pareva un cadavere, la figlia
minore la rimproverò un poco ché si esponeva a un patire sopra le forze: Ah - le rispose Elisabetta - figlia che dite, sarei stata pure sopra il fuoco per aiutare quel
povero infermo. A diverse interrogazioni della figlia, Elisabetta rispose: A voi dirò tutto come a mia segretaria,
avendone il permesso dal mio confessore, sentite dunque.
Stando in orazione, alla presenza di Gesù
Sacramentato esposto, pregando per un felice passaggio di quell’infermo, Iddio
per la Sua infinita bontà si è degnato sollevare il mio spirito, e mi ha fatto
vedere la discussione della causa di quest’anima ed il terribile giudizio che
era di perdizione. A questa funesta nuova, non vi so spiegare quale sia stato
l’impegno che ha inteso profondere il mio povero spirito per ottenere a questo
infelice la grazia.
Ho
pianto amaramente, ho pregato con tutto il fervore, mi sono offerta a patire
qualunque male, ho perorato di tutto cuore la sua gran causa, per ottenergli la
vita eterna per mezzo degli infiniti meriti di Gesù Cristo.
Ero
fuori di me stessa per il dolore e per l’afflizione, ciò nonostante pregavo
incessantemente con abbondanti lagrime e con affannosi sospiri. Proseguivo la
preghiera, quando ad un tratto il mio spirito si è sopito e mi è parso in quel
tempo di trovarmi davanti al grande tribunale di Dio, vedevo quest’anima tutta tremante
e confusa per il grande rendimento di conti che doveva fare a Iddio, sommo
giudice e testimone di tutta la sua vita di oltre settant’anni. Vedevo il sommo
giudice sdegnato, il suo santo angelo custode che teneva un piccolo libricciolo
nelle sue mani, che stava tutto mesto e dolente, che non aveva coraggio di
aprire. Vedevo poi un arrogante demonio, che teneva un grandissimo libro nelle
sue mani, e con somma audacia e superbia pretendeva di aprire il grosso volume
avanti a questo infelice che stava pieno di terrore e di spavento.
Il
povero mio spirito se ne stava profondato nel suo nulla, quanto mai afflitto e
pieno di spavento nel vedere questo gran fatto, ma la compassione
e la carità mi diedero coraggio. Piena di lagrime mi rivolsi a Maria santissima
e al suo santissimo Figliolo: «Ah
Gesù mio», gli dissi, «non condannate
quest’anima, ve ne supplico per la vostra passione e morte e per i dolori della vostra santissima Madre. Vi
prego, per la vostra infinita bontà, di volervi ricordare la promessa che mi
avete fatto di salvare tutti quelli che mi avessero fatto del bene. La vostra parola non può mancare, in
voi confido, in voi spero, Gesù mio, questo riguardatelo come un mio benefattore,
salvatelo per carità, ve ne supplico per il vostro preziosissimo sangue. Io so
benissimo di non meritare questa grazia, ma la vostra parola non può mancare.
Oggi è venerdì, giorno nel quale voi avete sparso tutto il vostro prezioso
sangue, e che perdonaste un ladro, salvate adesso quest’anima, Gesù mio, non la
giudicate, nel vostro santo nome, salvatela». Con queste ed altre simili parole pregava la povera anima mia. Ma, lo
crederesti o figlia? Non ti sorprende l’infinita bontà di Iddio? Veramente
incomprensibile! Il mio buon Gesù si è degnato di rispondermi:
«Figlia, la tua preghiera fa violenza al mio cuore, lo vuoi salvo? Salvo lo
avrai».
Nel
sentire proferire queste parole dall’umanità e divinità santissima di Gesù
Cristo, ho creduto veramente di morire, parte per la grande consolazione e
anche per il profondo rispetto e venerazione. Non vi saprei spiegare i santi
affetti di cui sono stata ricolma in un momento. La povera anima mia non sapeva
esprimere la gratitudine verso il mio Dio e la profonda umiltà nel vedere
esaudita la povera mia preghiera; una consolazione di spirito che mi ha fatto
struggere in lagrime di santo amore. Ma non sono terminate qui le mie
consolazioni, ha voluto Iddio per la Sua infinita bontà, farmi vedere il
compimento della grazia col farmi assistere di presenza all’infinita Sua
misericordia.
Si
è venuto dunque alla finale sentenza, ecco che vedo Gesù Cristo cinto di gloria
e di maestà, seduto sopra splendide nubi, tutto raggiante di chiarissima luce,
corteggiato da molti Santi e da innumerabili schiere
angeliche. Vi era Maria santissima tutta ammantata di chiarissima luce,
corteggiata da molte sante vergini.
Ho
veduto poi presentare la suddetta anima per essere giudicata. Il sommo giudice
Gesù Cristo, ha ordinato che si presentasse il suo processo. Un santo angelo ha
preso il grande libro dalle mani del demonio e l’ha presentato al sovrano
giudice, il quale ha preso un sigillo e l’ha posto sopra la cicatrice del Suo
divino costato. Il sigillo è restato tinto del Suo preziosissimo sangue e sopra
quel grande libro vi ha impresso tre sigilli. Con questo ha significato che per
grazia non voleva giudicare quest’anima, ma la voleva salvare per mezzo
dell’infinita misericordia, senza giudicare la sua causa.
Impressi
i tre sigilli, ha ordinato ad un altro santo angelo che lo avesse annegato nel
mare immenso della Sua divina misericordia. Il libro è stato annegato e
quest’anima ha ricevuto l’eterna benedizione.
Come
potrei esprimervi quale gaudio di paradiso ha ricolmato il mio cuore e che
consolazione ho provata! Quali e quanti sono stati i ringraziamenti al mio
Iddio! Mi trovo fuori di me stessa. Vi pare che posso pensare a riguardare la
mia salute quando il Signore chiama ad aiutare il prossimo, benché io sia tanto
insufficiente e miserabile?.
Il giorno dopo Elisabetta ricevette una lettera
dai parenti che il loro capo di casa era trapassato il giorno avanti, prima
delle ore 23. Non mancò Elisabetta di consolarli per lettera. Pochi giorni dopo
si portò in Roma il figlio di questo trapassato, per ringraziare Elisabetta
delle orazioni anche a nome della madre e di tutta la famiglia avendo veduto
prodigi.
Le disse il suddetto: Abbiamo fatto dare la benedizione a mio padre da un religioso
francescano con la reliquia di San Francesco, mentre era agonizzante. Io mi
trattenevo in ginocchio ai piedi del letto di mio padre, raccomandandolo di
cuore al Signore per un felice passaggio, mentre non vi era speranza che
potesse guarire. Accanto al letto di
mio padre, sopra l’inginocchiatoio,
vi era il piccolo quadruccio con l’immagine del suo Gesù Nazareno. Guardando io
questa santa immagine mentre pregavo incessantemente, vidi con sommo stupore
che la sagra immagine, sciolta la mano destra rivolta verso mio padre
moribondo, si degnò dargli la santa benedizione. A questo prodigio restai
estatico e fuori di me stesso nel vedere un simile miracolo e mi persuasi che
questa benedizione esternata ai miei occhi, da quella Santa immagine, fosse
quella che riceveva da Gesù Cristo nel suo spirare per condurlo fra gli eletti.
Questo giovane disse ad Elisabetta che nel fare
questo racconto si sentiva commuovere per i santi affetti e le aggiunse che
questo prodigio fu tanto chiaro che non avrebbe avuta difficoltà di
contestarlo; mentre conservava la santa immagine con la mano destra sciolta
dalla corda, non come sta nell’originale e nel rame: tutte e due le mani legate
dalla corda, come tutti possono vedere. Proseguendo a dire molte altre
espressioni e ringraziamenti, disse: Fra
breve manderò a Roma mia madre e mia moglie non solo per ringraziarvi, ma per
pregarvi, come abbiamo già risoluto, che per ottobre vi vogliamo in casa
nostra; loro spianeranno le difficoltà.
Elisabetta a tutte queste soprabbondanti
amorevolezze restò confusa e lo pregò di non manifestare l’accaduto ma di
tenerlo occulto per quanto fosse possibile, dicendogli: Le grazie del Signore ci devono rallegrare e consolare in Dio medesimo.
Dopo vari giorni si portarono a Roma la madre e la
consorte del suddetto giovane; furono tante le preghiere che Elisabetta non
poté negare la consolazione di dar parola di portarsi a Marino con il suo Gesù
Nazareno e le figlie.
Elisabetta prese dunque la licenza come aveva
fatto l’anno avanti quando andò ad Albano; il consorte per quei giorni lo
ricevettero in casa la madre e le sorelle e il giorno 28 settembre 1820
Elisabetta con le sue figlie si portò a Marino. Non ho termini per descrivere
le accoglienze e le dimostrazioni che le fecero non solo quella famiglia, ma
tutto il parentato, perché a Marino la padrona di casa aveva un’altra figlia
maritata che aveva veduti i prodigi della morte del padre ed era ancora fuori
di sé per la consolazione dell’arrivo di Elisabetta con il suo Gesù Nazareno.
Non si possono descrivere i prodigi che in quella
città operasse quella Santa immagine: guarigioni quasi istantanee, conversioni
strepitose, molti che stavano in discordia si pacificarono, molti terreni
sterili che non rendevano frutto, aspersi con un poco di acqua di Gesù
Nazareno, furono resi al momento fertili. Furono tanti i prodigi che quei buoni
marinesi non sapevano come esprimere la loro gratitudine per tanti benefici e
tutti si procuravano l’accesso per parlare con Elisabetta e per farsi
presentare Gesù Nazareno.
Ma ella gelosa di custodire la sua solitudine e
perché non si distinguesse che il Signore la chiamava a sé, diceva che le sue
indisposizioni non le permettevano di parlare se non pochi momenti nella
giornata. Ecco l’orario: la mattina si levava di buonora e stava in camera ad
orare, poi se ne andava al Duomo per fare la Santa Comunione e vi si tratteneva
due o tre ore; dopo si ritirava in casa e al più presto in camera, ma molte
volte le conveniva dare sfogo a molti che volevano parlarle. Il dopo pranzo, se
le riusciva, tornava in Chiesa a visitare il Santissimo essendo molto vicino
dalla casa dove stava. L’ottava dei morti si portava al Duomo prima delle ore
21 e si metteva in un angolo come una statua immobile, finché non era data la
benedizione e, per ricondurla a casa, il venerabile e le figlie dovevano scuoterla.
Elisabetta in più di quaranta giorni, mai andò a
vedere il paese; due o tre volte si portò in casa della figlia della padrona di
casa dove era alloggiata, essendo la suocera allettata e desiderando questa
vecchierella parlarle e vedere Gesù Nazareno, tranne questi atti di carità non
andò mai a camminare per sollievo.
Alle figlie dava il permesso di andare a
divertirsi, facendo a gara quelle famiglie per condurle anche negli altri
paesi. Quel mentovato soggetto, varie volte le condusse il Padre Ferdinando
confessore di Elisabetta, altre volte il medesimo vi andò con i figli e in
queste occasioni Elisabetta mandava le figlie in campagna per qualche
ricreazione o in qualche altro paese, ma lei non vi andava mai.
Procurava di stare più ritirata che poteva, non
andava nelle Chiese più distanti per non avere nemmeno quel piccolo sollievo
benché spirituale. Si contentò di andare sempre al Duomo per essere più vicino.
Menò questa vita così ritirata non solo per esercitare la mortificazione che
era veramente sua carissima compagna, ma ancora per fuggire il plauso e il
concorso perché stavano in attenzione appena sortiva per andare in Chiesa o
quando tornava a casa.
Si affollavano intorno, chi per ringraziarla delle
grazie ricevute, chi per pregarla acciò gli ottenesse qualche grazia ed in
realtà nessuno restò sconsolato e tutti ottennero quanto domandavano per
vantaggio spirituale e molte grazie temporali di guarigioni straordinarie e di
riunioni di famiglie che erano in dissenso.
In questo modo terminò Elisabetta la sua
villeggiatura e risolvette, appena terminata l’ottava dei morti, di ricondursi
a Roma con le sue figlie. Chi può descrivere il dispiacere di quella famiglia
quando intesero la risoluzione di Elisabetta, per quanto la suddetta esprimesse
la sua gratitudine per avere recato bastante incomodo, ma era stata tanto
grande la consolazione in quella famiglia di averla ricevuta nella loro casa,
in particolar modo la consorte di quel defunto con la nuora dicevano: Non aggravio ci avete dato ma sollievo e consolazione,
se potessimo avervi sempre con noi ci stimeremmo felici, ma giacché questo è
impossibile, prometteteci di venire con noi ogni anno in ottobre. Furono
tante le preghiere che Elisabetta disse: Se
piacerà al Signore, ritornerò.
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