Elisabetta si ricondusse a Roma il giorno 12
novembre 1820 e riordinò la sua famiglia nel suo sistema. Il consorte ritornò a
casa e tutto andava con buon ordine e pace. Ma siccome il Signore teneva quasi
sempre rapito lo spirito di Elisabetta, compariva all’esterno sempre infermiccia
e poteva sortire poco per andare in Chiesa, ma profittava del privilegio di
poter far celebrare ogni giorno la Santa Messa nella sua cappella e così
ricevere, compreso nell’indulto, quotidianamente la Santa Comunione. Aveva la
licenza di confessarsi in cappella e fu fatto un confessionale perché avesse
questo comodo e così se la passò fino al principio dell’anno nuovo.
Un giorno di gennaio chiamò la figlia minore e
principiò a disporla ché il Signore voleva visitarla in quel mese con la
seconda malattia come le aveva già preannunziato prima dell’altra già sofferta.
A queste parole la figlia non solo si conturbò molto, ma disse: Ah mamma mia così spesso lei ha da patire
tanto e noi abbiamo da stare come raminghe ed esuli, come se lei non ci fosse per
noi; ah questo davvero è troppo duro, mamma mia preghi il Signore che ci
risparmi un tanto travaglio.
La buona Elisabetta a queste e ad altre
espressioni della figlia, le fece distinguere che non possiamo resistere alle disposizioni
della divina volontà volendo Iddio quest’altro sagrificioda una parte e
dall’altra, Adesso o figlia vi confiderò
il tutto.
Così principiò a narrarle.
Il
giorno della festa dell’Immacolata Concezione il dì 8 dicembre 1820,
per mezzo di una illustrazione divina, il Signore mi manifestò l’irritato suo
sdegno giustissimo contro tutto il genere umano, facendomi conoscere l’empietà,
l’indegnazione, le enormi ingratitudini che si commettono dagli uomini, contro
la sua divina legge ed il suo santo Evangelo, da ogni sorta di persone, tanto
ecclesiatiche che secolari.
Si
degnò il Signore di inoltrarmi fino negli ampli spazi della sua divinità, dove
mi dette a vedere ed a conoscere le infinite sue misericordie e l’eterno suo
amore. Qual meraviglia e qual rapimento di spirito mi recò l’eterna
magnificenza del mio grande Iddio, non te lo posso spiegare, mentre era tanta
la grandezza della cognizione, che restai rapita nel penetrare tanta magnificenza,
che il povero mio intelletto non poteva arrivare a comprenderlo, né poteva
penetrare simile grandezza
Dopo
aver goduto questo gran bene inenarrabile ed incomprensibile, Iddio mi fece
conoscere quanto sia disprezzato dagli uomini questo suo grande amore, mi diede
a vedere gli oltraggi sagrileghi che si commettono; in una parola, in un tratto
vidi tutte le iniquità che inondano la terra, e tutte le abominazioni che si
commettono dai libertini e le forti manovre che si fanno dai nemici della
nostra santa religione cattolica, che cercano tutte le maniere di poterla distruggere
del tutto.
«Mira, o figlia», mi diceva l’eterno Iddio, «qual contrapposto di iniquità è mai
questo che si fa all’eterno mio
amore. La mia giustizia è ormai stanca di sostenere il grave peso di queste
grandi enormità. L’eterno mio Padre non vuole più accettare i sagrifici delle
anime sue dilette, che quali vittime si offrono con rigide penitenze, per
sostenere l’irritato suo sdegno. Queste, unite ai miei meriti, cercano di
placare la sua giustizia, ma già più non ascolta né preghiere né vittime. È già
determinato il terribile decreto di castigare e punire con tutta severità
l’iniquità degli uomini con terribile gastigo. Il decreto è stabile, permanente
ed irrevocabile. Figlia, non mi pregare, mentre la preghiera su di ciò io
sdegno».
Ed
intanto, facendomi la dimostrazione della sua inesorabile giustizia, mi levò la
libertà e la volontà di pregare per questa grande causa.
Oh
quale afflizione mi recasse e qual timore mi rendesse il vedere lo sdegno di
Dio non posso con parole esprimervelo, il vedere l’iniquità degli uomini e la
loro ingratitudine verso il bene sommo di un Dio amante. A confronto così
dissonante92 mi ridussi come ad agonizzare, credevo di
morire e piena di spavento e di terrore, per aver veduto Iddio sdegnato
giustamente contro di noi, senza poterlo placare, restò la povera anima mia nel
pianto e nell’afflizione.
La
maggior mia pena fu di vedere la Chiesa di Dio tutta in soqquadro, tutta
sbaragliata e dispersa, per l’infedeltà dei sagri ministri. Sdegnato Iddio di
questa loro cattiva condotta, aveva decretato di traslatare93 altronde la cattedra infallibile della verità di Chiesa Santa.
Sdegnato mi si fece vedere il grande apostolo San Pietro, zelatore94 dell’onore di Dio e Paolo santo qual
guerriero unito alle milizie angeliche traslatar voleva dalla nefanda città di
Roma la cattedra di San Pietro.
E
come potrò proseguire il racconto o figlia, sentendomi sopraffare
dall’afflizione, lasciatemi tacere, non posso spiegarvi la pena che mi recasse
una così tragica determinazione e sì pregiudiziale per il cristianesimo.
Vedendo la figlia che la Madre voleva
quietarsi, la pregò di terminare il racconto, allora Elisabetta soggiunse: Comunicai al mio padre spirituale95, piena di lagrime e affannosi sospiri,
quanto nell’orazione mi era seguito. Sentendo il suddetto Padre tutto il
racconto, fattemi varie interrogazioni, mi fece coraggio e mi disse che stessi
quieta, mentre credeva che questa fosse una illustrazione del Signore alla
quale io dovevo corrispondere con fedeltà. Perciò mi comandò di pregare
caldamente e con tutto il fervore l’altissimo Iddio, acciò si degnasse, per
mezzo della umanità santissima di Gesù Cristo, di lasciarmi la libertà di
pregare per la santa Chiesa, acciò
non fosse dispersa così, e che non avesse permesso di traslatarla, ma che
avesse dato luogo alla sua misericordia, e non avesse privato questa povera
città di Roma, benché immeritevole di possedere tesoro sì santo, qual è la
cattedra di San Pietro.
Avvalorata
la povera anima mia dall’obbedienza del mio padre spirituale, mi presentai
all’orazione, con sommo rispetto e riverenza mi misi alla presenza di Dio.
Umiliandomi profondamente e annientandomi in me stessa, così presi a parlare
con l’eterno mio Iddio: «Amorosissimo mio Signore, padrone assoluto del cielo e della terra, ecco
prostrata ai vostri santissimi piedi la creatura più vile che abita la terra.
Riconoscendomi affatto indegna delle eterne vostre misericordie, mi conosco
meritevole di mille inferni, per i miei gravi peccati ed enormi ingratitudini
che ho commesso contro di voi, sommo mio bene. Ciò nonostante questa grande
verità, che io confesso di avervi offeso e strapazzato, mio amorosissimo Iddio,
supplichevole mi presento al vostro augusto trono, e con il cuore tremante, e
con la bocca sulla polvere mi prostro innanzi alla vostra divina maestà, e
benché conosca che sono terribili i vostri eterni giudizi, con tutto questo mi
faccio coraggio di pregarvi, benché voi, mio Dio, mi abbiate manifestato di
sdegnare questa preghiera. Perdonate dunque il mio ardire, e per gli infiniti
meriti del vostro santissimo Figliolo, permettetemi di pregarvi, mentre voi
sapete l’obbedienza che mi ha imposto il vostro ministro, mio confessore. Per
l’amore che voi portate a questa
santa virtù, degnatevi di esaudirmi, mio Dio, non sdegnate di ascoltare la
povera mia preghiera, la quale intendo di unirla alla preghiera del vostro
santissimo Figliolo, quando dall’albero della croce vi pregò per i suoi
crocifissori: Pater, dimitte illis: non
enim sciunt quid faciunt96, parole
degne dell’infinita carità del vostro eterno amore. Affidata dunque a queste
parole dell’increata Sapienza, io mi rivolgo a voi, eterno mio Dio, e piena di
fiducia, mi faccio ardita di pregarvi per i bisogni di Santa Chiesa e per tutti
i poveri peccatori; ed in discolpa di questi miserabili, i quali non sanno
quello che fanno, offendendo la vostra divina maestà, io, da miserabile
peccatrice qual sono, vi presento la povera mia preghiera in unione di quella
che vi fece il vostro santissimo Figliolo. Sì, eterno mio Dio, non sdegnate di
esaudirmi, ché io qual vittima di espiazione e di riconciliazione, mi offro di
patire ogni sorta di patimenti, unitamente agli affanni gravosissimi che ha
sofferto il vostro santissimo Figliolo».
Con
molte lagrime, gemiti e sospiri, ripetevo con fervore eccessivo e con ardente
amore la medesima preghiera.
In
questo stato di cose, mi si fece vedere l’umanità santissima di Gesù Cristo,
che con voce piacevole così mi parlò: «Figlia benedetta dal mio Padre, è molto gradevole a me la tua preghiera,
non ti stancare, prosegui con fiducia a pregare: la tua preghiera e il tuo
sagrificio, unito ai miei meriti,
placheranno il Suo giustissimo sdegno. Fatti coraggio! L’eterno mio Padre non è
sdegnato con te. Prosegui con fervore a pregare, che otterrai quanto brami e
desideri. Ma preparati, o mia figlia, a patire grandi cose per amor mio. Dovrai
sostenere una forte battaglia con la potestà delle tenebre; questi faranno
grande forza per sopraffarti, servendosi dei supplizi più barbari per
affliggere il tuo corpo, i tuoi sensi saranno abbattuti e tormentati dai più forti patimenti, il tuo spirito dovrà soffrire
una desolazione ed agonia in qualche maniera simile a quella che io patii nella
mia passione e morte. Ma io ti prometto la mia particolare assistenza e ti
sovverrò con i miei più particolari favori».
Incoraggiata
l’anima mia dalle parole del mio divino Redentore che con tanta piacevolezza ed
amore mi parlava: «Sì», gli dissi con
veracità di spirito e con amore ardente, «eccomi pronta, Gesù mio, per amor
vostro a soffrire qualunque patimento. Io mi sagrifico ben volentieri; ma chi mi darà il coraggio di sostenere la forte
battaglia contro i miei nemici? Mentre voi mi avete detto che dovrò in qualche
maniera rassomigliare a voi in questo patimento e che dovrò sostenere una
desolazione di spirito ed un’agonia mortale, e in questo stato di cose dovrò
sostenere la forte battaglia con la potestà delle tenebre, io che sono la
creatura più vile della terra, tanto abominevole per tanti peccati commessi? Io
altro non merito che l’inferno, per essere peggiore dei demoni medesimi, avendo
oltraggiato con tanti peccati la vostra divina maestà. E come potrò io
sostenere con le deboli mie forze una simile battaglia? Mio Dio, dubito di me
stessa e temo di arrendermi alle voglie del nemico tentatore».
E
con dirotto pianto e con affannosi sospiri esclamavo ed imploravo il divino
aiuto: «Mio Dio», dicevo, «degnatevi di non abbandonarmi in questo doloroso
conflitto, mentre dubito di essere pervertita
dai miei nemici e di mancarvi di fedeltà».
Piangevo e sospiravo per il timore di essere infedele al mio Iddio.
Trovandomi
in questa forte derelizione di spirito, mi apparve nuovamente l’amorosissimo
mio Signore; riempiendomi di consolazione con la sua amabilissima presenza,
così di nuovo prese a parlarmi: «Figlia diletta mia,
allontana da te il soverchio97 timore. Io ti prometto la particolare
assistenza della mia grazia. Io sarò sempre con te, e se io sono con te, chi sarà
contro di te? Chi ti potrà nuocere? E chi mai ti potrà sovrastare? Dunque,
fatti coraggio e non dubitare, fidati di me. Io ti prometto, da quel Dio che
sono, di farti riportare la compiuta vittoria dei tuoi nemici».
Quale
consolazione recasse alla povera anima mia una tale promessa, e qual forza e
coraggio prendessi contro i miei nemici non è possibile poterlo spiegare.
Adesso vi ho confidato il tutto come a mia confidente e segretaria, volendo
così il Signore che voi sappiate il perché devo patire e mi aiutiate con le
preghiere e con l’assistenza. Vi raccomando di non raccontare ad alcuno quanto
vi confido perché desidero patire per amor di Dio e nascosta agli uomini il più
possibile. Desidero che questi mi tengano per pazza e scemonita; sentirete che questi
saranno i loro giudizi dei quali voi dovete rallegrarvi e non vi date pena
quando ne sentirete dire tante.
A tutto questo parlare di Elisabetta, la
figlia rispose: A mamma mia, riguardo a
tenere segreto ciò che mi ha manifestato può essere sicura; fin da fanciulle ci
ha avvezzate così, ma che lei abbia da comparire come una sciocca questo mi è
assai sensibile, e non è possibile adattarsi a tali travagli con animo
tranquillo, e tutta mesta si partì dalla madre.
Elisabetta quando conobbe il giorno che doveva
essere sorpresa dalla malattia, ossia dalla pugna, chiamò tutte e due le figlie
e le prevenne come la prima volta come si dovevano regolare quando lei non
sarebbe stata in sentimenti. E fece conoscere che bisognava sottomettersi alla
volontà di Dio. Non sto qui a ridire i pianti delle figlie e il disgusto che ne
ebbero, ma la madre intermezzò qualche celia con una mirabile disinvoltura e
poi le pregò di assisterla come la prima volta, dicendo: Ricordatevi, me l’avete promesso di prestarvi fino all’ultimo respiro
della mia vita, la quale non sarà tanto lunga, e con questa alternativa di
pianti e parole interrotte le figlie restarono avvisate.
Il giorno 18 gennaio 1821, ebbe principio
la forte malattia di Elisabetta. Comparve all’esterno un male mortale che la
privò affatto dei sensi, i professori che furono chiamati la fecero spedita
assicurando che in quello stato non poteva sopravvivere ed era ridotta agli
estremi.
Per otto giorni continui non poté prendere
cibo di sorta alcuna, nemmeno una stilla d’acqua, benché fosse così abbattuta e
derelitta. Le figlie per quanto provarono a farla sostentare non riuscivano a
farle trangugiare qualche stilla di brodo, nemmeno l’acqua poteva inghiottire.
Non mancarono le medesime di assisterla giorno e notte come avevano fatto
nell’altra malattia, facendo mezza nottata per ciascheduna, e il giorno
l’assistevano alternativamente, perché una doveva dare sesto alla casa. Il
consorte di Elisabetta stava come stupidito di pena, sicché il pensiero era
tutto delle figlie.
L’unico sollievo come l’altra volta fu che
corse subito la buona suocera e ogni giorno dalla mattina alla sera si
tratteneva per assistere la nuora che amava più di una figlia e aiutava le
nipoti, che si mostravano gratissime.
Le dicevano: Signora nonna, solo lei ci dà sollievo, gli altri parenti pare che
vogliano fare tanto ma non fanno
altro che mettere confusione. Difatti, erano accorsi tutti ed era una
molestia insopportabile per le due figlie. Volevano riparare alla grave
malattia di Elisabetta, ma per la grande disparità di pareri, tutto terminava
in ciarle e disapprovazione, e bene distinguevano le due figlie che ciò seguiva
per istigazione dei maligni spiriti, tanto più che la madre le aveva prevenute,
dicendole dal primo giorno che non temessero, ma stessero avvertite che c’era
un demonio sulla porta della sua camera che con la bocca tramandava tanto fumo
e con quello confondeva l’intelletto di tutti e così seguiva la grande
confusione.
Il Padre Ferdinando, confessore di
Elisabetta, non mancava mattina e giorno di visitarla, ma il Signore permise
che non lo riconoscesse; voleva darle qualche conforto con l’autorevole suo
comando, mentre era ben noto il motivo di questo suo grande patimento.
Le figlie si raccomandavano al suddetto: Veda un poco, vostra paternità se può
giovarle con la sua autorità.
Rispondeva quel buon Padre: Io faccio
quanto posso per aiutarla con le preghiere e i comandi precettivi allo spirito
delle tenebre, mentre vedete che è incapace di conoscere la mia voce, giacché
lo conoscete da voi medesime, che ha perduto l’umana sensazione.
Così quel buon Padre andava consolando le
figlie della povera paziente, siccome queste povere ragazze erano
vessate98 dai parenti per far curare a modo loro Elisabetta, le medesime
si raccomandarono al lodato Padre ché parlasse al medico ed egli non mancò di
avvisarlo che non avesse adoprata l’umana medicina, mentre ad altro non
servirebbe che per gravargli il patimento. A questo avvertimento il prudente
medico non mise in pratica che piccoli rimedi che servissero di sollievo alla
straziata umanità.
Ma i parenti tentati volevano usare rimedi
forti e stravaganti specialmente uno dei fratelli, il quale pareva indemoniato
e aveva preso un sopravvento sopra la direzione della casa e la voleva fare da
padrone, benché le due figlie di Elisabetta non gli davano questa libertà e non
gli rendevano alcun conto degli andamenti di famiglia. Egli persuadeva il
consorte della suddetta che si doveva fare come la pensava lui e quel buon uomo
credeva che dicesse benissimo e lodava la grande premura per la sua famiglia e
così, appena giorno si presentava per fare da padrone e si tratteneva fino alla
sera; il più delle volte e tutto il suo trattenimento, non era ad altro diretto
che a fare confusione con chi capitava.
Si accordava con la donna di servizio,
pure tentata; arrivarono a dire con le persone che per amorevolezza venivano a
sentire le nuove, tante maldicenze e mormorazioni e non ebbero difficoltà ad
asserire che il male di Elisabetta era tutta una finzione o pazzia e tante
altre menzogne senza fine e non avevano rossore di dire tutte queste cose al
confessore della suddetta, che per un momento restò quasi sorpreso e un poco
persuaso di quanto gli davano ad intendere questi tentati.
Le figlie non potevano far fronte a tutte
queste tempeste, perché il giorno dovevano assistere la madre, almeno una non
si poteva partire mai; la notte una per volta, facevano mezza nottata per
ciascuna, ma il più che le occupava era che Elisabetta benché fosse alienata
dai sensi, voleva quasi sempre le figlie attorno, specialmente la minore. Se
mancava un momento la cercava subito di maniera che la sera quando qualche ora
andava a riposare non si spogliò mai per essere pronta se la ricercava.
Alla mezzanotte la sorella la chiamava per
andare la medesima a riposare e se nella notte diceva alla minore: Dove sta vostra sorella?. «Ah mamma mia, sta un poco a riposare,
lasciamola stare, lo sa che non ha
tanta salute da buttare», così procurava di persuaderla.
Ma poi Elisabetta le rese la ragione per
la quale voleva vedere sempre avanti ai suoi occhi le figlie, quando confidò in
segreto alla minore quanto le era occorso in quei giorni così tragici e
afflittivi. Per questa cagione che le figlie non potevano fare obiezione a tale
confusione e ciarlerie, dovendo stare presente alla madre e così tutti
profittarono99 di spadroneggiare e mormorare a loro talento, beffando e
disapprovando la condotta di Elisabetta e l’indirizzo che dava alle figlie,
come da scema e bizzoca. A tutte queste critiche le suddette dissimulavano e
non davano ascolto; altro non desideravano che la guarigione della loro madre e
non davano peso a queste dicerie ridicole. Finalmente dal 18 gennaio si arrivò
al 15 febbraio sempre in simili travagli, e in tale giorno seguì un raddoppiato
sconvolgimento.
Venne in capo a quel tentato fratello, di
intessere tre grosse corde, come si legano i tori, e con queste corde bestiali
pretendeva di legare la sorella; ma di questo artificio non aveva detto niente
ad alcuno e le aveva nascoste.
Quando fu mezza mattina, Elisabetta disse
alle figlie: Fatemi alzare dal letto ché
mi sento un poco meglio.
Le figlie temevano le
pregiudicasse100 e non volevano, ma ella disse: Ubbidite e non temete che non
sono pazza come dicono. Dopo che si era vestita, disse alle figlie: Prendete il secchietto con l’acqua Santa,
l’aspersorio, il campanello della cappella e portatemi uno scaldino con il fuoco e con questi piccoli utensili,
appoggiata alle figlie, cominciò a girare per la casa. Andava benedicendo tutte
le camere, compresi gli angoli, disse alle figlie: Iddio mi ha dato a conoscere quello che devo fare per fugare tutti
questi demoni e io mediante la Sua Divina Grazia adempirò puntualmente la
divina ispirazione, e così fece.
Camminava per casa aspergendo con l’acqua
santa e suonando il campanello e intanto metteva sul fuoco lo scaldino che si
era fatta portare, zucchero e mollica di pane; andava in questo tempo girando
per casa facendo queste operazioni, accompagnandole con molte orazioni di salmi
ed inni, ma molte volte replicò il Magnificat.
Andò poi ad aprire e chiudere tutte le porte di casa anche quella
dell’ingresso come in atto di padronanza. In questo tempo con molto fervore
chiedeva lume al Signore, perché gli desse grazia di conoscere quello che
doveva fare. Diceva piena di fiducia: Illumina
Domine tenebras meas; a tutte queste operazioni di Elisabetta, chi può
descrivere le beffe e le alterazioni dell’anzidetto fratello e della donna di
servizio che pian piano andavano a vedere cosa faceva! Quando poi la suddetta
andò a ritrovare una scatola, dove vi erano vari semi di erbetta e di fiori da
piantare, la prese in mano, dicendo: Nel
nome dell’Onnipotente Iddio. Andò al camino in cucina e mise sopra il fuoco
la scatola e siccome le parve che il fuoco che vi era non fosse sufficiente,
prese molta carta bianca per incendiarla sollecitamente, quindi aprì la scatola
e la rovesciò sopra il grande focolare. I grandi botti che fecero quei semetti,
unitamente alla scatola, parevano archibugiate. La figlia minore che si trovava
presente si spaventò molto, ma la madre le disse: Non vi prendete pena, questa
è un’opera del Signore, e proseguiva a dire salmi allusivi a ciò che faceva
e andava rendendo grazie a Iddio della vittoria che riportava. Ma di questo
niuno distingueva il senso e all’esterno sembravano operazioni da scema. Dopo
ruppe ancora tre piccole pile vuote che erano sopra all’istesso camino. A
questo rumore di cocci corsero il fratello e la donna infuriati e fremendo di
rabbia, principiarono a scaricare parole ingiuriose, trattandola da matta che
voleva rovinare la casa col rompere ciò che le veniva alle mani.
La figlia che stava sorreggendo la madre,
alzò la voce dicendo che in quella casa non c’era altra padrona che la madre e
tutto quello che vi esisteva era tutto suo, e se mamma stacca i quadri e li
butta dalla finestra con tutti i mobili sarà ben fatto e nessuno può
rimproverarla.
Per quel momento tacquero ma poco dopo
Elisabetta tornò in camera sua e questi entrarono come furiosi ministri volendo
venire all’esecuzione di legarla con quelle corde intessute diabolicamente dal
fratello. Con violenza le si fecero addosso e la donna, più tentata degli altri
contro Elisabetta, le si avventò alle gambe calcandole con tanta forza che le
ossa fecero un crocchio tanto forte che la figlia credette le si fossero rotte
tutte e due le gambe. Erano tanto inferociti che non capivano ragione; benché
le figlie strepitavano, non ebbero la forza di scansarli. Il suddetto fratello le
si fece addosso, prendendola con spietata forza per le braccia, e scuotendola
con tanta violenza e con beffe che fu un prodigio che non gliele rompesse,
oltre la grande scossa che ne soffrì la macchina, a tutti questi strapazzi e
ingiurie. Elisabetta stette sempre serena e tranquilla in sommo silenzio, si
teneva in mano il suo Crocifisso guardandolo fissamente e anche questo più
volte con disprezzo glielo fecero cadere per terra.
Vedendo la suddetta che la sua
piacevolezza e le parole delle figlie non li facevano desistere, prese un’aria
di contegno, e siccome era ben tardi, si erano radunate molte persone e tutti i
parenti, i quali facevano un bisbiglio per casa. In questo tempo alla presenza
di tutti, Elisabetta fece leggere alla figlia minore la Passione di Gesù
Cristo. Prima di terminare la lezione, si alzò dalla sedia e se ne andò alla
camera opposta, guardò sotto una tela e trovò le tre corde che aveva preparato
il fratello per legarla, le prese e le portò nella sua camera e se le mise in
seno e con tutta tranquillità principiò a scioglierle e intanto fece proseguire
la lezione che durò più di un’ora. Ma l’avere Elisabetta ritrovate le corde,
per il fratello fu una grande confusione e si riempì di sommo timore; andava
dicendo con gli altri: Chi glielo ha mai
detto che sotto quella tela c’erano
le corde? La figlia minore per quel giorno non si curò di pranzare stando
sempre al fianco della madre per difenderla, sebbene più volte tentarono di
strapparla via con grande violenza, ma questa si attaccava al braccio della
madre e diceva: Uccidetemi pure ma non sarà mai che io lasci mamma mia. E
fra tutti questi diverbi Elisabetta terminò di sciogliere le corde. Quando ad
un tratto gli si fece addosso il fratello e con mali termini levò furiosamente
dalle mani le corde che aveva già disciolte, e poi ebbe il coraggio, in sua
presenza, di reintesserle a suo modo. Intanto con i cenni più alteri e superbi
le mostrava il fiero sdegno che aveva contro di lei, ma era tutto effetto della
tentazione diabolica. Finalmente l’ora era tarda ed era già suonata l’Ave
Maria. Questo fratello fremeva per fare la barbara operazione di legarla e, per
consolidare che era necessario farlo, e per giustificare se stesso presso gli
altri che si trovavano riuniti: parenti, amici, benaffetti alla medesima, fece
con tutti un forte rappresaglio con delle false supposizioni, molto inventate e
male interpretate a suo modo, esagerando quello che era accaduto la mattina,
aggiungendo: Se di notte farà il medesimo
povera casa, sfortunate figlie! In
tutto questo dibattimento venne il medico. Sentendo il racconto come di pazzie
fatte da Elisabetta, le intese il polso e disse: Ci vuole subito una sanguigna.
Rispose allora la suddetta che aveva sempre taciuto, senza discolparsi: Non mi credo obbligata di obbedirlo, gli
basti quanto i miei parenti me ne hanno fatto cavare, non solo dal braccio, ma
dalle tempie, che per miracolo non sono restata scema; torni domani che il mio
polso starà quieto, senza bisogno di sanguigne. A questa determinazione e a
questo risoluto parlare di Elisabetta, non solo il fratello ma tutti i parenti
che convenivano al parlare stravagante di questi, impallidirono e si
ammutolirono. Non ebbero più ardire di parlare e se ne tornarono alle loro
case, lasciando nella loro tranquillità Elisabetta con le figlie che dicevano: Mamma mia, ci pare un mondo nuovo essere
sole! Misero al letto la madre che si trovava in pienissimi sentimenti, ma
per timore che le potesse occorrere qualche cosa la notte, la figlia minore si
portò un materasso per riposare, e seguitò a stare in camera della madre
quindici giorni, trovandosi la medesima molto abbattuta di forze.
Le figlie la mattina volevano licenziare
la donna, perché era stata causa di tanta confusione e aveva messo le mani
addosso alla madre, ma la suddetta rispose: No
figlie, non voglio da me liberarmi
dall’esercizio di pazienza, che per mezzo di questa il Signore ha permesso che
io, e voialtre, ci esercitassimo. È
un pezzo che mi perseguita, lasciamo fare vedrete che lo farà da sé senza bisogno di licenziarla.
Difatti era restata molto confusa per le ciarle false riportate e dopo pochi
giorni disse ad Elisabetta: Ho pensato di
tornare fra i miei parenti, non voglio più servire, sicché mi dia licenza e me
ne andrò; se vuole aspetto finché trova un’altra donna. A questo la
suddetta rispose: Non importa, fate il
comodo vostro, tanto le mie figlie sono giovanotte
e sanno fare quello che c’è da fare, e in questo modo, questa molestissima
donna se ne andò in pace e le figlie restarono sommamente contente.
Per dare termine all’anzidetto accaduto,
la mattina appresso, tornò il medico101 e trovò Elisabetta non solo in
pienissimi sentimenti, ma con il polso quietissimo, compariva solo un poco
debole. Principiò a dire: Dov’è andato
tutto il male di questi giorni e quello di ieri sera? Come, siete guarita del
tutto in così poche ore? Ah, bisogna dire che per voi il medico è inutile!
Lo diceva ridendo ma era fuori di sé per lo stupore: Il Signore vi manda dalla sinistra alla destra come gli piace. Ieri sera
tutto quel precipizio; mi fecero credere che eravate pazza. Questa mattina vi
trovo sola con le figlie in somma tranquillità. Dove sono andati tutti quei
furibondi che parevano invasati dal demonio? Rispose Elisabetta ridendo,
come in celia: Se tali erano, per grazia
di Dio sono tornati tutti alle loro case. E così dicendo il medico se ne
andò ammirato ed edificato, riconoscendo l’opera prodigiosa del Signore verso
la sua serva.
Nel tempo dunque della convalescenza di
Elisabetta, la figlia come ho detto, restò la notte nella sua camera per
assisterla, e in quella occasione le confidò quello che aveva sofferto per i
demoni e gli aiuti che aveva ricevuto dal cielo.
Così principiò Elisabetta il suo discorso
con la figlia.
Adesso
che abbiamo un poco di tempo comodo e tranquillo, sono obbligata a narrarti
quanto mi è seguito nella malattia, volendo così il Signore che voi siate a
parte delle grazie e delle misericordie compartitemi. Aiutami figlia a
ringraziarlo e a pregarlo che mi conceda di corrispondere, temendo sempre di
me. Quel giorno dunque che io fui sorpresa da quel male mortale
la cagione fu nel vedere la potestà delle tenebre con armata mano, erano quelli
spiriti infernali tutti congiurati contro di me, e con baldanza e superbia si
burlavano di me, schernendomi ed insultandomi; mostrandomi i più crudeli
supplizi infernali, facevano prova di spaventarmi, perché mi fossi arresa alle
loro voglie, col farmi negare la fede di Gesù Cristo, e rendermi loro seguace.
Certo
che il solo vedere quei mostri infernali tanto arrabbiati e così brutti e
spaventosi, tanto sdegnati contro di me, il veder poi quei barbari supplizi
infernali, vi dico al certo che mi spaventarono; ma la promessa che mi
aveva fatto il mio Dio di aiutarmi, per mezzo della sua divina grazia, questa
mi dava un grande coraggio non solo di vedere quei supplizi, ma di provarli. Mi
raccomandavo intanto al mio Dio, acciò mi aiutasse in quel penoso conflitto, ed
intanto quei maligni spiriti, arrabbiati perché non mi arrendevo alle loro
voglie, mi furono addosso, e con verghe di ferro mi dettero molte percosse.
Quali e quanti fossero i supplizi che mi fecero provare quei maligni spiriti,
non te li posso spiegare, perché non è di mente umana poterlo comprendere. Ma
per verità devo confessare a gloria dell’Onnipotente Iddio senza del quale
sarebbe stato impossibile reggere al solo vedere la spaventevole bruttezza di
quei maligni spiriti e i supplizi infernali che tenevano nelle loro mani, solo
bastava per farmi arrendere alle loro
voglie. Ma buon per me che, assistita dalla divina grazia, potei con prontezza
e fortezza di spirito ridermi della loro barbarie, perché la povera anima mia,
umiliandosi profondamente fino all’abisso del proprio suo nulla, diceva con
grande fiducia e santa libertà di
spirito: «Omnia possum in eo qui me confortat,
ad maiorem Dei gloriam»102. Così
dicendo come lo sentiste, ma non capivate il senso, si diede principio alla
sanguinosa pugna103. Fui
assalita dalle più fiere tentazioni e desolazioni di spirito, il corpo era
abbattuto nei sensi con i più spietati tormenti. Fui dunque flagellata con
verghe di ferro, con tanta empietà da quei maligni spiriti che mi parve che mi
avessero infrante tutte le ossa. Solo questo bastava per farmi morire, e certamente
sarei morta, se dopo di questo, non fosse accorso Iddio medesimo a guarirmi,
per mezzo di uno splendore chiarissimo di luce divina, la quale venne ad
investire il mio malmenato corpo, e con il suo splendido contatto immantinente
restai sanata e piena di gaudio di paradiso restò la povera anima mia,
dileguandomi la desolazione e la tristezza.
Iddio
l’abbracciò e la rese molto forte per sostenere le altre battaglie. Mi diedero
poi un altro supplizio così barbaro, che credetti veramente di non poterlo
soffrire e mi parve di morire. Questo fu di mettermi al collo una collana ben
grossa di ferro, e me la strinsero con tanta crudeltà che mi impedì di poter
prendere cibo di sorta alcuna, né potevo inghiottire una stilla d’acqua. E poi
voi lo sapete meglio di me, quanto vi prestaste per farmi sostentare, ma vi
riuscì sempre inutile, perché otto giorni mi convenne sostenere questo
supplizio. Per la grave compressione mi si ulcerò tutta la gola e la bocca,
oltre ciò con un crudo ferro mi martirizzavano la bocca e la gola, che per
essere così ulcerata pativo spasimi di morte, come bene vi accorgevate del mio
grave patire benché io non parlassi. Ma vedete figlia, come la misericordia di
Dio vegliava sopra di me: dopo otto giorni del mio patire, ecco il
solito splendore divino, che tutta a sé mi attrasse, ed immantinente104 guarisce tutti i miei malori e consola e conforta la povera anima mia.
Iddio mi parla al cuore e mi chiama «oggetto delle sue più alte compiacenze», e
mi unisce a Sé come tutta Sua, comunicandomi il fuoco della divina carità,
l’eterno Suo amore e qual coraggio mi donò per più patire per la Sua gloria e
per il Suo onore e per il bene della Santa Chiesa e per la salvezza eterna
delle anime del mio prossimo.
Il
terzo supplizio che mi dettero questi maligni spiriti fu che con somma crudeltà
e barbarie mi inchiodarono sopra una croce. Qual dolore patissi nelle mani e
nei piedi non è possibile che ve lo possa ridire. Questo supplizio mi fece
propriamente agonizzare. Stando in questa dolorosissima e desolata situazione,
quei maligni spiriti m’insultavano, mi beffavano e mi dicevano:
«Ecco di che moneta ti
paga il tuo Dio, cui giurasti la tua fedeltà! Sciocca che sei, negagli quella
fedeltà che gli giurasti, noi ti promettiamo di farti beata sulla terra, noi ti
daremo onori, gloria, grandezze e quanto mai puoi desiderare. Una sola tua
parola ci basta. Devi dire con tutto
il cuore che rinunzi a Iddio, che vuoi essere anticristiana, questo basta, questo basta». Quei maligni spiriti gridavano tutti a viva voce: «Altrimenti noi non lasceremo mai
di perseguitarti, e con replicati supplizi ti daremo la morte. Il tuo Dio ti ha
lasciato nelle nostre mani ed abbiamo sopra di te tutta la potestà».
A
queste parole, la povera anima mia aiutata dalla divina grazia, con grande
coraggio rispondeva: «Voglio essere fedele al mio Dio fino all’ultimo
respiro della mia vita, sono contenta di patire e mi protesto di essere fedele
seguace di Gesù Crocifisso. A questo oggetto rinnovo la professione che feci
nel Santo battesimo: rinunzio al mondo, al demonio e alla carne, rinunzio alle
sue pompe, alle sue vanità e alle tue nefande suggestioni, o maligno spirito
delle tenebre. Iddio solo voglio amare, Iddio solo voglio venerare, Iddio solo
voglio servire e seguire con la perfetta osservanza dei Suoi Santi
Comandamenti, soggettando il mio intelletto a credere tutti i misteri della
santa fede e tutto quello che crede la Santa Madre Chiesa Cattolica Apostolica
Romana. Per questa santa fede sono sempre pronta a dare il sangue e la vita, ed
in questa santa fede voglio vivere e morire».
Dopo
avermi con tanto spasimo e dolore crocifissa, in questa dolorosissima
situazione mi trattenevo in mezzo a mille scherni, beffe ed insulti, credevo
per l’acerbità dei forti dolori, di rendere ogni momento l’anima a
Iddio. In questo tempo venne in mente ad uno di quei maligni spiriti, che a
gran folla si trattenevano burlandomi e offendendomi e insultavano la mia
pazienza, compiacendosi di avermi inchiodata sopra una croce con tanta crudeltà
e si rallegravano di avermi ridotto in quel deplorabile stato, di dire ad alta
voce: «Le manca il titolo, per cui l’abbiamo ridotta così». Tutti gli altri con grida di consolazione a
viva voce gridavano: «Ha ragione, ha ragione, le manca il titolo, le manca
il titolo», e così dicendo viepiù
m’insultavano dicendomi: «Un’altra pena ti aspetta, presto si affretti,
presto si affretti». Ed intanto presero
una tavoletta dove era scritto a lettere maiuscole: QUESTA È VERA SEGUACE DI
GESÙ NAZARENO. Tutti quei maligni spiriti rispondevano ad alta voce: «Questo
è il motivo per cui la perseguitiamo». Ed
intanto, presa una pesante mazza di ferro ad uso di martello, con grosso chiodo
dalla punta acutissima, nei miei piedi, già trafitti, con spasimo crudele
l’affissero. A quegli spietati colpi credetti di morire, per l’acerbità del
dolore. Non mancò a quei maligni spiriti di trovare la maniera più crudele, con
artificiosa malizia, per tormentarmi l’anima e il corpo.
Uno
di quei maligni spiriti prese la forma del mio confessore; il suo abito
religioso, il suo personale, la sua parlata e pronunzia spagnola, era del tutto
al medesimo simile. Comparve nella mia camera, tutto rabbuffato105 e adirato contro di me, chiamandomi impostora, superba, meritevole di
ogni castigo e di ogni infame morte per non avere dato ascolto ai suoi
consigli; perché molte altre volte mi era apparso questo finto confessore e mi
aveva dato pessimi consigli, da me sempre disprezzati per mezzo della grazia
di Dio.
Qual
pena recasse al povero mio spirito questo disprezzo non ve lo posso spiegare: «Come?»,
dicevo fra me, «il mio confessore sa perché patisco, pure egli stesso mi
consigliò, mi obbligò di offrirmi qual vittima di espiazione per i presenti
bisogni di Santa Chiesa, e per il bene di tutto il cattolicesimo. Dunque,
adesso si è dimenticato di tutto quello che nello scorso mese io gli dissi, che
l’eterno divino Padre, per mezzo di Gesù Cristo, aveva per sua bontà accettato il mio povero sagrificio e si sarebbe
degnato di dar luogo alla sua misericordia col sospendere l’imminente flagello,
ma che io avevo molto da patire e avrei dovuto sostenere una crudele battaglia
con la potestà delle tenebre e tutto l’inferno avrebbe congiurato contro di me?
Adesso che si avvera la promessa che il Signore mi ha fatto e sono sul punto di
ottenere la divina misericordia, invece di aiutarmi e soccorrermi, non solo mi
abbandona in questo grave patimento e grande pericolo, ma di più mi disprezza,
mi schernisce, mi insulta, mi consiglia ad arrendermi alle voglie dei miei
nemici? Io lo credevo un santo, e adesso mi pare un uomo tanto cattivo e
malizioso. Questo veramente non l’avrei mai creduto». Quale pena mi desse questa frode, questo malizioso inganno di
satanasso, non vi so dire la pena
grande che sentivo credendo in realtà che questo ministro di Dio fosse
pervertito e divenuto un apostata106; pena grande per vedermi in questo modo priva di ogni umano
soccorso, mentre da altri non potevo sperarlo, ma solo dal mio proprio
confessore, il quale sapeva tutto il fatto e poi, essendo molti anni che mi
guida, pensavo, conosce appieno il mio spirito.
Questo
apparente inganno dava tanta afflizione al mio spirito, tanto era grande la
pena e l’angustia che non la potevo arrivare a superare. Ogni giorno mi si
rendeva più sensibile. Questo malizioso inganno seguì fino dai primi giorni
della mia tribolazione, e sempre più si accrebbe fino all’ultimo giorno che con
la grazia di Dio vinsi la forte battaglia e restai vittoriosa dei miei spietati
nemici.
Per
dirvi tutto, il finto confessore era il più crudele mio giudice e carnefice
insieme, mentre ogni giorno viepiù incrudeliva contro di me, ordinando a bella
posta a quei maligni spiriti che, se non volevo arrendermi alle loro voglie, mi
avessero strapazzato con crudeli tormenti. E quando stavo così derelitta ed
agonizzante sopra la croce, di sua propria mano mi scagliò cinque grosse
pietre, a guisa di selci infuocati, i quali mi fecero cinque dolorosissime
piaghe, che credevo proprio di morire di spasimo. Vedendo che io non mi arrendevo
alle sue voglie con questo barbaro patimento, ma ero sempre
stabile nell’essere fedele al mio Dio, disprezzando ogni sorta di patimento,
con eroica fortezza, somministratami dalla grazia di Dio, ero sempre più forte,
con somma rabbia pieno di sdegno se ne partì furiosamente dalla mia camera.
Non
avrei al certo potuto sostenere una sì forte e crudele battaglia e simili
patimenti se non mi avesse il mio Dio ricreata colla sua reale presenza. Mi si
diede a vedere l’umanità santissima di Gesù Cristo tutta raggiante di luce,
corteggiato da schiere angeliche, di sua propria mano mi schiodò dalla croce e
mi medicò con unguento prezioso che scaturiva dal suo sagro costato ed
immantinente restai sanata; poi mi fece godere un’armonia angelica che sollevò
la mia mente a contemplare la visione beatifica di Dio. Il godere di questo
gran bene mi fece affatto scordare tutte le pene e martìri sofferti. Quale
consolazione e gaudio di paradiso non mi è possibile potervelo spiegare. Dico
di aver goduto la visione beatifica di Dio, ma intendo dire per quanto si può
godere da un’anima ancora viatrice. Ma siccome il favore fu tanto grande, non
ho termini per esprimermi. Ho goduto dunque questo gran bene, veramente
inenarrabile ed incomprensibile, con il quale fu ristorato il mio spirito ed il
mio corpo, ma non terminarono qui i miei patimenti e le sevizie del maligno
tentatore. Dovetti soffrire un altro martirio molto crudele, che mi fece
spasimare giorni e notti; questo fu di mettermi
quei maligni spiriti certe piastrine di ferro molto calcate dentro le orecchie,
servendosi di certi ferri molto puntuti
per calcarle bene dentro, che per essere le suddette piastrine fini e
taglienti, mi davano un dolore tanto grande nelle orecchie, che mi cagionava un
spasimo alla testa e al collo, tanto afflittivo che mi pareva ogni momento di
morire. E non avrei potuto sopravvivere con questi gravi patimenti senza una
grazia speciale di Dio. Questi spasimi di morte mi fecero perdere affatto la ragione,
e per questo non conoscevo più i giusti sensi, come bene vi accorgevate voi e
gli altri. Di più, oltre a questo, quello che pativo nello spirito, non ve lo
potete immaginare.
Mi
comparivano quei maligni spiriti in forma di animali tanto brutti e spaventevoli
che mi davano un terrore terribile, e mi riempivano
di sommo spavento. Queste bruttissime bestie giravano tutta la casa, senza
peraltro potersi a me accostare, né darmi alcuna molestia, ma la mia maggiore
afflizione era di vedere queste brutte bestie che vi inseguivano continuamente,
per questo avrei voluto tenervi sempre accanto al mio letto, per timore che
quando partivate dalla mia camera dubitavo sempre di qualche sinistro
avvenimento, perché vedevo quei bruttissimi animali che vi andavano appresso
per offendervi. Adesso distinguo quanto avete sofferto nel volervi sempre a me
vicino, mentre avevate da dare sesto alle aziende di casa.
Non
è al certo possibile manifestare altri favori che ricevetti, ma con mia confusione
proseguirò.
Frequentemente
ero visitata da Maria santissima che mi si dava a vedere corteggiata da uno
stuolo di sante vergini. L’amabile presenza di questa amorosa Madre e il suo
nobile corteggio riempiva il mio cuore di dolcezza di paradiso. Le amabilissime
parole che pronunziava con accenti materni, chiamandomi con il dolce nome di «figlia Sua prediletta», la sua carità, con l’approssimarsi al mio
letto e di propria mano risanare con il suo pietoso contatto tutte le mie
piaghe e restituire all’istante la perduta salute e risanare il mio corpo
infranto per le fiere percosse e consolare il mio afflitto spirito con celesti
consolazioni di paradiso e arrivare perfino ad encomiare107 la mia virtù alla presenza di quelle
sante vergini.
Qual
tenerezza e qual profonda umiltà recò il suo elogio al povero mio spirito!
Quante lagrime di amore e di annientamento insieme! Nuove offerte facevo di
tutta me stessa per la gloria di Dio. Quale fuoco di santa carità incendiava il
mio cuore non posso al certo esprimerlo. Questi divini favori erano tanto
esuberanti e tanto grati al mio cuore, che mi facevano affatto dimenticare
tutto quello che avevo sofferto e patito, anzi mi davano un grande desiderio,
una grande ansietà di più patire.
Più
volte godei della divina presenza dell’umanità santissima di Gesù Cristo, il
quale mi compariva cinto d’immensa gloria, corteggiato da grande numero di
angeli e di santi, segnatamente dai santi apostoli. Oh come in
tutti questi gloriosi santi si distingueva l’alta gloria dei santi apostoli
Pietro e Paolo, godendo la preminenza sopra gli altri santi, stando al fianco
del loro divino Maestro, Signor nostro Gesù Cristo, godendo così più da vicino
il glorioso suo splendore e la divina sua gloria!
Oh
come questo immenso stuolo di angeli e santi lodavano, benedicevano, amavano,
ringraziavano l’altissimo Iddio degli eserciti, assoluto padrone del cielo e
della terra!
L’umanità
santissima di Gesù Cristo era unita alla sua divinità, sicché la povera anima
mia si trovò alla presenza dell’augustissima Trinità, godendo di questo
altissimo ed incomprensibilissimo mistero fui subito tutta assorta in Dio.
Restarono estatiche le potenze dell’anima mia, un torrente di gaudio di
paradiso inondò il mio spirito. Qual profonda riverenza ed ossequioso rispetto
sentivo in tutta me stessa, quale stupore, qual maraviglia, non ve lo so
spiegare! Quale magnificenza, quale altezza porta seco questo altissimo e
profondissimo mistero, perché la sua triplicità immensa contiene tutto
l’infinito suo essere e tutte le sue divine perfezioni sono racchiuse in questo
altissimo mistero.
In
questa estasi prodigiosa e meravigliosa insieme, per esprimermi, perché avanti
alla tremenda maestà di Iddio parevami di essere un piccolissimo insetto della
terra.
La
sua infinita grandezza con l’estremità della mia somma bassezza tanto altamente
mi confondeva e mi annientava. Questo contrapposto così dissonante mi faceva
conoscere l’alta bontà di Dio nell’avermi tanto innalzata sopra me stessa.
Oh
qual profondo di umiltà sentivo nell’anima mia, quale annientamento di me
stessa sentivo alla sua divina presenza! Il suo benigno sguardo era sopra
questo misero insetto, comunicandomi e manifestandomi i suoi divini sentimenti
e le sue divine determinazioni. Mi diede a conoscere grandi cose riguardanti la
Chiesa militante; tutto questo non fu con parole sensibili, ma per cognizione
intellettuale ed intima penetrazione. Iddio mi manifestava la sua divina
volontà per via di intelligenza, così mi diceva senza parlarmi, ma in modo
assai più chiaro che se mi avesse parlato sensibilmente.
Ecco
le sue divine espressioni: «Mia diletta figlia, hai vinto! Il tuo sagrificio costante e forte ha fatto
violenza alla mia irritata giustizia. Per l’amore che ti porto, prendo altra
determinazione, e in luogo di castigare severamente tutto il mondo, come avevo
determinato, sospendo per ora il severo castigo e dò luogo alla mia
misericordia. Mia diletta figlia, voglio compiacerti con l’appagare i tuoi
santi desideri, voglio pagarti quello che patisti per amor mio. Rallegrati, o
figlia, oggetto delle mie compiacenze. Non più disperso sarà il cristianesimo,
né Roma priva sarà di possedere il tesoro della cattedra dell’infallibile
verità di Chiesa Santa. Io riformerò il mio popolo e la mia Chiesa. Manderò
zelanti sacerdoti a predicare la mia fede, formerò un nuovo apostolato, manderò
il mio divino Spirito a rinnovare la terra. Riformerò gli Ordini religiosi per
mezzo di nuovi riformatori santi e dotti, e tutti possederanno lo spirito del
mio diletto figlio Ignazio di Lodola108. Darò un nuovo pastore alla mia
Chiesa, dotto e santo, ripieno del mio Spirito; con il suo santo zelo riformerà
il gregge di Gesù Cristo».
Mi
diede a conoscere molte altre cose concernenti questa riforma e le Sue divine
determinazioni e i rettissimi giudizi di Dio. Tutto vedevo, tutto comprendevo
chiarissimamente e tutto approvavo per giusto, santo e retto.
Ecco
come trionfano i tre divini attributi di un Dio trino ed uno, che in tutto si
glorifica in se stesso. Questa cognizione e penetrazione di Dio fece sì che la
povera anima mia altamente si compiacesse dell’infinita immensità di Dio, e
così si perdeva affatto nella sua immensità. L’anima mia perdeva la qualità del
suo proprio essere e si trasformava tutta in Dio, come si perderebbe
e trasformerebbe una piccola goccia di vino in mezzo al vasto mare, questa
goccia più non si troverebbe. In modo più particolare e senza paragone assai
più sublime, si trasformò la povera anima mia in Dio; assai più unita e
immedesimata, senza peraltro poterlo spiegare né farvelo comprendere per la sua
sublimità e grandezza.
Giacché
siete desiderosa di sentire e comprendere il senso delle mie ultime operazioni
giudicate esteriormente per pazzie, vi spiegherò il senso di tutto perché
possiate unitamente con me ringraziare il Signore delle grandi misericordie
compartitemi.
Ecco
come trionfai dei miei nemici. Quando mi volli alzare dal letto, andai con
l’aspersorio benedicendo con l’acqua santa tutta la casa, andavo nel nome di
Dio, fugando tutti quei maligni spiriti che avevano preso possesso di tutta la
casa, e così facendo ne andavo riprendendone i miei diritti. Iddio per farlo mi
dava a conoscere quello che dovevo fare e io mediante la divina grazia,
adempivo puntualmente la divina ispirazione, e con questa potei fare questa
grande opera, mentre Iddio mi aveva data tutta la potestà, nel Suo santissimo
nome.
Presi
tutte le chiavi delle porte di casa e in atto di padronanza aprii e chiusi le
porte, come vedeste. Conosco e compatisco mio fratello e la donna che
giudicavano il mio operare come pazzia, ma non era così; voi conoscevate il
senso, per questo mi lasciaste fare e mi accompagnaste con l’acqua santa, il
campanello e molto di più con le orazioni. Potei radunare in un luogo solo,
tutti quei maligni spiriti, con grande loro confusione e rossore.
Il
mio Dio, per Sua bontà, non mancò di manifestarmi che li aveva confinati e
annientati in quei piccoli semetti di erbetta e di fiori che voialtre tenevate
in quella scatola di legno di Germania; per questo l’andai a prendere e
immantinente la detti alle fiamme e, per fare più presto presi la carta bianca
per accrescere il fuoco. I botti che fecero quei semetti, lo capiste, non era
cosa naturale; non vi so spiegare quanto fu grande la rabbia e lo sdegno contro
di me di quei maligni spiriti, vedendosi vinti ed oppressi da una povera
donnicciola come sono io. Questa superba potestà dovette tornare all’inferno, e
invece di riportare il trionfo dovette tornare piena di vergognosa confusione e
a suo marcio dispetto confessare l’Onnipotenza di Dio che sa trionfare sopra le
sue creature e in un istante sa umiliare e confondere la diabolica malizia.
Come
mi confonde il pensare che una vile creaturella peccatrice, quale sono, fu
vittoriosa della loro crudeltà; la somma facilità che Iddio mi diede, la potestà
che mi compartì per soggettarli tutti a me e fugarli e nuovamente rilegarli nel
cupo abisso dell’inferno; puoi ben comprendere qual potesse essere la loro
rabbia contro di me. Non potendomi più perseguitare né offendere di propria
mano, ricorsero ad altra malizia per fare l’ultimo tentativo, per vedermi
almeno storpia o ridurmi in un fondo di letto. Si
servirono del mezzo dei parenti con l’accrescimento della forte tentazione, e
ben conosceste che erano invasati dal demonio. Per questo brugiavo la mollica
di pane sul fuoco e con quel fumo vedevo chiaramente che si andava dileguando
in parte la loro tentazione. Oltre di questo, in questa mollica brugiata andavo
considerando quando il mio Dio si degnò di immolarsi umanato sopra il patibolo
della croce, consumato dal suo medesimo fuoco d’amore. Con quel misterioso fumo
io sentivo un grande accrescimento di fortezza con una sicura speranza di
vincere e superare la diabolica malizia, nel nome dell’altissimo Iddio, a cui mi ero tutta dedicata, e ne aspettavo con
sicurezza dal Suo onnipotente braccio la compiuta vittoria, come seguì.
Foste
testimone oculare delle misericordie del Signore e tutto quel fermento dei
parenti terminò in un baleno con stupore e meraviglia di loro medesimi. Non
credere, figlia mia, che non sentissi urto né stizza contro mio fratello e la
donna che mi maltrattò tanto; presi quel contegno per far fronte al demonio e
non per loro, perché li compativo. Credendo che fosse un male naturale volevano
ripararlo e non operavano con cattivo fine contro di me, e poi erano troppo
frastornati dalla forte tentazione del demonio e nemmeno loro sapevano quello
che facevano. Io li ho scusati, non sentendo la minima avversione con alcuno.
Terminerò le mie spiegazioni con il descrivervi il
significato perché ruppi quelle tre piccole pile sopra il camino, cagione di
tanta inquietezza di mio fratello, giudicandomi per pazza. Stavano quelle
pilette vuote sopra il camino per sola apparenza, rassembrandomi109 come quei ministri del santuario che sono
vuoti dello Spirito del Signore e si trattengono per sola esteriorità vicino ai
sagri altari. Vi dico la verità che ne sento tanta pena, ma purtroppo di questi
tali ve ne sono, che sono vestiti di sola apparenza. Oh che cosa lagrimevole è
mai questa! Fui talmente sopraffatta da questo sentimento e presa come da zelo
che nel rompere quelle pilette vuote mi sembrava di scansare quei cuori vuoti
dal santuario.
Ah
mamma mia - soggiunse la
figlia - le dico la verità, in questa sua
malattia abbiamo molto sofferto, segnatamente
io che mi trattenevo sempre accanto al suo letto e più degli altri mi avvedevo
di tutto, tanto quando soffriva a causa dei demoni che, quando era favorita dal
Signore, provandone in me i buoni effetti.
Le
dico sinceramente che la sua malattia è stata di profitto al mio spirito più
che gli esercizi spirituali, mentre lei mi dava in quel tempo i sentimenti più
chiari dell’amor grande di Dio, segnatamente quando parlava della passione e
morte di Gesù Cristo, con tanto amore e tenerezza, particolarmente delle sette
parole che disse sopra la croce che lei pronunziava con tanto affetto, che io
ci trovavo un pascolo spirituale e una grande dolcezza.
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