Come si è accennato, Elisabetta dal giorno
che andò a visitare la Chiesa di San Giovanni, restò ristabilita mirabilmente
in salute e poté riprendere le mortificazioni, i digiuni e le austerità e non
guardò più il letto fino al termine dell’anno 1824, prossimo al suo transito,
tranne qualche momento che le figlie la facevano adagiare sopra il letto quando
la vedevano alienata dai sensi, che all’esterno compariva come uno svenimento.
Riprese dunque il suo sistema la medesima
passando si può dire giorno e notte in orazione, avendo dato tutto il pensiero
dell’andamento della casa alle figlie, benché ella non lasciava che operassero
senza la sua intelligenza, in tutte le cose.
Voleva prestarsi alle faccende domestiche
e ai lavori, ma nell’atto che operava restava estatica; se lavorava le cadeva
il lavoro dalle mani e, ridendo diceva alle figlie: Vedete non sono più buona a
niente, e le figlie rispondevano: Mamma
mia lasci fare a noi, tanto arriviamo a fare tutto quello che ci bisogna per
casa, ci basta vederla bene in salute, non pensi ad altro. Quanto si
mostrava grata alle figlie che le toglievano il pensiero e direi lo scrupolo di
operare e lavorare! ma le sue premure peraltro erano che le figlie le tenessero
pronto il lavoro per quando qualcuno andava a visitarla, sia persone
ecclesiastiche sia secolari, perché diceva: Temo
di fare la brutta figura di addormentarmi, così, con il lavoro in mano è più difficile.
Nel dire questo rideva, perché alle volte
nemmeno il lavoro era sufficiente a non farla restare per qualche momento fuori
dai sensi. Pregava il Signore che non permettesse che quelle persone si
avvedessero esteriormente dei suoi favori e chiamate e, a forza di lavorare con
fretta e premura distoglieva lo spirito da quel raccoglimento che sentiva di
volare al Suo Dio.
Un giorno la figlia le dette da lavorare
una soletta nel tempo che una persona stava discorrendo e prendendo consigli da
lei. Andò un poco a lungo la conferenza ed Elisabetta lavorò tanto che la
soletta era lunga un buon palmo e mezzo. Quando le figlie videro quella
soletta, le dissero: Mamma mia è vergogna
che lei lavori tanto davanti alle persone, pare si abbia da mangiare! E che volete fare, rispose, sono
mezza rimbambita, non conosco più le convenienze,
tutti devono avere pazienza con me. E così celiando risero tutte e tre per
questa lunghissima soletta. Mi sono diffusa troppo in questo, fuori di quello
che mi ero proposta, ma era necessario accennare al tenore di vita che tenne
dopo la malattia, posso dire con tutta verità che stava più in cielo che in
terra.
Era da tempo che la madre di Elisabetta
soffriva degli incomodi di salute anche per l’avanzata età di ottant’anni e
passa; la suddetta voleva spesso le nuove e in sua vece mandava le figlie con
la donna e per mortificare quella tenerezza filiale si asteneva dall’andarvi di
persona.
Ora avvenne che la buona Teresa fu
sorpresa da malattia mortale; il medico le ordinò i sagramenti: Sì di cuore e volentieri li ricevo,
disse l’inferma, ma assicurò il medico e anche il curato che ancora non era
giunto il tempo della sua morte, perché avendo nella loro famiglia la
figliolanza di San Francesco, non sarebbe trapassata senza un anticipato
avviso, in ogni modo si confessò e ricevette il santissimo viatico.
Dopo migliorò in modo che era fuori
pericolo, si può dire in convalescenza e la figlia nubile, che l’assisteva, si
era consolata con tutti gli altri figli.
Un giorno all’improvviso Elisabetta dice
alle figlie: Vestitevi e andiamo, devo
andare a ricevere l’ultima
benedizione da mia madre. Arrivata che fu si trattenne molto tempo da sola
a discorrere con la madre, dopo entrarono le figlie a salutare la nonna, la
quale prese congedo dalle nipoti, dicendo: Vedete,
tutti si erano allarmati per la mia malattia, adesso in realtà sembra che io
stia assai meglio. Il medico giudica che sia guarita e non mi vuole guardare.
Poco più mi resta da vivere, l’ho detto
anche al curato, «Stia pronto quando lo manderò a chiamare». Credete ragazze mie,
ridono con me; ma io aspettavo l’avviso da San Francesco e da altri Santi,
questa intelligenza l’ho avuta e vostra madre, mia figlia mi ha confermato il
medesimo; pregate per me e vi benedico.
Appena tornata a casa, Elisabetta disse
alle figlie: Lasciatemi andare in
cappella per pregare il Signore per un felice passaggio all’altra vita della
mia buona genitrice, che seguirà non ricordo bene se nella notte o il giorno
seguente.
Benché si vedeva che Elisabetta era
rassegnata alle divine disposizioni, in ogni modo la sensibilità naturale per
la perdita della propria madre dovette sentirla al vivo. Prolungò la sua
orazione in cappella, se non erro tutta la notte e tutto il giorno seguente.
Disse poi alle figlie il momento in cui era spirata e le esortò a fare dei
suffragi con lei.
Non rammento bene se facesse fare la Via Crucis ed altre preci. Intanto
vennero i fratelli e la sorella maggiore che aveva assistito fino all’ultimo
respiro la loro madre a sfogare il dolore. Elisabetta li consolò, dicendo: Bisogna rassegnarsi e consolarsi perché era
una santa donna e ha fatto una morte preziosa al cospetto di Dio, adesso
dobbiamo aiutarla con i suffragi. Come
figli siamo obbligati a fare quanto possiamo. E in questo modo consolò
tutti ed animò i suoi fratelli a fare del bene, delle comunioni e facendo
celebrare delle Messe. Terminate le condoglianze se ne tornò subito in cappella
a pregare con tutto l’impegno per la sollecita liberazione dal purgatorio della
sua genitrice. Fu tanto efficace la preghiera che Gesù Cristo medesimo le
disse: Quest’anima sarà liberata dal purgatorio durante la prima Messa che
farai celebrare per i morti nella tua cappella. Non mi sovviene se il
giorno dopo o l’altro giorno seguente combinasse di semidoppio per poter far
celebrare la Messa dei defunti, e così si fece. Chi può descrivere l’esuberanza
di affetti nell’ascoltare quella Messa e nel ricevere la Santa Comunione, nel
qual tempo il Signore le fece vedere l’ingresso di quest’anima in cielo
accompagnata dal suo santo angelo custode, in mezzo ad un bello splendore di
chiarissima luce. Come restasse estatica tutto quel giorno non si può dire! mi
pare che in quel giorno non prese cibo alcuno tanto era fuori di sé per la
gioia. Così raccontò il tutto a sua figlia in confidenza. Non mi sovviene
l’epoca precisa quando fu sorpresa di male apoplettico una nipote del consorte,
figlia di una sorella del medesimo. Questa era una giovane molto qualificata
per bellezza ed ingegno raro, molto ricca, aveva tre figlioletti, il consorte
era il cavaliere Canoncini. Si amavano grandemente e nel più bello della
gioventù fu sorpresa da male apoplettico. Al momento il consorte della medesima
mandò a chiamare la madre della sua consorte e la nonna, suocera di Elisabetta.
Quest’ultima, appena arrivata in casa dell’inferma che giaceva come morta senza
sentimenti, mandò a dire subito ad Elisabetta che avesse pregato caldamente il
Signore per la nipote inferma; se era giovevole alla sua anima le avesse
restituita la salute di prima, se poi volesse chiamarla all’altra vita, le
ottenesse di restituirle la facoltà per ricevere i santi sagramenti.
Elisabetta ricevuta l’ambasciata se ne
andò subito in cappella ad orare e il giorno dopo l’inferma si riscosse dal suo
letargo e ricevette con molto sentimento i santi sagramenti. Parlava in pieni
sentimenti in maniera tale che i medici la tenevano per guarita tanto era
notabile il miglioramento. Ma l’inferma disse: Non mi lusingo, la grazia l’ho ricevuta per l’anima, fece lo spoglio dei beni, raccomandò i figli al consorte,
parlò a lungo con il medesimo e dopo aver accomodato tutte le sue partite, con
molto spirito e rassegnazione, tornò al sopore mortale nel quale sopravvisse
due o tre giorni. Niente le giovò per riaverla in sentimenti, nonostante i
rimedi che furono applicati. Tutti attestarono che si poteva ritenere un vero
miracolo l’avere per quel giorno riacquistato i sentimenti.
Non tralasciò Elisabetta di continuare la
sua preghiera per quest’inferma, per aiutarla ad un felice passaggio, mentre il
Signore le aveva fatto intendere che voleva richiamarla da questa vita, essendo
il meglio per l’anima sua. Se ne stava dunque la medesima nella sua cappella
quando ad un tratto chiama le figlie e dice: Sappiate che in questo momento è trapassata Maddalena - così si
chiamava – in un baleno mi sono trovata con lo spirito nella sua camera e ho veduto
portare per mano di vari angeli Gesù Nazareno con tutto il tempietto come sta
nella cappella, l’ha benedetta con la sua santa veste e poi è spirata.
Le figlie a questo dire della madre
restarono stupefatte, benché non fossero tanto nuovi questi favori, perché in
molte occasioni vedevano che il tutto si avverava comprese le grazie che molti
ricevevano per mezzo delle sue orazioni. Restarono peraltro molto dispiaciute
per la perdita della loro cugina che amavano molto essendo, si può dire,
cresciute insieme, specialmente quando era vivo il nonno.
In questa nuova afflittiva dissero le
figlie: Mamma mia, le faccia dei suffragi
perché presto Maddalena vada in paradiso, noi pure faremo quanto potremo. Rispose Elisabetta: Non dubitate, spero che il Signore la
condurrà presto a goderlo svelatamente in cielo, in premio del sagrificio che
ha fatto della sua vita, dei figli, del consorte e delle ricchezze, con una generosità d’animo incredibile da capirlo
per i nostri sensi. Difatti dopo pochi giorni, con assidue preghiere,
Comunioni e Messe che si fecero celebrare, disse Elisabetta alle figlie: L’anima di Maddalena è giunta in cielo a
pregare per noi.
E con questo discorso fece una bella esortazione
alle figlie sulla caducità116 delle cose del mondo e il disinganno
delle grandezze che fa l’anima quando si trova al divino tribunale, non avendo
per compagnia altro che le buone opere e le virtù esercitate nel tempo della
propria vita.
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