Dopo la
partenza di Mégeant, si spiegò tutto l'orrore del destino che minacciava i
repubblicani.
Fu eretta una
delle solite Giunte di Stato nella capitale; ma già da due mesi un certo
Speziale, spedito espressamente da Sicilia, avea aperto un macello di carne
umana in Procida, ove condannò a morte un sartore perché avea cuciti gli abiti
repubblicani ai munìcipi, ed anche un notaro, il quale in tutto il tempo della
durata della repubblica non avea mai fatto nulla e si era rimasto nella
perfetta indifferenza. - Egli è un furbo - diceva Speziale: - è bene che muoia.
- Per suo ordine morirono Spanò, Schipani, Battistessa. Quest'ultimo non era
morto sulla forca; dopo esservi stato sospeso per ventiquattro ore, allorché si
portò in chiesa per seppellirlo, fu osservato che dava ancora qualche languido
segno di vita. Si domandò a Speziale che mai si dovea fare di lui: - Scannatelo
- egli rispose.
Ma la Giunta
che si era eretta in Napoli si trovò per accidente composta di uomini dabbene,
che amavano la giustizia ed odiavano il sangue. Ardirono dire al re esser
giusto e ragionevole che la capitolazione si osservasse: giusto, perché, se
prima della capitolazione si poteva non capitolare, dopo aver capitolato non
rimaneva altro che eseguire; ragionevole, perché non è mai utile che i popoli
si avvezzino a diffidare della parola di un re, e perché si deturpa così la
causa di ogni altro sovrano e si toglie ogni mezzo di calmare le rivoluzioni.
Allora fu che
Acton disse che, se non avea luogo la capitolazione, poteva averlo la clemenza
del re. Ma qual clemenza, qual generosità sperare da chi non osservava un
trattato? La prima caratteristica degli uomini vili è quella di mostrarsi
superiori al giusto e di voler dare per capriccio ciò che debbono per legge:
così sotto l'apparenza del capriccio nascondono la viltà, e promettono più di
quel che debbono per non osservare quello che hanno promesso. Rendasi giustizia
a Paolo primo. Egli conobbe quando importasse che i popoli prestassero fede
alle parole dei sovrani, ed il di lui gabinetto fu sempre per la capitolazione.
Il maggior numero degli officiali della flotta inglese compresero quanta
infamia si sarebbe rovesciata sulla loro nazione, giacché il loro ammiraglio
era il vero, l'unico autore di tanta violazione del diritto delle genti; e si
misero in aperta sedizione.
La Giunta
intanto rammentava al governo le leggi della giustizia; ed invitata a formare
una classificazione di trentamila persone arrestate (poiché non meno di tante
ve ne erano in tutte le carceri del Regno), disse che doveano esser posti in
libertà, come innocenti, tutti coloro i quali non fossero accusati di altro che
di un fatto avvenuto dopo l'arrivo dei francesi. La rivoluzione in Napoli non
potea chiamarsi «ribellione», i repubblicani non eran ribelli, ed il re non
potea imputare a delitto azioni commesse dopo che egli non era più re di
Napoli, dopo che per un diritto tanto legittimo quanto quello della conquista,
cioè quanto lo stesso diritto di suo padre e suo, aveano i francesi occupato il
di lui regno. Che se i repubblicani avean professate massime le quali parevan
distruttrici della monarchia, ciò neanche era da imputarsi loro a delitto,
perché eran le massime del vincitore, a cui era dovere ubbidire. Essi avean
professata democrazia, perché democrazia professavano i vincitori: se i
vincitori si fossero governati con ordini monarchici, i vinti avrebbero seguite
idee diverse. L'opinione dunque non dovea calcolarsi, perché non solamente non
era volontaria, ma era necessaria e giusta, perché era giusto ubbidire al
vincitore. Il voler stabilire la massima contraria, il pretendere che un popolo
dopo la legittima conquista ritenghi ancora le antiche affezioni e le antiche
idee, è lo stesso che voler fomentare l'insubordinazione, e
coll'insubordinazione voler eternare la guerra civile, la mutua diffidenza tra
i governi ed i popoli, la distruzione di ogni morale pubblica e privata, la
distruzione di tutta l'Europa. Al ministero di Napoli ciò dispiaceva, perché
nella guerra era rimasto perdente; ma, se fosse stato vincitore, se invece di
perderlo avesse conquistato un regno, gli sarebbe piaciuto che i nuovi suoi
sudditi avessero conservato troppo tenacemente e fino alla caparbietà
l'affezione alle antiche massime ed agli ordini antichi? Non avrebbe punito
come ribelle chiunque avesse troppo manifestamente desiderato l'antico sovrano?
La vera morale dei principi deve tendere a render facile la vittoria, e non già
femminilmente dispettosa la disfatta.
I princìpi
della Giunta eran quelli della ragione, e non già della corte. In questa i
partiti eran divisi. Dicesi che la regina non volesse la capitolazione, ma che,
fatta una volta, ne volesse l'osservanza: difatti era inutile coprirsi di
obbrobrio per perdere due o trecento infelici. Ruffo, autor della capitolazione,
voleva lo stesso, e divenne perciò inviso ed alla regina, che non avrebbe
voluta la capitolazione, ed agli altri, ai quali non dispiaceva che si fosse
fatta, ma non volevano che si osservasse. Le istruzioni, che furon date alla
Giunta, da persone degne di fede si assicura che furono scritte da
Castelcicala. In esse stabilivasi, come massima fondamentale, esser rei di
morte tutti coloro i quali avean seguìta la repubblica: bastava che taluno
avesse portata la coccarda nazionale. Per avere una causa di vendetta,
ammetteva che il re era partito; ma, per averne una ragione, asseriva che, ad
onta della partenza, era rimasto sempre presente in Napoli. Il Regno si
dichiarava un regno di conquista, quando si trattava di distruggere tutt'i
privilegi della Città e del Regno, i quali si chiamano quasi in tutta l'Europa
«privilegi», mentre dovrebbero esser diritti, perché fondati sulle promesse dei
re; ma, quando si trattava di dover punire i repubblicani, il Regno non era mai
stato perduto66. Tale fu la logica di Caligola, quando condannava a
morte egualmente e chi piangeva e chi gioiva per la morte di Drusilla.
Nelson, unico
autore dell'infrazione del trattato, quell'istesso Nelson che avea condotto il
re in Sicilia, lo ricondusse in Napoli, ma sempre suo prigioniero; né mai,
partendo o ritornando, ebbe mai la minima cura dell'onor di lui: giacché,
partendo, lo tenne in mostra al popolo quasi uom che disprezzasse ogni segno di
affezione che questo gli dava; tornando, quasi insultasse ai mali che soffriva.
Egli vide dal suo legno i massacri e i saccheggi della capitale. Poco di poi
con suo rescritto avvisò i magistrati che egli avea perdonato ai lazzaroni il
saccheggio del proprio palazzo, e sperava che gli altri suoi sudditi, dietro il
di lui esempio, perdonassero egualmente i danni che avean sofferti! Tutti
gl'infelici che il popolo arrestava eran condotti e presentati a lui, tutti
pesti, intrisi di polvere e di sangue, spirando quasi l'ultimo respiro. Non
s'intese mai da lui una sola parola di pietà. Era quello il tempo, il luogo ed
il modo in cui un re dovea mostrarsi al popolo suo? Egli era in mezzo ai legni
pieni d'infelici arrestati, che morivano sotto i suoi occhi per la strettezza
del sito, per la mancanza di cibi e dell'acqua, per gl'insetti, sotto la più
ardente canicola, nell'ardente clima di Napoli. Egli avea degl'infelici ai
ferri finanche nel suo legno.
Con tali
princìpi, la corte dovea stancarsi, e si stancò ben presto, delle noiose cure
che la Giunta si prendeva per la salute dell'umanità. Gli uomini dabbene, che
la componevano, furono allontanati: non rimase altro che Fiore, il quale da
piccioli princìpi era pervenuto alla carica di uditore provinciale in
Catanzaro, donde, fuggiasco pel taglione in tempo della repubblica, era
ritornato in Napoli, come Mario in Roma, spirando stragi e vendette. Ritornò
Guidobaldi, seco menando, come in trionfo, la coorte delle spie e dei delatori,
che erano fuggiti con lui. A questi due furono aggiunti Antonio La Rossa e tre
siciliani: Damiani, Sambuti ed, il più scellerato di tutti, Speziale.
La prima
operazione di Guidobaldi fu quella di transigersi con un carnefice. Al numero
immenso di coloro che egli volea impiccati, gli parve che fosse esorbitante la
mercede di sei ducati per ciascuna operazione, che per antico stabilimento il
carnefice esigeva dal fisco; credette poter procurare un gran risparmio,
sostituendo a quella mercede una pensione mensuale. Egli credeva che almeno per
dieci o dodici mesi dovesse il carnefice esser ogni giorno occupato.
La storia ci
offre mille esempi di regni perduti e poscia colle armi ricuperati: in nessuno
però si ritrovano eguali esempi di tale stolta ferocia. Silla fece morire
centomila romani non per altro che per la sua volontà: Augusto depose la sua
ferocia colle armi.
Un altro re di
Napoli, Ferdinando primo di Aragona, capitolò egualmente coi suoi sudditi, e
poscia sotto specie di amicizia li fece tutti assassinare. Ma, mentre
commetteva il più orribile tradimento di cui ci parli la storia, mostrò almeno
di rispettare l'apparenza della santità dei trattati. Mostrarono almeno gli
alleati, che li avean garantiti, di reclamarne l'esecuzione. Il nostro storico
Camillo Porzio attribuisce a questa scelleraggine le calamità, che poco dopo
oppressero e finalmente distrussero la famiglia aragonese in Napoli.
La vera gloria
di un vincitore è quella di esser clemente: il voler distruggere i suoi nemici
per la sola ragione di esser più forte è facile, e nulla ha con sé che il più
vile degli uomini non possa imitare. Una vendetta rapida e forte è simile ad un
fulmine che sbalordisce; ma porta seco qualche carattere di nobiltà. Il
deliziarsi nel sangue, il gustare a sorsi tutto il calice della vendetta, il
prolungarla al di là del pericolo e dell'ira del momento, che sola può
renderla, se non lodevole, almeno scusabile, il vincer la ferocia del popolo e
lo stesso terrore dei vinti, e far tutto ciò prostituendo le formole più sacre
della giustizia; ecco ciò che non è né utile né giusto né nobile. La storia ha
dato un luogo distinto tra i tiranni ai geni cupi e lentamente crudeli di
Tiberio e di Filippo secondo, ai fatti dei quali la posterità aggiungerà gli
orrori commessi in Napoli.
Si conobbe
finalmente la legge di maestà, che dovea esser di norma alla Giunta nei suoi
giudizi; legge terribile, emanata dopo il fatto e da cui neanche gl'innocenti
si potevan salvare. Eccone li principali articoli, quali si sono potuti raccogliere
dalle voci più concordi tra loro e più consone alle sentenze pronunziate dalla
Giunta, poiché è da sapersi che questa legge, colla quale si sono giudicati
quasi trentamila individui, non è stata pubblicata giammai.
«Sono
dichiarati rei di lesa maestà in primo capo (e perciò degni di morte) tutti
coloro che hanno occupato i primari impieghi della sedicente repubblica». Per
«primari impieghi» s'intendevano le cariche della rappresentanza nazionale, del
direttorio esecutivo, dei generali, dell'alta commissione militare, del
tribunale rivoluzionario67. Egualmente erano rei «tutti coloro che
fossero cospiratori prima della venuta dei francesi». Sotto questo nome
andavano compresi tutti coloro che aveano occupato Sant'Elmo e tutti coloro che
erano andati ad incontrare i francesi in Capua ed in Caserta; ad onta che la
cessione di Capua fosse stata fatta da autorità legittima; ad onta che tra i
privilegi della città di Napoli, riconosciuti dal re, vi fosse quello che,
giunto il nemico a Capua, la città di Napoli potesse, senza taccia di
ribellione, prendere quegli espedienti che volesse, ed invitare anche il
nemico; ad onta che, essendo legittima la cessione di Capua e di tutte le
province del Regno a settentrione della linea di demarcazione, un numero
infinito di persone, che dimoravano nella capitale, ma che intanto aveano la
cittadinanza in quelle province, fossero divenuti legittimamente cittadini
francesi; ad onta finalmente che, dopo la resa di Capua, in Napoli fosse
cessata ogni autorità legittima: niun re, niun vicario regio, niun generale,
nessuna forza pubblica; tutto era nell'anarchia ed a ciascuno nell'anarchia era
permesso di salvar come meglio poteva la propria vita.
Intanto, ad
onta di tutto ciò, furon dichiarati rei «tutti coloro che nelle due anarchie
avessero fatto fuoco sul popolo dalle finestre»; cioè tutti coloro i quali non
avessero sofferto che la più scellerata feccia del popolo tra la licenza
dell'anarchia li assassinasse.
«Tutti coloro
che avevano continuato a battersi in faccia alle armi del re, comandate dal
cardinal Ruffo, o a vista del re, che stava a bordo degl'inglesi». Questo
articolo avrebbe portate alla morte per lo meno ventimila persone, tra le quali
eranvi tutti coloro che si trovavan rifugiati a Sant'Elmo, i quali, neanche
volendo, poteano più separarsi dai francesi.
«Tutti coloro
che avessero assistito all'innalzamento dell'albero nella piazza dello Spirito
santo (perché in quell'occasione si atterrò la statua di Carlo terzo) o alla
festa nazionale in cui si lacerarono le bandiere reali ed inglesi, prese
agl'insorgenti».
«Tutti coloro
che durante il tempo della repubblica aveano, o predicando o scrivendo, offeso
il re o l'augusta sua famiglia». La legge del Regno esentava dalla pena di
morte chiunque non avea fatto altro che parlare. La legge diceva: «Se è stato
mosso da leggerezza, nol curiamo; se da follia, lo compiangiamo; se da ragione,
gli siam grati; e, se da malizia, lo perdoniamo, a meno che dalle parole non ne
possa nascere un attentato più grave». Una legge posteriore a questa condannò a
morte tutti coloro i quali avean parlato o scritto in un'epoca, nella quale
forse nessuno poteva render ragione di ciò che avea fatto. Si vide allora che
non bastava non aver offese le leggi per esser sicuro.
«Finalmente
tutti coloro i quali in modo deciso avessero dimostrata la loro empietà verso
la sedicente caduta repubblica». Quest'ultimo comprendeva tutti.
Per questo
articolo infatti fu condannata a morte la sventurata Sanfelice. Essa non avea
altro delitto che quello di aver rivelato al governo la congiura di Baccher,
quando era sul punto di scoppiare. Niuna parte avea avuta né nella rivoluzione
né nel governo. Questa operazione le fu ispirata dalla più pura virtù. Non poté
reggere all'idea del massacro, dell'incendio e della ruina totale di Napoli,
che i congiurati avean progettata. Questa generosa umanità, indipendente da
ogni opinione di governo e da ogni spirito di partito, le costò la vita; e fu
spinta la ferocia al segno di farla entrare tre volte in «cappella», ad onta
della consuetudine del Regno, la quale ragionevolmente volea che chi avesse una
volta sofferta la «cappella» aver dovesse la grazia della vita. Non ha sofferta
infatti la pena della morte colui che per ventiquattr'ore l'ha veduta
inevitabile ed imminente? Eppure, rompendosi ogni legge di pietà, ogni
consuetudine del Regno, la sventurata Sanfelice, dopo un anno, fu decollata
senza delitto!
«Coloro che
erano ascritti alla sala patriotica, benché colle loro mani istesse avessero
segnata la loro sentenza di morte (non si comprende perché: un'adunanza
patriotica è un delitto in una monarchia, perché è rivoluzionaria; in un
governo democratico, è un'azione indifferente), pure Sua Maestà, per la sua
innata clemenza, li condanna all'esilio in vita colla perdita de' beni, se
abbiano prestato il giuramento; quelli che non l'hanno prestato, sono
condannati a quindici anni di esilio».
«Finalmente
coloro, i quali avessero avute cariche subalterne e non avessero altri delitti,
saranno riserbati all'indulto che Sua Maestà concederà». Questo indulto fu
immaginato per due oggetti: il primo era quello di far languire un anno nelle
carceri coloro che non aveano alcun delitto. - Mio figlio è innocente - diceva
una sventurata madre a Speziale. - Ebbene - rispondeva costui, - se è
innocente, avrà l'onore di uscir l'ultimo. - Il secondo oggetto era quello di condannare
almeno nell'opinione pubblica, con un perdono, anche coloro che per la loro
innocenza doveano essere assoluti.
Non avea forse
ragione la regina, quando, se è vero ciò che si dice, si opponeva a questa
prostituzione di giudizi?
Io vorrei che
si esaminassero li giudizi della Giunta e di coloro che dirigevan la Giunta,
non colle massime della ragione e della giustizia naturale, non colle massime
della stessa giustizia civile, poiché neanche con queste si troverebbe ragion
di condannar come ribelli coloro i quali non avean fatto altro che ubbidire ad
una forza legittima e superiore, alla quale era stato costretto a cedere lo
stesso re; ma colle massime dell'interesse del re. Io non dirò che la giustizia
è il primo interesse di un re: ammetto anzi che l'interesse del re è la norma
della giustizia. Ed anche allora, chi potrebbe assolver molti (io dico «molti»,
e sono ben lontano dal dir «tutti»: sono ben lontano dal credere tutt'i membri
della Giunta simili a Speziale, e forse taluno non ha altra colpa che quella di
non esser stato abbastanza forte contro i tempi); chi potrebbe, dico, assolver
molti di aver non solo conculcata la giustizia, ma anche tradito il re?
Quando Silla
fece scannare seimila sanniti, disse al senato, allarmato da' gemiti e dalle
grida di quest'infelici: - Ponete mente agli affari: son pochi sediziosetti che
si correggono per ordine mio. - Silla era più grande e forse anche men crudele.
Se coloro che
consigliavano il re gli avessero parlato il linguaggio della saviezza e gli
avessero fatto scrivere un editto, in cui si fosse ai popoli parlato così:
«Coloro i quali han seguìto il partito della repubblica, ora che questo partito
è caduto, han pensato di aver bisogno di una capitolazione per la loro
salvezza. Se essi avessero conosciuto il mio cuore, avrebbero compreso che
questa capitolazione era superflua. Questo errore è stato la causa di tutt'i
loro traviamenti. Obblio tutto. Possano cessare tutt'i partiti e riunirsi a me
per il vero bene della patria! Possa questa generosità far loro comprendere il
mio cuore e rendermi degno del loro amore! Possano le tante vicende e le tante
sventure sofferte renderli più saggi! Se, ad onta di tutto ciò, vi è taluno a
cui il nuovo ordine di cose non piaccia, siagli permesso partire. Ma, o che
parta o che resti, i suoi beni, la sua persona, la sua famiglia saranno
intatte, ed in me non troverà che un padre»; in quel momento,... momento forsi
di disinganno... un proclama di questa natura avrebbe riuniti tutti gli animi.
La nazione non sarebbe stata distrutta da una guerra civile;... l'amor del
popolo avrebbe prodotta la sicurezza del re e la forza del Regno...
Se oggi il
regno di Napoli si trova diviso, desolato, pieno di odii intestini, quasi sul
punto di sciogliersi, perché il re non dice ai suoi ministri e suoi
consiglieri: - Voi siete stati tanti traditori! voi colpate alla mia rovina! -?
L'esecuzione di
questa legge spaventò finanche gli stessi carnefici della Giunta. Essa avrebbe
fatto certamente rivoltare il popolo. La stessa crudeltà rese indispensabile la
moderazione. Vennero da Palermo le note de' proscritti; ma rimase la legge,
affinché si potesse loro apporre un delitto.
Le sentenze
erano fatte prima del giudizio. Chi era destinato alla morte dovea morire,
ancorché il preteso reo fosse minore.
Tutti li mezzi
si adoperavano per ritrovare il delitto; nessuno se ne ammetteva per difendere
l'innocenza. Il nome del re dispensò a tutte le formole del processo, quasi che
si potesse dispensare alla formola senza dispensare alla giustizia.
Ventiquattro ore di tempo si accordavano alla difesa: i testimoni non si
ammettevano, si allontanavano, si minacciavano, si sbigottivano, talora anche
si arrestavano; il tempo intanto scorreva, e l'infelice rimaneva senza difesa.
Non confronto tra i testimoni, non ripulse di sospetti, non ricognizione di
scritture si ammettevano; non debolezza di sesso, non imbecillità di anni potevan
salvare dalla morte. Si son veduti condannati a morte giovinetti di sedici
anni; giudicati, esiliati fanciulli di dodici. Non solo tutt'i mezzi della
difesa erano tolti, ma erano spenti tutt'i sensi di umanità.
Se la Giunta,
per invincibile evidenza d'innocenza, è stata talora quasi costretta ad
assolvere suo malgrado un infelice, si è veduto da Palermo rimproverarsi di un
tal atto di giustizia, e condannarsi per arbitrio chi era stato o assoluto o
condannato a pena molto minore. Dal processo di Muscari nulla si rilevava che
potesse farlo condannare; ma troppo zelo avea mostrato Muscari per la
repubblica, e si voleva morto. La Giunta, dicesi, ebbe ordine di sospender la
sentenza assolutoria e di non decidere la causa finché non si fosse ritrovata
una causa di morte. A capo di due mesi è facile indovinare che questa causa si
trovò. Pirelli, uno dei migliori uomini che avesse la patria, uno dei migliori
magistrati che avesse lo Stato, anche in tempo del re, fu dalla Giunta
assoluto: i trenta di Atene quasi arrossirono di condannare Focione. Pirelli
era però segnato tra le vittime, e da Palermo fu condannato ad un esilio
perpetuo. Michelangiolo Novi era stato condannato all'esilio; la sentenza era
stata già eseguita, si era già imbarcato, il legno era per far vela: giunge un
ordine da Palermo, e fu condannato al carcere perpetuo nella Favignana.
Gregorio Mancini era stato già giudicato, era stato già condannato a quindici
anni di esilio; di già prendeva commiato dalla moglie e dai figli: un ordine di
Speziale lo chiama, e lo conduce... dove?... alla morte. Altre volte si era
detto che le leggi condannavano ed i re facevano le grazie: in Napoli si
assolveva in nome della legge e si condannava in nome del re.
Intanto
Speziale, a cui venivano particolarmente commesse le persone che si volevan
perdute, nulla risparmiava né di minacce né di suggestioni né d'inganni per
servire alla vendetta della corte. Nicola Fiani era suo antico amico; Nicola
Fiani era destinato alla morte, ma non era né convinto né confesso. Speziale si
ricorda della sua antica amicizia: dal fondo di una fossa, ove il povero Fiani
languiva tra' ferri, lo manda a chiamare; lo fa condurre sciolto, non già nel
luogo delle sedute della Giunta, ma nelle sue stanze. Nel vederlo gli scorrono
le lagrime; lo abbraccia: - Povero amico! a quale stato ti veggo io ridotto! Io
sono stanco di più fare la figura di boia. Voglio salvarti. Tu non parli ora al
tuo giudice; sei coll'amico tuo. Ma, per salvarti, convien che tu mi dica ciò
che hai fatto. Queste sono le accuse contro di te. In Giunta fosti saggio a
negare; ma ciò che dirai a me non lo saprà la Giunta... - Fiani presta fede
alle parole dell'amicizia; Fiani confessa... - Bisogna scriverlo; servirà per
memoria... - Fiani scrive. È inviato al suo carcere, e dopo due giorni va alla
morte.
Speziale
interrogò Conforti. Dopo avergli domandato il suo nome e la carica che nella
repubblica avea ottenuto, lo fa sedere. Gli fa sperare la clemenza del re; gli
dice che egli non avea altro delitto che la carica, ma che una carica eminente
era segno di «patriotismo», e perciò delitto in coloro che erano stati, senza
merito e senza nome, elevati per solo favore di fazione rivoluzionaria.
Conforti era tale, che ogni governo sarebbe stato onorato da lui. Indi gli
parla delle pretensioni che la corte avea sullo Stato romano. - Tu conosci -
gli dice - profondamente tali interessi. - La corte ha molte memorie mie -
risponde Conforti. - Sì, ma la rivoluzione ha fatto perdere tutto. Non saresti
in grado di occupartici di nuovo? - E, così dicendo, gli fa quasi sperare in
premio la vita. Conforti vi si occupa; Speziale riceve il lavoro del
rispettabile vecchio; e, quando ne ebbe ottenuto l'intento, lo mandò a
morire68.
Qual mostro era
mai questo Speziale! Non mai la sua anima atroce ha conosciuto altro piacere
che quello di insultar gl'infelici. Si dilettava passar quasi ogni giorno per
le prigioni a tormentare, opprimere colla sua presenza coloro che non poteva
uccidere ancora. Se avea il rapporto di qualche infelice morto di disagio o
d'infezione, inevitabile in carceri orribili, dove gli arrestati erano quasiché
accatastati, questo rapporto era per lui l'annunzio di «un incomodo di meno».
Un soldato insorgente uccise un povero vecchio, che per poco si era avvicinato
ad una finestra della sua carcere a respirare un'aria meno infetta: gli altri
della Giunta volean chieder conto di questo fatto: - Che fate voi? - disse
Speziale; - costui non ha fatto altro che toglierci l'incomodo di fare una
sentenza. - La moglie di Baffa gli raccomanda il suo marito... - Vostro marito
non morrà - gli diceva Speziale; - siate di buon animo: egli non avrà che
l'esilio. - Ma quando? - Al più presto. - Intanto scorsero molti giorni: non si
avea nuova della causa di Baffa. La moglie ritorna da Speziale, il quale si
scusa che non ancora avea, per altre occupazioni, potuto disbrigar la causa del
marito; e la congeda confermandole le stesse speranze che altra volta le avea
date. - Ma perché insultare questa povera infelice? - gli disse allora uno che
era presente al discorso... Baffa era stato già condannato a morte; ma la
sentenza s'ignorava dalla moglie. Chi può descrivere la disperazione, i
lamenti, le grida, i rimproveri di quella moglie infelice? Speziale con un
freddo sorriso le dice: - Che affettuosa moglie! Ignora finanche il destino di
suo marito. Questo appunto io voleva vedere. Ho capito: sei bella, sei giovine,
vai cercando un altro marito. Addio. -
Sotto la direzione
di un tale uomo, ciascuno può comprendere quale sia stata la maniera con cui
sieno stati tenuti i carcerati. Quante volte quegli infelici hanno desiderata
ed invocata la morte!... Ma la mia mente è stanca di più occuparsi de' mali
dell'umanità... Il mio cuore già freme!
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