In breve tempo
li francesi si videro vincitori e padroni delle Fiandre, dell'Olanda, della
Savoia e di tutto l'immenso tratto ch'è lungo la sinistra sponda del Reno. Non
ebbero però in Italia sì rapidi successi; e le loro armate stettero tre anni a'
piedi delle Alpi, che non potettero superare, e che forse non avrebbero
superate giammai, se il genio di Bonaparte non avesse chiamata anche in questi
luoghi la vittoria.
Quando
l'impresa d'Italia fu affidata a Bonaparte, era quasi che disperata. Egli si
trovò alla testa di un'armata alla quale mancava tutto, ma che era uscita dalla
Francia nel momento del suo maggiore entusiasmo e che era da tre anni avvezza
ai disagi ed alle fatiche; si trovò alla testa di coraggiosi avventurieri,
risoluti di vincere o morire. Egli avea tutti i talenti, e quello specialmente
di farsi amare dai soldati, senza del quale ogni altro talento non val nulla.
Se le campagne
di Bonaparte in Italia si vogliono paragonare a quelle che i romani fecero in
paesi stranieri, si potranno dir simili solo a quelle colle quali conquistarono
la Macedonia. Scipione ebbe a combattere un grandissimo capitano che non avea
nazione; molti altri non ebbero a fronte né generali né nazioni guerriere: solo
nella Macedonia i romani trovarono potenza bene ordinata, nazione agguerrita ed
audace per freschi trionfi, e generali i quali, se non aveano il genio,
sapevano almeno la pratica dell'arte. Bonaparte cangiò la tattica, cangiò la
pratica dell'arte; e le pesanti evoluzioni de' tedeschi divennero inutili come
le falangi de' macedoni in faccia ai romani. Supera le Alpi e piomba nel
Piemonte. Costringe il re di Sardegna, stanco forsi da una guerra di cinque
anni, privato di buona porzione de' suoi domini, abbandonato dagli austriaci,
ridotti a difendere il loro paese, a sottoscrivere un armistizio, forse
necessario, ma al certo non onorevole, ed a cedere a titolo di deposito fino alla
pace quelle piazze che ancora potea e che difender dovea fino alla morte. Dopo
ciò, la campagna non fu che una serie continua di vittorie.
L'Italia era
divisa in tanti piccoli Stati, i quali però, riuniti, pur potevano opporre
qualche resistenza. Bonaparte fu sì destro da dividere i loro interessi. Questa
è la sorte, dice Machiavelli, di quelle nazioni le quali han già guadagnata la
riputazione delle armi: ciascuno brama la loro amicizia, ciascuno procura
distornare una guerra che teme. Così i romani han combattuto sempre i loro
nemici ad uno ad uno e li han vinti tutti. Il papa tentò di stringere una lega
italica. Concorrevano volentieri a questa alleanza le corti di Napoli e di
Sardegna, la prima delle quali s'incaricò d'invitarvi anche la repubblica
veneta. Ma i «savi» di questa repubblica alle proposizioni del residente
napolitano risposero che nel senato veneto era già quasi un secolo che non
parlavasi di alleanza, che si sarebbe proposta inutilmente; ma che, se mai la
lega fosse stata stretta tra gli altri principi, non era difficile che la
repubblica vi accedesse. Ma, quando il gabinetto di Vienna ebbe cognizione di
tali trattative, vi si oppose acremente e mostrò con parole e con fatti che più
della rivoluzione francese temeva l'unione italiana!
Allora si vide
quanto lo stato politico degl'italiani fosse infelice, non solo perché divisi
in tanti piccoli Stati (ché pure la divisione non sarebbe stata il più grave
de' mali), ma perché da duecento anni o conquistati o, quel che è peggio,
protetti dagli stranieri, all'ombra del sistema generale di Europa, senza aver
guerra tra loro, senza temerne dagli esteri, tra la servitù e la protezione,
avean perduto ogni amor di patria ed ogni virtù militare. Noi, in questi ultimi
tempi, non solo non abbiam potuto rinnovar gli esempi antichi de' nostri avi
antichissimi, i quali, riuniti, conquistarono tanta parte dell'universo, ma
neanche quei meno illustri dei tempi a noi più vicini, quando, divisi tra noi,
ma indipendenti da tutto il rimanente dell'Europa, eravamo italiani, liberi ed
armati.
Gli austriaci,
rimasti soli, non poterono sostener l'impeto nemico: tutta la Lombardia fu
invasa, Mantova cadde, ed essi furono respinti fino al Tirolo. Bonaparte era
già poco lontano da Vienna, l'Europa aspettava da momento a momento azioni più
strepitose; quando si vide la Francia condiscendere ad una pace, colla quale
essa acquistava il possesso della sinistra sponda del Reno e dell'importante
piazza di Magonza, e l'Austria riconosceva l'indipendenza della repubblica
cisalpina, in compenso della quale le si davano i domìni della repubblica
veneta. Questa, col risolversi troppo tardi alla guerra, altro non avea fatto
che dare ai più potenti un plausibile motivo di accelerare la sua ruina.
Per qual forza
di destino avrebbe potuto sussistere un governo, il quale da due secoli avea
distrutta ogni virtù ed ogni valor militare, che avea ristretto tutto lo Stato
nella sola capitale, e poscia avea concentrata la capitale in poche famiglie,
le quali, sentendosi deboli a tanto impero, non altra massima aveano che la
gelosia, non altra sicurezza che la debolezza de' sudditi e, più che ogni
nemico esterno, temer doveano la virtù de' propri sudditi? Non so che avverrà dell'Italia;
ma il compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di
quella vecchia imbecille oligarchia veneta, sarà sempre per l'Italia un gran
bene. Ed io che, tra i beni che posson ricevere i popoli, il primo luogo do a
quelli della mente, cioè al giudicar retto, onde vien poi l'oprar virtuoso e
nobile; io credo esser già sommo vantaggio il veder tolto l'antico errore per
cui i gentiluomini veneziani godevan nelle menti del volgo fama di sapienti
reggitori di Stato.
Il trattato di
Campoformio era vantaggioso a tutt'e due le potenze contraenti. L'Austria,
sopra tutto, vi avea guadagnato massimo; e, se rimaneva ancora qualche altro
oggetto a determinarsi, era facile prevedere che a spese de' più piccoli
principi di Germania essa avrebbe guadagnato anche dippiù. Ma era facile
egualmente prevedere che l'Inghilterra, avendo sola tra gli alleati colla
guerra guadagnato e dovendo sola restituire, esser dovea lontana dai pensieri
di pace.
Il governo che
allora avea la Francia, checché molti credessero, avea, almen per poco,
rinunciato al progetto di democratizzazione universale, il quale, al modo come
l'aveano i francesi immaginato, era solo eseguibile in un momento di
entusiasmo. I romani mostravan di rendere ai popoli gli ordini che essi
bramavano, ma non avevan la smania di portar dappertutto gli ordini di Roma.
Quindi i romani conservarono meglio e più lungamente l'apparenza di liberatori
de' popoli. Ma il governo francese riteneva tuttavia il primiero linguaggio per
vendere a più caro prezzo le sue promesse e le sue minacce: eravi sempre una
contraddizione tra i proclami de' generali e le negoziazioni de' ministri, tra
le parole date ai popoli e quelle date ai re; e, tra queste continue
contraddizioni, si faceva, ora coi popoli ora coi re, un traffico continuo di
speranze e di timori.
Già da questo
ognuno prevedeva che il trattato di Campoformio avea sol per poco sospesa la
democratizzazione di tutta l'Italia. Il re di Sardegna non era che il ministro
della repubblica francese in Torino; il duca di Toscana ed il papa non erano
nulla. Berthier finalmente occupò Roma; la distruzione di un vecchio governo
teocratico non costò che il volerla; tale è lo stato dell'Italia, che chiunque
vuole o salvarla o occuparla deve riunirla, e non si può riunire senza cangiare
il governo di Roma. L'indifferenza colla quale l'Italia riguardò tale
avvenimento mostrò bene qual progresso le nuove opinioni avean fatto negli
animi degl'italiani.
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