Rimaneva il
regno di Napoli; e forse, almen per quel tempo, i francesi non aveano né
interesse né forza né volontà di attaccarlo. Ma la parentela coi sovrani di
Francia, l'influenza preponderante del gabinetto inglese, il carattere della
regina, tutto contribuiva a fomentare nella corte di Napoli l'odio che fin da
principio, più caldo che ogni altra corte di Europa, avea spiegato contro la
rivoluzione francese. La regina, nel viaggio che avea fatto per la Germania e
per l'Italia in occasione del matrimonio delle sue figlie, era stata la prima
motrice di quella lega che poi si vide scoppiare contro la Francia. La forza
costrinse la corte di Napoli a sottoscrivere una neutralità, quando Latouche
venne con una squadra in faccia alla stessa capitale. Forse allora temette più
di quel che dovea: se avesse prolungate per due altri giorni le trattative, la
stagione ed i venti avrebbero fatta vendetta di una flotta che troppo
imprudentemente si era avventurata entro un golfo pericoloso in una stagione
pericolosissima.
La presa di
Tolone fece rompere di nuovo la neutralità. Al pari delle altre corti, quella
di Napoli inviò delle truppe a sostenere una sciagurata impresa più mercantile
che guerriera, la quale, nel modo in cui fu immaginata e diretta, potea esser
utile solo agl'inglesi. Nella primavera seguente inviò due brigate di
cavalleria nella Cisalpina in soccorso dell'imperatore: esse si condussero
molto bene. Ma le vittorie di Bonaparte in Italia fecero ricadere la corte ne'
suoi timori, e si affrettò a conchiudere una pace nel tempo appunto in cui
l'imperatore avea maggior bisogno de' suoi aiuti; nel tempo in cui, non presa
ancora Mantova, non distrutte ancora tutte le forze imperiali in Italia,
poteva, facendo avanzar le sue truppe, produrre un potente e forse pericoloso
diversivo. Il governo francese ad una corte che non sapeva far la guerra seppe
vendere quella pace, che esso avrebbe dovuto e che forse era pronto a comprare.
Perché si ebbe
tanta paura della flotta di Latouche? Perché si credeva che in Napoli vi
fossero cinquantamila pronti a prender l'armi in di lui favore. Non vi era
nessuno, nessuno... Qual fu nella trattativa di questa pace il grande oggetto
del quale si occupò la corte di Napoli? La liberazione di circa duecento
scolaretti, che teneva arrestati nelle sue fortezze. Che non si fece, che non
si pagò per far sì che il Direttorio non insistesse, come allora era di moda,
per la liberazione de' «rei di opinione»? La regina non approvava quella pace,
e forse avea ragione; ma credette aver ottenuto molto, avendo ottenuto il
diritto di poter incrudelire inutilmente contro pochi giovinetti che conveniva
disprezzare... Non si perdano mai di vista questi fatti. La corte di Napoli non
sapeva né che temere né che sperare: come si poteva pretendere che agisse
saviamente?
La corte di
Napoli era la corte delle irresoluzioni, della viltà ed, in conseguenza, delle
perfidie. La regina ed il re eran concordi solo nell'odiare i francesi; ma
l'odio del re era indolente, quello della regina attivissimo: il primo si
sarebbe contentato di tenerli lontani, la seconda volea vederli distrutti. Ne'
momenti di pericolo, il re ascoltava i suoi timori e, più de' timori, la sua
indolenza; al primo favore di fortuna, al primo raggio di nuove e liete
speranze, per cagione della stessa indolenza, abbandonava di nuovo gli affari
alla regina.
Acton fomentava
nel re un'indolenza che accresceva l'imperio suo e della regina; e questa, per
desiderio di comandare, non si avvedeva che Acton turbava tutte le cose e
spingeva ad inevitabile rovina il re, il Regno e lei stessa. La regina era
ambiziosa; ma l'ambizione è un vizio o una virtù, secondo le vie che sceglie,
secondo il bene o il male che produce. Ella venne la prima volta da Germania
col disegno d'invadere il trono, né si ristette finché, per mezzo degl'intrighi
e dell'ascendente che una colta educazione le dava sull'animo del marito, non
giunse a cangiar tutt'i rapporti interni ed esterni dello Stato.
Il marchese
Tanucci previde le funeste conseguenze del genio novatore della giovine regina,
e volle opporvisi fin da quel momento in cui pretese di aver entrata e voto nel
Consiglio di Stato. Era questa una novità inudita nel regno di Napoli, e molto
più nella famiglia di Borbone, ma la regina vinse e giurò vendicarsi di
Tanucci: né la sua età, né il suo merito, né li suoi lunghi e fedeli servizi
poterono salvar questo vecchio amico di Carlo terzo ed aio, per così dire, di
suo figlio dalla umiliazione e dalla disgrazia.
Sotto un re,
debole inimico ed infedele amico, tutti compresero non esservi da temere, non
da sperare, se non dalla regina; e tutti furono a lei venduti. Ella creò anche
al di fuori nuovi sostegni all'impero.
Tutti
gl'interessi politici univano il regno di Napoli a quello di Francia e di
Spagna, e questi legami potevano formar la felicità della nazione coi vantaggi
del commercio e della pace. Ma gl'interessi della nazione poteano bene essere
quelli del re, non mai però quelli della regina: ella volea nuovi rapporti
politici, che la sostenessero, se bisognasse, contro il re e, se fosse
possibile, anche contro la nazione. Noi diventammo ligi dell'Austria, potenza
lontana, dalla quale la nazione nostra nulla potea sperare e tutto dovea
temere; potenza, la quale, involta in continue guerre, ci strascinava ogni
momento a prender parte negl'interessi altrui, senza poter mai sperare di veder
difesi li nostri. La preponderanza che l'Austria andava acquistando sulle
nostre coste offese la Spagna; ma la regina, lungi dal temere il suo sdegno, lo
fomentò, lo spinse agli estremi, onde togliere al re ogni via di ravvedimento.
I ministri del
re doveano esser i favoriti della regina; ma questa sacrificava sempre i suoi
favoriti ai disegni suoi. L'ultimo è stato il più fortunato di tutti, non
perché avesse più merito, ma perché avea più audacia degli altri, li quali non
combattevano con lui ad armi eguali, perché non si permettevano tutto ciò
ch'egli ardiva fare. Conservavano ancora costoro qualche vecchio sentimento di
giustizia, di amicizia, di pubblico bene: come contrastare con uno che tutto
sacrificava alla distruzione de' suoi nemici ed al favore della sua
sovrana?3.
Giovanni Acton
venne dalla Toscana, cioè da uno Stato che non avea marina, a crearne una in
Napoli. Avea due titoli, oltre un terzo che gli attribuisce la fama, a meritare
il favore della regina: era, tra' ministri del re, il solo straniero e seppe
prima degli altri comprendere che in Napoli la regina era tutto ed il re era un
nulla. Giunse nel tempo in cui ardevano più che mai i disgusti colla corte di
Spagna. Sambuca, che allora era primo ministro, prese il partito spagnuolo: fu
male accorto e vile; perdette la grazia della regina e poco dipoi, come era
inevitabile, anche quella del re. Si vide per poco suo successore Caracciolo:
ma costui, rotto dagli anni e per natura portato all'indolenza, in una corte
ove non si voleva il bene né si soffriva il vero, non fu che l'ombra di un gran
nome e servì, senza saperlo o almeno senza curarlo, a far risplendere Acton,
che la regina voleva esaltare, ma che ancora non poteva vincere la riputazione
de' più vecchi. La morte di Caracciolo diede luogo finalmente ai suoi disegni:
Acton fu posto alla testa degli affari, il vecchio De Marco confinato ai minuti
dettagli di casa reale, tutti gli altri ministri non furono che creature di
Acton. La sola parte d'ingegno, che Acton veramente possedeva, era quella di
conoscer gli uomini. Non vi era alcuno che meglio di lui sapesse definire il
carattere morale de' suoi favoriti. Riputava Castelcicala vile e crudele nella
sua viltà; Vanni entusiasta, ambizioso e crudele per furore quanto lo era
Castelcicala per riflessione; Simonetti e Corradini ambedue uomini dabbene, ma
il primo indolente, il secondo pedante, ed incapaci ambedue di opporsi a lui.
Si servì di Castelcicala fin da che era ministro in Londra.
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