I nostri
affetti, preso che abbiano un corso, più non si arrestano. L'odio segue il
disprezzo, e dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore. La regina, che non
amava la nazione, temeva di esserne odiata; e questo affetto, sebbene penoso,
ha bisogno, al pari di ogni altro, di essere fomentato. Chiunque le parlò male
della nazione fu da lei ben accolto.
Le novità delle
opinioni politiche accrebbero i suoi sospetti e diedero nuovi mezzi ai
cortigiani per guadagnare il suo cuore. Acton non mancò di servirsene per
perder Medici e qualche altro illustre suo rivale. Quindi si sciolse il freno e
si portò la desolazione nel seno di tutte le famiglie.
Un esempio. I
nostri giovinetti in quegli anni aveano per moda di far delle corse a cavallo
per Chiaia ed ai Bagnuoli. Si dette a credere ad Acton, o piuttosto Acton volle
dar a credere alla corte, che essi volessero rinnovare le corse olimpiche. Qual
rapporto tra le corse de' nostri giovani napolitani e quelle de' greci? E,
quando anche quelle fossero state un'imitazione di queste, qual male? qual
pericolo? Acton intanto incaricò la polizia di vegliare su queste corse, come
se si fosse trattato della marcia di venti squadroni nemici che piombassero
sulla capitale.
Alcuni giovani
entusiasti, ripieni la testa delle nuove teorie, leggevano ne' fogli periodici
gli avvenimenti della rivoluzione francese e ne parlavano tra di loro o,
ciocché val molto meno, ne parlavano alle loro innamorate ad ai loro
parrucchieri. Essi non aveano altro delitto che questo, né giovani senza grado,
senza fortuna, senza opinione potevano tentarne altro. Fu eretto un tribunale
di sangue col nome di «Giunta di Stato» per giudicarli, come se avessero già
ucciso il re e rovesciata la costituzione.
Pochi
magistrati, tra coloro che componevano la Giunta, amanti veracemente del re e
della patria, vedendo che il primo, il vero, il solo delitto di Stato era
quello di seminar diffidenze tra il sovrano e la nazione, ardirono prendere la
difesa dell'innocenza e proporre al re che la pena de' rei di Stato mal si
applicava a pochi giovani inesperti, i quali non di altro delitto eran rei che
di aver parlato di ciò che era meglio tacere, di aver approvato ciò che era
meglio esaminare; delitto di giovani, i quali si sarebbero corretti coll'età e
coll'esperienza, che avrebbe smentite le brillanti ma fallaci teorie onde erano
le loro menti invasate. I mali di opinione si guariscono col disprezzo e
coll'obblio: il popolo non intenderà, non seguirà mai i filosofi. Ma, se voi
perseguitate le opinioni, allora esse diventano sentimenti; il sentimento
produce l'entusiasmo; l'entusiasmo si comunica; vi inimicate chi soffre la
persecuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente
che la condanna; e finalmente l'opinione perseguitata diventa generale e
trionfa.
Ma, ove si
tratta di delitto di Stato, le più evidenti ragioni rimangono inefficaci.
Imperciocché di rado un tal delitto esiste, e di rado avviene che un uomo
attenti con atto non equivoco alla costituzione o al sovrano di una nazione: il
più delle volte si tratta di parole che vaglion meno delle minacce, o di
pensieri che vagliono anche meno delle parole. Tali cose vagliono quanto le fa
valere il timore di chi regna7. Guai a chi ha ascoltato una volta le voci
del timore! Quanto più ha temuto, più dovrà temere. Molto temeva la regina di
Napoli, ed Acton voleva che temesse di più. Le frequenti impressioni di
sospetti e di timori, che aveva sofferte, avevano quasi alterato il di lei
fisico e turbata interamente la serie e l'associazione delle sue idee. Persone
degne di fede mi narrano che non senza pericolo di dispiacerle taluno le
attestava la fedeltà de' sudditi suoi.
Si volle del
sangue, e se n'ebbe. Furono condannati a morte tre infelici, tra' quali il
virtuoso Emmanuele de Deo, a cui si fece offrire la vita purché rivelasse i
suoi complici, e che in faccia all'istessa morte seppe preferirla all'infamia.
Ecco un esempio
di ciò che possa e che produca il timore negli animi, una volta turbati. Nel
giorno dell'esecuzione della sentenza si presero quelle precauzioni che altre
volte si erano trascurate e che anche allora erano superflue. Si temeva che il
popolo volesse salvare tre sciagurati, che appena conosceva; si temeva una sedizione
di circa cinquantamila rivoluzionari, che per lo meno si diceva dover esser in
Napoli. Intanto, le truppe che quasi assediavano la città, gli ordini
minaccevoli del governo, tutto allarmava la fantasia del popolo; qualunque moto
più leggiero, che in altri tempi sarebbe stato indifferente, doveva turbarlo;
temeva i sollevatori, temeva gli ordini del governo, temeva tutto; ed il minimo
timore dovea produrre, come difatti produsse, in una gran massa di popolo
un'agitazione tumultuosa. Così i sospetti del governo rendono più sospettoso il
popolo. Da quell'epoca il popolo napolitano, che prima quasi si conteneva da se
stesso senza veruna polizia, fu più difficile a maneggiarsi; tutte le pubbliche
feste furono fatte con maggiori precauzioni, ma non furono perciò più
tranquille.
Si sciolse la
prima Giunta. Si sperava poter respirare finalmente da tanti orrori; ma, pochi
mesi dopo, si vide in campo una nuova congiura ed una Giunta più terribile
della prima. Si vollero allontanati tutti que' magistrati che conservavano
ancora qualche sentimento di giustizia e di umanità. Si mostrò di volere i
scellerati, ed i scellerati corsero in folla. Castelcicala, Vanni, Guidobaldi
si misero alla loro testa. La nazione fu assediata da un numero infinito di spie
e di delatori, che contavano i passi, registravano le parole, notavano il
colore del volto, osservavano finanche i sospiri. Non vi fu più sicurezza. Gli
odii privati trovarono una strada sicura per ottener la vendetta, e coloro che
non avevano nemici furono oppressi dagli amici loro medesimi, che la sete
dell'oro e l'ambizione aveva venduti ad Acton ed a Vanni. Che si può difatti
conservare di buono in una nazione, dove chi regna non dà le ricchezze, le
cariche, gli onori se non ai delatori? dove, se si presenta un uomo onesto a
chiedere il premio delle sue fatiche o delle sue virtù, gli si risponde che «si
faccia prima del merito»? Per «farsi del merito» s'intendeva divenir delatore,
cioè formar la ruina almeno di dieci persone oneste. Questo merito aveano
tanti, i nomi de' quali la giusta vendetta della posterità non deve permettere
che cadano nell'obblio. La regina, indispettita contro un sentimento di virtù
che la massima parte della nazione ancora conservava, diceva pubblicamente che
«ella sarebbe un giorno giunta a distruggere quell'antico pregiudizio per cui
si reputava infame il mestiere di delatore». Tutte queste e molte altre simili
cose si narravano: forse, siccome sempre suole avvenire, in picciola parte
vere, pel maggior numero false e finte per odio. Ma queste cose, o vere o false
che sieno, sono sempre dannose quando e si dicono da molti e da molti si
credono, perché rendono più audaci gli scellerati e più timidi i buoni. Che se
esse son false, meritano doppiamente la pubblica esecrazione que' ministri i
quali colla loro condotta dànno occasione a dirle e ragione a crederle. Per
cagioni intanto di queste voci, una parte della nazione si armò contro l'altra;
non vi furono più che spie ed uomini onesti, e chi era onesto era in
conseguenza un «giacobino». Vanni avea detto mille volte alla regina che il
Regno era pieno di giacobini: Vanni volle apparir veridico, e colla sua
condotta li creò.
Tutt'i
castelli, tutte le carceri furono ripiene d'infelici. Si gittarono in orribili
prigioni, privi di luce e di tutto ciò ch'era necessario alla vita, e vi
languirono per anni, senza poter ottenere né la loro assoluzione né la loro
condanna, senza neanche poter sapere la cagione della loro disgrazia. Quasi
tutti, dopo quattro anni, uscirono liberi, come innocenti; e sarebbero usciti
tutti, se non si fossero loro tolti i legittimi mezzi di difesa. Vanni, che era
allor il direttor supremo di tali affari, non si curava più di chi era già in
carcere; non pensava che a carcerarne degli altri: ardì dire che «almeno
dovevano arrestarsene ventimila». Se il fratello, se il figlio, se il padre, se
la moglie di qualche infelice ricorreva a costui per sollecitare la decisione
della di lui sorte, un tal atto di umanità si ascriveva a delitto. Se si ricorreva
al re e che il re qualche volta ne chiedeva conto a Vanni, ciò anche era
inutile, perché per Vanni rispondeva la regina, la quale credeva che Vanni
operasse bene. Vanni diceva sempre che vi erano altre fila della congiura da
scoprire, altri rei da arrestare; e la regina tutto approvava, perché temeva
sempre altri rei ed altre congiure.
Vanni, il quale
meglio di ogni altro sapeva con quali arti si era ordita un'inquisizione,
diretta più a fomentare i timori della regina che a calmarli, tremava ogni
volta che gli si parlava di esame e di sentenza. Ei volea trovare il reo, e
temea che si fosse ricercata la verità8.
Sembrerà a
molti inverisimile tutto ciò che io narro di Vanni. E difatti il carattere
morale di quell'uomo era singolare. Egli riuniva un'estrema ambizione ad una
crudeltà estrema e, per colmo delle sciagure dell'umanità, era un entusiasta.
Ogni affare che gli si addossava era grandissimo; ma egli voleva sempre apparir
più grande di tutti gli affari. Uomini tali sono sempre funesti, perché, non
potendo o non sapendo soddisfare l'ambizione loro con azioni veramente grandi,
si sforzano di fare apparir tali tutte quelle che possono e che sanno fare, e
le corrompono.
Vanni
incominciò ad acquistar fama di giudice integro e severissimo colla condotta
che tenne col principe di Tarsia, il quale era stato per qualche anno direttore
della fabbrica di seterie che il re avea stabilita in San Leucio. Il primo
errore forse lo commise il re, affidando tale impresa al principe di Tarsia
anziché ad un fabbricante; il secondo lo fu di Tarsia, il quale, non essendo
fabbricante, non dovea accettar tale commissione. Ne avvenne quello che ne
dovea avvenire. Tarsia era un onestissimo cavaliere, cioè un onestissimo
spensierato, incapace di malversare un soldo, ma incapace al tempo istesso
d'impedir che gli altri malversassero. Si trovò ne' conti una mancanza di circa
cinquantamila scudi. Fu data a Vanni la commissione di liquidare i conti. Non
eravi affare più semplice, perché Tarsia era un uomo che poteva e voleva
pagare. Pure Vanni prolungò l'affare non so per quanti anni: cadde il trono, e
l'affare di Tarsia ancora pendeva indeciso; ed intanto non eravi genere di
vessazioni e d'insulti ai quali non sottoponesse la famiglia di Tarsia, perché,
dicesi, tale era l'intenzione di Acton. Gli uomini di buon senso, alcuni
dicevano: - Che imbecille! - altri: - Che impostore! - Ma nella corte si faceva
dire: - Che giudice integro! Con quanto zelo, con quanta fermezza affronta il
principe di Tarsia, un grande di Spagna, un grande officiale del palazzo! -
Come se l'ingiustizia che si commette contro i grandi non possa derivar dalle
stesse cagioni ed essere egualmente vile che quella che si commette contro i
piccioli.
Si avea bisogno
d'un inquisitor di Stato, e si scelse Vanni per la ragione istessa per la quale
non si avrebbe dovuto scegliere. La prima volta che Vanni entrò nell'assemblea
de' magistrati che dovean giudicare, si mostrò tutto affannato, cogli occhi
mezzo stralunati, e, raccomandando ai giudici la giustizia, soggiunse: - Son
due mesi da che io non dormo, vedendo i pericoli che ha corsi il mio re. - «Il
mio re»: questo era il modo col quale egli usava chiamarlo dopo che gli fu
affidata l'inquisizione di Stato. - Il vostro re! - gli disse un giorno il
presidente del Consiglio, Cito, uomo rispettabile e per la carica e per cento
anni di vita irreprensibile - il vostro re! Che volete intender mai con questa
parola, che, sotto apparenza di zelo, nasconde tanta superbia? E perché non
dite «il nostro re»? Egli è re di tutti noi, e tutti l'amiamo egualmente. -
Queste poche parole bastano per far giudicare di due uomini; ma, in un governo
debole, colui che pronunzia più alto «il mio re» suole vincere chi si contenta
di dire «il nostro re».
Lo sguardo di
Vanni era sempre riconcentrato in se stesso; il colore del volto
pallido-cinereo, come suole essere il colore degli uomini
atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della tigre:
tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt'i suoi
affetti atterrivano e sbalordivano lui stesso. Non ha potuto abitar di più di
un anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de'
signorotti di Fera e di Agrigento. Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno!
Ma la macchina
di quattro anni dovea finalmente sciogliersi. Gl'interessati fremevano; gli
uomini di buon senso ridevano di una nuova specie di delitto di Stato che in
quattro anni d'inquisizione non si era ancora scoperto; nel popolaccio istesso
andava raffreddandosi quel caldo che nei primi tempi avea mostrato contro i
rei, e quasi incominciava a sentir pietà di tanti infelici, i quali non vedendo
condannati, incominciava a credere innocenti. Acton, che da principio era stato
il principal autore dell'inquisizione, dopo averne usato quanto bastava ai suoi
disegni, vedendola innoltrar più di quel che conveniva e non volendo e non
potendo arrestarla, avea ceduto il suo luogo a Castelcicala. Costui, il più
vile degli uomini, avea bisogno, per guadagnare il favore della regina, di quel
mezzo che Acton avea adoperato solo per atterrare i suoi rivali, ed in
conseguenza dovea spingerne l'abuso più oltre, e lo spinse. Fece di tutto
perché la cabala non si scoprisse: giunse ad imputare a delitto la religiosità
di coloro che diedero il voto per la verità; giunse a minacciare un castigo
agli avvocati da lui stesso destinati, perché difendevano i rei con zelo. Ma la
nazione era oppressa e non corrotta, e, se diede grandi esempi di pazienza, ne
diede anche moltissimi, ed egualmente splendidi, di virtù. Nulla potette
smuovere la costanza de' giudici e lo zelo degli avvocati. Quando si vide la
verità trionfare, ed uscir liberi quei che si volevano morti, Castelcicala, per
giustificarsi agli occhi del pubblico e del re, il quale finalmente si era
occupato di un tal affare, immolò Vanni, e tutta la colpa ricadde sopra costui.
Vanni avea
accusati al re tutti i giudici, il presidente del Consiglio Mazzocchi, Ferreri,
Chinigò, gli uomini forse i più rispettabili che Napoli avesse e per dottrina e
per integrità e per attaccamento al proprio sovrano; e un momento forse si
dubitò se dovessero esser puniti questi tali o Vanni. Se Vanni rimaneva
vincitore, avrebbe compìta l'opera della perdita del Regno e della rovina del
trono. Per buona sorte era giunto all'estremo, e rovinò se stesso per aver
voluto troppo. Ma, prima che ciò avvenisse, di quanti altri uomini utili avrebbe
privato lo Stato, e quanti fedeli servitori avrebbe tolti al re? Quando anche
il rovescio del trono di Napoli non fosse avvenuto per effetto della guerra,
Vanni sarebbe bastato solo a cagionarlo, e lo avrebbe fatto.
Vanni fu
deposto ed esiliato dalla capitale: si tentò di raddolcire in segreto il suo
esilio, ma invano. L'anima ambiziosa di Vanni cadde in un furore melanconico,
il quale finalmente lo spinse a darsi da se stesso una morte, che, per
soddisfazione della giustizia e per bene dell'umanità, avrebbe meritato da
altra mano e molto tempo prima. La sua morte precedette di poco l'entrata de'
francesi in Napoli. Egli li temea, avea chiesta alla corte un asilo in Sicilia,
e gli era stato negato. Prima di uccidersi scrisse un biglietto, in cui diceva:
«L'ingratitudine di una corte perfida, l'avvicinamento di un nemico terribile,
la mancanza di asilo mi han determinato a togliermi una vita che ormai mi è di
peso. Non s'incolpi nessuno della mia morte; ed il mio esempio serva a render saggi
gli altri inquisitori di Stato». Ma gli altri inquisitori di Stato risero della
sua morte, ne rise Castelcicala; e l'inquisizione continuò collo stesso furore,
finché i francesi non furono a Capua.
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