Mentre da una
parte con tali arti si avviliva e si opprimeva la nazione, dall'altra si
ammiseriva col disordine in tutt'i rami di amministrazione pubblica. La nazione
napolitana dalla venuta di Carlo terzo incominciava a respirare dai mali
incredibili che per due secoli di governo viceregnale avea sofferti. Fu
abbassata l'autorità de' baroni, che prima non lasciava agli abitanti né
proprietà reale né personale. Si resero certe le imposizioni ordinarie con un
nuovo catasto, il quale, se non era il migliore che si potesse avere, era però
il migliore che fino a quel tempo si fosse avuto, e si abolì l'uso delle
imposizioni straordinarie che, sotto il nome di «donativi», avean tolte somme
immense alla nazione, passate senza ritorno nella Spagna11. Libera la
nazione dalle oppressioni de' baroni, dalle avanie del fisco, dalla perenne
estrazione di denaro, incominciò a sviluppare la sua attività: si vide
risorgere l'agricoltura, animarsi il commercio; la sussistenza divenne più
agiata, i spiriti più colti, gli animi più dolci. L'esserci noi separati dalla
Spagna, e l'essersi la Spagna tolta alla famiglia di Austria e data a quella di
Borbone, ed il patto di famiglia avean reso alla nostra nazione quella pace di
cui avevamo bisogno per ristorarci dai mali sofferti; e la neutralità, che ci
fu permessa di serbare nell'ultima guerra tra la Spagna, la Francia e
l'Inghilterra per le colonie americane, prodotto avea nella nostra nazione un
aumento considerabile di ricchezze. In cinquant'anni avevamo fatti progressi
rapidissimi, e vi era ragione di sperare di doverne fare anche di più.
La nostra
nazione passava, per così dire, dalla fanciullezza alla sua gioventù. Ma questo
stato di adolescenza politica è appunto lo stato più pericoloso e quello da cui
più facilmente si ricade nel languore e nella desolazione. Le nazioni escono
dalla barbarie accrescendo le loro forze e rendendo così la sussistenza sicura:
non passano alla coltura se non accrescendo i loro bisogni. Ma i bisogni si
sviluppano più rapidamente delle forze, tra perché essi dipendono dalle sole
nostre idee, tra perché le altre nazioni, senza comunicarci le loro forze, ci
comunicano volontieri le idee, i loro costumi, gli ordini ed i vizi loro, il
che per noi diventa sorgente di nuovi bisogni; e, se allora, crescendo questi,
non si pensa anche ad accrescer le nostre forze, noi non avremo mai
quell'equilibrio di forze e di bisogni, nel che solo consiste la sanità
degl'individui e la prosperità delle nazioni: i passi che faremo verso la
coltura non faranno che renderci servi degli stranieri, ed una coltura precoce
e sterile diventerà per noi più nociva della barbarie. Uno Stato che non fa
tutto ciò che può fare è ammalato. Tale era lo stato di tutta l'Italia; e
questo stato era più pericoloso per Napoli, perché più risorse avea dalla
natura e più estesa era la sfera della sua attività.
Ma il governo
di Napoli avea perduto gran parte delle sue forze, sopprimendo lo sviluppo
delle facoltà individuali coll'avvilimento dello spirito pubblico: tutto
rimaneva a fare al governo, ed il governo non sapea far nulla, né potea far
tutto.
Le nazioni
ancora barbare amano di essere sgravate dai tributi, perché non hanno desidèri
superflui; le nazioni colte si contentano di pagar molto, purché quest'aumento
di tributo accresca la forza e migliori la sussistenza nazionale. Il segreto di
una buona amministrazione è di far crescere la riproduzione in proporzione
dell'esazione: non è tanto la somma de' tributi, quanto l'uso de' medesimi per
rapporto alla nazione, quello che determina lo stato delle sue
finanze12.
Un governo
savio ed attivo avrebbe corretti gli antichi abusi di amministrazione, avrebbe
sviluppata l'energia nazionale, ci avrebbe esentati dai vettigali che pagavamo
agli esteri per le loro manifatture, avrebbe protette le nostre arti,
migliorate le nostre produzioni, esteso il nostro commercio: il governo sarebbe
divenuto più ricco e più potente, e la nazione più felice. Questo era appunto
quello che la nazione bramava13. L'epoca in cui giunse Acton era
l'epoca degli utili progetti: qual «progettista» egli si spacciò e qual
«progettista» fu accolto; ma i suoi progetti, ineseguibili o non eseguiti o
eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine, perché cagioni di nuove
inutili spese.
Acton ci voleva
dare una marina. La natura avea formata la nazione per la marina, ma non aveva
formato Acton per la nazione. La marina dovea prima di tutto proteggere quel
commercio che allora avevamo, il quale, essendo di derrate e quasi tutte
privative del Regno, o poca o niuna gelosia dar potea alle altre nazioni, le
quali per lo più un commercio aveano di manifatture. I nostri nemici erano i
barbareschi, contro i quali non valeva tanto la marina grande quanto la piccola
marina corsara, che Acton distrusse14. La marina armata dovea crescere
in proporzione della marina mercantile e del commercio, senza di cui la marina
guerriera è inutile e non si può sostenere. Acton, invece di estendere il
nostro commercio, lo restrinse coi suoi errori diplomatici, col suo genio
dispotico, colla sua mala fede, colla viltà con cui sposò gl'interessi degli
stranieri in pregiudizio de' nostri. Acton non conosceva né la nazione né le
cose. Voleva la marina, ed intanto non avevamo porti, senza de' quali non vi è
marina: non seppe nemmeno riattare quei di Baia e di Brindisi, che la natura
istessa avea formati, che un tempo erano stati celebri e che poteano divenirlo
di nuovo con piccolissima spesa, se, invece di seguire il piano delle creature
di Acton, si, fosse seguìto il piano dei romani, che era quello della natura.
La marina, come
Acton l'avea immaginata, era un gigante coi piedi di creta. Era troppo piccola
per farci del bene, troppo grande per farci del male: eccitava la rivalità
delle grandi potenze, senza darci la forza necessaria, non dico per vincere, ma
almeno per poter resistere. Senza marina, saremmo rimasti in una pace profonda:
con una marina grande, avremmo potuto vincere; ma, con una marina piccola,
dovevamo, o presto o tardi, siccome poi è avvenuto, esser trascinati nel
vortice delle grandi potenze, soffrendo tutt'i mali della guerra, senza poter
mai sperare i vantaggi della vittoria.
Lo stesso piano
Acton seguì nella riforma delle truppe di terra. Carlo terzo ne avea fissato il
numero a circa trentamila uomini; ma, come sempre suole avvenire nei piccoli
Stati, i quali godono lunghissima pace, gli ordini di guerra si erano
rilasciati, e di truppe effettive non esistevano più di quindicimila uomini.
Noi mancavamo assolutamente di artiglieria. Questa fu organizzata in modo da
non lasciarci nulla da invidiare agli esteri. Ma il numero delle altre truppe
fu accresciuto solo in apparenza, per ricoprire un'alta malversazione ed una
profusione la quale non avea né leggi né limiti. Acton più degli altri ministri
vi si era prestato; e questa non fu l'ultima delle ragioni per cui meritò tanta
protezione sì potente e sì lunga.
Dalla morte di
Iaci15 incominciarono le riforme di abiti e di tattica. Veniva ogni
anno dalla Spagna, dalla Francia, dalla Germania, dalla Svizzera un nuovo
generale, il quale ora rialzava di due pollici il cappello, ora raccorciava di
due dita l'uniforme, ora... Il soldato fremeva, vedendosi sottoposto a tante
novità, che un anno dopo sapeva doversi dichiarare inutili16.
Questi generali
conducevan sempre seco loro degli stranieri, i quali occupavano i primi gradi
della truppa. Gli altri erano accordati agli allievi del collegio militare,
dove la gioventù era invero bene istruita nelle cognizioni militari, ma non
acquistava certamente né quel coraggio né quella sofferenza delle fatiche, che
si acquista solo coll'età e coi lunghi servigi. Il genio e le cognizioni
debbono formare i generali: ma il coraggio e l'amor della fatica formano gli
uffiziali. Il gran principio: che in tempo di pace l'anzianità debba esser la norma
delle promozioni, non era confacente al genio di Acton, il quale, quando non avesse avuto il dispotismo nel cuore,
l'avea nella testa. Si videro vecchi capitani, abbandonati alla loro miseria,
dover ubbidire a giovanetti inesperti e deboli, i quali non sapevano altro che
la teoria, ed a molti altri (poiché, tolta una volta la norma sensibile del
giusto, si apre il campo al favore ed all'intrigo), i quali non sapevano
neanche la teoria, ma che, a forza di danaro, di spionaggio e di qualche titolo
anche più infame dello spionaggio, erano stati elevati a quel grado. I gradi,
che non si potevano occupare da costoro, rimasero vuoti, e si videro de'
reggimenti interi mancare della metà degli officiali, mentre coloro che dovevan
esser promossi domandavano invano il premio delle loro fatiche. Acton
rispondeva a costoro che «aspettassero la pubblicazione del loro piano»; piano
ammirabile, che costò ad Acton venti anni di meditazione e che, senza esser mai
stato pubblicato, ha disorganizzata la truppa, disgustata la nazione, dissipato
l'erario dello Stato!
Tutto nel regno
di Napoli era malversazione o progetti chimerici più nocivi della
malversazione; ed intanto ciò che era necessario non si faceva. Noi avevamo
bisogno di strade: il marchese della Sambuca ne vide la necessità, fu posta una
imposizione di circa trecentomila ducati all'anno: l'opera fu incominciata, se
ne fecero taluni spezzoni; ma poco di poi l'opera fu sospesa e la contribuzione
convertita ad un altro uso. Province intere chiesero il permesso di costruirsi
le strade a loro spese, promettendo intanto di continuare a pagare alla corte,
sebbene già convertita ad altro uso, l'imposizione che era addetta alle strade;
promettendo pagarla per sempre, ancorché, quando s'impose, si fosse promesso di
dover finire colla costruzione delle strade. Si crederebbe che questo progetto
fosse stato rifiutato? Si può immaginare nazione più ragionevole e più buona e
ministero più stolidamente scellerato? Vi erano nel regno di Napoli alcuni
errori nelle massime ed alcuni vizi nell'organizzazione, i quali impedivano i
progressi della pubblica felicità. Avean data origine ai medesimi altri tempi
ed altre circostanze: le circostanze e i tempi eransi cangiati, ma gli errori
ed i vizi sussistevano ancora.
Simile a tutt'i
governi i quali hanno un impero superiore alle proprie forze, il governo di
Spagna, ne' tempi della dinastia austriaca, avea procurato di distruggere ciò
che non poteva conservare. Si era estinto ogni valor militare. A contenere una
nobiltà generosa e potente, il primo de' viceré spagnuoli, Pietro di Toledo,
credette opportuno invilupparla tra i lacci di una giurisprudenza cavillosa la
quale, nel tempo istesso che offriva facili ed abbondanti ricchezze a coloro
che non ne avevano, spogliava quegli che ne abbondavano e moltiplicava oltre il
dovere una classe di persone pericolose in ogni Stato, perché potevano divenir
ricche senza esser industriose o, ciò che val lo stesso, senza che la loro
industria producesse nulla. Tutti gli affari del Regno si discussero nel fòro,
e nel fòro si disputò sopra tutti gli affari. Derivaron da ciò molti mali.
Tutto ciò che non era materia di disputa forense fu trascurato: agricoltura,
arti, commercio, scienze utili, tutto ciò fu considerato piuttosto come oggetto
di sterile o voluttuosa curiosità che come studi utili alla prosperità pubblica
e privata. Si è letto per qualche secolo sulla porta delle nostre scuole un
distico latino, nel quale la goffaggine dello stile eguagliava la stoltezza del
pensiero, e che diceva: «Galeno dà le ricchezze, Giustiniano dà gli onori;
tutti gli altri non dànno che paglia». E, se mai taluno, ad onta della mancanza
di istruzione, concepiva qualche idea di pubblica utilità, non poteva eseguirla
senza prima soggettarsi ad un esame, il quale, perché fatto innanzi a giudici e
con tutte le formole giudiziarie, diventava litigio. Si voleva fare un ponte?
si dovea litigare. Si voleva fare una strada? si dovea litigare. Ciascuno del
popolo ha in Napoli il diritto di opporsi al bene che voi volete fare.
Carlo terzo
fece grandissimi beni al Regno: egli riordinò l'amministrazione della
giustizia, tolse gli abusi della giurisdizione ecclesiastica, frenò quelli
della feudale, protesse le arti e l'industria; e più bene avrebbe fatto, se il
suo regno fosse stato più lungo e se molti de' ministri, che lo servivano, non
avessero ancora seguite in gran parte le massime dell'antica politica
spagnuola. Tanucci, per esempio, il di lui amico, quello tra' suoi ministri a
cui più deve il Regno, errava credendo che il regno di Napoli non dovesse esser
mai un regno militare. È nota la risposta che egli soleva dare a chiunque gli
parlava di guerra: - Principoni, armate e cannoni; principini, ville e casini.
- La sua massima era falsa, perché né il re di Napoli poteva chiamarsi
«principino», né i principini sono dispensati della cura della propria difesa.
Tanucci, più diplomatico che militare, confidava più ne' trattati che nella
propria forza; ignorava che la sola forza è quella che fa ottener vantaggiosi
trattati; ignorava la forza del Regno che amministrava ed, invece di
un'esistenza propria e sicura, gliene dava una dipendente dall'arbitrio altrui
ed incerta.
Continuò
Tanucci a confondere il potere amministrativo ed il giudiziario, ed il fòro
continuò ad esser il centro di tutti gli affari. Il potere giudiziario tende,
per sua intrinseca natura, a conservar le cose nello stato nel quale si
trovano; l'amministrativo tende a sempre cangiarle, perché tende sempre a migliorarle:
il primo pronunzia sempre sentenze irrevocabili; il secondo non fa che
tentativi, i quali si possono e talora si debbono cangiare ogni giorno. Se
questi due poteri, per loro natura tanto diversi, li riunite, corrompete l'uno
e l'altro.
Tutto in Napoli
si dovea fare dai giudici e per vie giudiziarie; e da questo ne veniva che
tutte le operazioni amministrative eran lente e riuscivan male. Il governo era
tanto lontano dalle vere idee di amministrazione, che i vari oggetti della medesima
o non erano affidati a nessuno o erano commessi agli stessi giudici; quindi
l'utile amministrazione o non avea chi la promovesse o era promossa
languidissimamente da coloro che avean tante altre cose da fare.
L'altro
difetto, che vi era nell'organizzazione del governo di Napoli, era la mancanza
di un centro comune, al quale, come tanti raggi, andassero a finir tutti i rami
dell'amministrazione. Questo centro avrebbe dovuto essere il Consiglio di
Stato. Ma Consiglio di Stato in Napoli non vi era se non di nome. Ciascun
ministro era indipendente. I regolamenti generali, i quali avrebbero dovuto
essere il risultato della deliberazione comune di tutt'i ministri, ciascun
ministro li faceva da sé: in conseguenza, ciascun ministro li faceva a suo
modo; i regolamenti di un ministro eran contrari a quelli di un altro, perché
la principal cura di ogni ministro era sempre quella di usurpar quanto più
poteva l'autorità de' suoi colleghi e distruggere le operazioni del suo
antecessore. Così non vi era nelle operazioni del governo né unità né costanza:
il ministro della guerra distruggeva ciò che faceva il ministro delle finanze,
e quello delle finanze distruggeva ciò che faceva il ministro della guerra. Tra
tanti ministri eravi sempre (e questo era inevitabile) uno più innanzi di tutti
gli altri nel favor del sovrano, e questo ministro era quegli che dava, come
suol dirsi, il «tono» ed il «carattere» a tutti gli affari; tono e carattere
che un momento di poi cangiava, perché cangiava il favore. Né valeva, ad
assicurar la durata di un regolamento o di una legge, la ragionevolezza della
medesima. Vi fu mai legge più giusta di quella che obbligava i giudici a
ragionar le loro sentenze, onde esse fossero veramente sentenze e non capricci?
Tanucci avea imposta questa obbligazione ai giudici: Simonetti ne li sciolse.
Si può credere che Simonetti pensasse di buona fede che i giudici non fossero
obbligati a ragionare e ad ubbidire alla legge? Simonetti dunque tradì la sua
propria coscienza, tradì il re, perché la legge, che egli abolì, non era opera
sua, ma bensì di Tanucci.
Gli esempi di
simili cose sarebbero infiniti di numero, ma io mi son limitato a questo solo,
perché, siccome esso urta evidentemente il senso comune, basta a dimostrare che
i difetti di organizzazione de' quali parliamo erano spinti tanto innanzi, da
non rispettar più neanche il senso comune. Si aggiunga a ciò che tutt'i
ministri erano ministri di giustizia, imperciocché l'amministrazione della
giustizia non era ordinata in modo che seguisse la natura delle cose o delle
azioni, ma seguiva ancora, come avveniva presso i barbari del Settentrione,
nostri antenati, la natura delle persone: la giustizia era diversa pel
militare, pel prete, per l'uomo che possedeva una greggia, per l'uomo che non
ne possedeva, ecc. ecc. Si eran moltiplicate in Napoli le corti giudicatrici
più che non furono moltiplicati in Roma gl'iddii ai tempi di Cicerone, per cui
questo grand'uomo si doleva di non potersi fare un passo senza timore di urtare
qualche divinità; e, nel contrasto continuo tra tanti tribunali, spesso era ben
difficile sapere da qual di essi uno dovesse esser giudicato. Io ho degli
esempi di «quistioni di tribunale», le quali han durato diciotto anni.
Nuovi
disordini, e maggiori. In una monarchia, quello che nella giurisprudenza romana
chiamavasi «rescritto del principe» deve avere vigore di legge; ma i principi
saggi fanno pochissimi rescritti e non mai per altro che per alcuni casi
particolari, onde è che in tutte le monarchie trovasi, per legge quasi
fondamentale dello Stato, stabilito che il rescritto non debba mai trasportarsi
da un caso all'altro. Nel regno di Napoli i rescritti eransi moltiplicati
all'infinito: ciascun ministro ne faceva, e ciascun ministro faceva rescritti
invece di leggi. Come sempre suole avvenire, i rescritti eran l'opera de'
commessi, e vi è stato tra essi taluno il quale per molti anni è stato il vero,
il solo legislatore di tutto il Regno.
Io mi trattengo
molto sopra queste che sembran picciole cose, perché da esse dipendono le
grandi. Cambiate le prime, ed imaginate che Tanucci avesse compresa tutta la
potenza del Regno e vi avesse stabiliti ordini ed educazione militare; che il
potere amministrativo fosse stato diviso dal giudiziario, e divenuto quello più
attivo, questo più regolare; che tutte le parti dell'amministrazione avessero
avuto un centro comune, un Consiglio permanente, alla testa del quale fosse
stato il re; e che i ministri, non più indipendenti l'uno dall'altro e tutti
rivali, fossero stati costretti ad operare dietro un piano uniforme e costante;
imaginate, insomma, che il re, invece di lasciar preponderare or questo or
quell'altro ministro, avesse voluto esser veramente re; e tutto allora sarebbe
cambiato. Imperciocché io son persuaso che, nello stato presente delle idee e
de' costumi dell'Europa, rarissimo e forse impossibile a trovarsi sia un re il
quale non voglia il bene del suo regno: ma questo bene non si fa produrre,
perché deve farsi dai ministri, i quali amano più il posto che il regno e più
la persona propria che il posto. È necessità dunque costringerveli colla forza
degli ordini pubblici, il vero fine de' quali, per chi intende, non è altro che
garantire il re contro la negligenza e la mala volontà de' ministri. Con
picciolissime riforme voi producete un grandissimo bene, e tutte le riforme di
uno Stato tendono ad un sol fine, cioè che il re sia veramente re. Ma, per
questa ragione, a tali riforme i ministri si oppongono sempre; onde poi i mali
diventano maggiori, ed inevitabili quelle grandissime crisi, per le quali
spesso s'immolano dieci generazioni per rendere forse felice l'undecima. Verità
funesta e per i principi e per i popoli! Le rovine di quelli e di questi per
l'ordinario sono l'effetto de' ministri e di coloro che si millantano amici dei
re17.
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