Tale era lo
stato del Regno sul cadere dell'estate del 1798, quando la vittoria di Nelson
ne' mari di Alessandria22, lo scarso numero della truppa francese in
Italia, le promesse venali di qualche francese, la nuova alleanza colla Russia
e, più di tutto, gl'intrighi del gabinetto inglese, fecero credere al re di
Napoli esser venuto il momento opportuno a ristabilire le cose d'Italia.
Da una parte,
la repubblica romana, teatro delle prime operazioni militari, più che di uno
Stato, presentava l'apparenza di un deserto, i pochi uomini abitatori del
quale, invece di opporsi all'invasore, dovean ricevere chiunque loro portasse
del pane. Dall'altra, l'imperatore di Germania rivolgeva di nuovo pensieri di
guerra: né egli né il Direttorio volevan più la pace; e si osservava che,
mentre i plenipotenziari delle due potenze stavano inutilmente in Rastadt, i
francesi occupavano la Svizzera ed i russi marciavano verso il Reno.
Il re di
Napoli, per completare il suo esercito, ordinò una leva di quarantamila uomini,
la quale fu eseguita in tutto il Regno in un giorno solo. In tal modo sulle
frontiere, al cader di ottobre, trovaronsi riuniti circa settantamila uomini.
Mancava a
queste truppe un generale, e, credendosi che non si potesse trovare in Napoli,
si chiese alla Germania. Mack giunse come un genio tutelare del Regno.
Il piano della
guerra era che il re di Napoli avrebbe fatto avanzar le sue truppe nel tempo
stesso che l'imperatore avrebbe aperta la campagna dalla sua parte. Il duca di
Toscana ed il re di Sardegna doveano avere anch'essi parte nell'operazione, ed
a tale oggetto facevano delle leve segrete ne' loro Stati; e si erano inviati
dalla corte di Napoli settemila uomini sotto il comando del general Naselli, il
quale occupò Livorno ed a tempo opportuno doveva, insieme colle truppe toscane,
marciar sopra Bologna e riunirsi alla grande armata. Si era creduto necessario,
sotto apparenza di difesa, occupare militarmente la Toscana, perché quel
governo era, tra tutti i governi italiani, il più sinceramente alieno dai
pensieri di guerra; e questo avea reso il ministero toscano tanto odioso al
governo di Napoli, che poco mancò che non si vedessero dei corpi di truppa
spedirsi da Napoli in Livorno a solo fine di obbligare il granduca a deporre
Manfredini. In tal modo i francesi, circondati ed attaccati in tutti i punti,
dovevano sloggiar dall'Italia.
Ma l'imperatore
intanto non si movea, tra perché forse opportuna non era ancora la stagione,
tra perché aspettava i russi che non erano giunti ancora. Il Consiglio di
Vienna avea risoluto di non aprir la campagna prima del mese di aprile. Non si
sa come, si ottennero lettere più autorevoli delle risoluzioni del Consiglio,
le quali permettevano all'esercito napolitano di muoversi prima; e queste
lettere erano state chieste ed ottenute con tanta segretezza, che il ministero
istesso di Vienna non le seppe se non nello stesso giorno nel quale seppe e la
marcia delle truppe e la disfatta. Amarissimi rimproveri ne ebbe chi allora
risedeva in Vienna per la corte di Napoli. Il ministro Thugut diceva che questa
corte avea tradita la causa di tutta l'Europa e che meritava di esser
abbandonata al suo destino. La protezione dell'imperatore Paolo primo, presso
il quale principal mediatrice fu la granduchessa Elena Paolowna, allora
arciduchessa palatina, salvò la corte dagli effetti di questa minaccia.
L'ambasciatore napolitano si giustificò, mostrando ordini in faccia ai quali
quelli del Consiglio dovean tacere. Ma rimase e rimarrà sempre incerto e disputabile
perché mai, contro gli stessi propri interessi, da Napoli si chiedevano e da
Vienna si davano ordini segreti, contrari al piano pubblicamente risoluto, da
tutti accettato, da tutti riconosciuto per più vantaggioso. Intendevasi, con
ciò, ingannar l'inimico o se stesso?
È probabile che
la corte di Napoli ardesse di soverchia impazienza di discacciar i francesi
dall'Italia. È probabile ancora che tanta impazienza non nascesse da solo odio,
ma anche da desiderio di trarre da una vittoria, la quale credevasi sicura, un
profitto, che forse l'Austria non avrebbe volentieri conceduto, ma, trovandolo
già preso, lo avrebbe tollerato. Siccome nelle leghe non si dà mai più di
quello che uno si prende, così de' collegati ciascuno si affretta a prendere
quanto più può e quanto più presto è possibile; la vicendevole gelosia genera
la comune mala fede e, mentre ciascuno pensa a sé, si obbliano gl'interessi di
tutti. Ma, in tale ipotesi, perché mai l'Austria acconsentì alla dimanda di
Napoli? Non è neanche inverosimile che Mack, sempre fertile in progetti,
credesse facile discacciar i francesi; e, sicuro de' primi successi (e chi non
l'avrebbe creduto, quando Mack non si conosceva ancora?), amava più d'invitare
l'imperatore a goderne i frutti che dividerne la gloria.
Sopra ogni
altra congettura però è verosimile che la corte di Napoli operasse spesso senza
l'intelligenza dell'imperatore di Germania, perché, mentre da una parte
prestava il suo nome alla lega che si era stretta nel Nord e della quale era il
centro principale in Vienna, dall'altra manteneva un suo ambasciatore in
Parigi, il quale, quando la pace fu già rotta, potette ottenere dal Direttorio
ordini tali al generale in capo dell'armata d'Italia, che gl'impedivano
d'invadere il regno di Napoli e limitavano le sue operazioni militari a
respingere solamente l'aggressione. Il corriere che portava tali ordini fu, non
si sa bene per quale accidente, assassinato nel Piemonte. Ora, ordini di tale
natura, quando anche s'ignorino le trattative precedenti, è certo che non si
possono ottenere senza supporre o che il Direttorio ignorasse interamente i
disegni ed i movimenti del gabinetto di Napoli, il che è incredibile, o che
avesse risoluto d'abbandonar l'Italia, talché la corte di Napoli, più che sugli
aiuti degli alleati, fondasse le speranze de' suoi vantaggi sull'abbandono del
governo francese, e volesse perciò procurarseli da sé sola, onde non esser
costretta a dividerli cogli altri. È certo che la guerra con Napoli fu fatta
contro gli ordini del Direttorio; che Championnet non ebbe altri che lo
autorizzasse a farla se non il generale in capo Joubert, e che in faccia al
Direttorio dovette scusarsi colla ragione di quella necessità, che spesso
spinge un generale oltre i limiti delle istruzioni superiori; e fu assoluto,
perché facilmente si giustifica ogni audacia che abbia ottenuto prospero
successo.
Ma tutte queste
cose agitavansi nel segreto del gabinetto, né a tutti i ministri del re erano
confidate. Miserabile condizione di tempi, ne' quali la sorte de' popoli
dipende più dall'intrigo che dal valor vero, e vedesi un governo, il quale
poteva tutto ragionevolmente sperare dalle forze proprie e dall'opportunità
delle circostanze, avvilirsi a cercar la vittoria dai capricci e dalle promesse
degli uomini, meno stabili della stessa fortuna! Se la corte di Napoli,
consultando le proprie forze e la propria ragione, anziché la guerra, l'avesse
guerreggiata, ne avrebbe ottenuti successi o più felici o meno disastrosi.
Difatti il maggior numero de' consiglieri del re, sia che ignorassero le
segrete ragioni sulle quali si fondavano tutte le speranze del buon successo,
sia che non vi mettessero molta fede, rimasero fermi nel parere della pace. Ma
Acton ebbe cura di allontanarli. Quando si decise la guerra, non intervennero
molti degli antichi consiglieri. Il marchese De Marco, il generale Pignatelli,
il marchese del Gallo eran per la pace. Per la pace furono il maresciallo
Parisi ed il general Colli, chiamati in Consiglio, sebbene non consiglieri. Ma
la regina, Mack, Acton, Castelcicala formarono la pluralità e strascinarono
l'animo del re.
- Che vi pare
di questa guerra già risoluta? - domandò molti giorni dipoi la regina ad
Ariola, che era ministro di guerra e che intanto non ne sapeva ancor nulla.
Ariola, che avrebbe voluto tacere, spronato a parlare, le disse che da tal
guerra vi era più da temere che da sperare.
- Il re
potrebbe - disse Ariola - sostener con vantaggio una guerra difensiva, ma tutto
gli manca per l'offensiva. Egli non combatte ad armi eguali. I francesi, pochi
di numero, son tutti soldati avvezzi alla guerra ed alla fatica; l'esercito
nostro è per metà composto di reclute strappate appena da un mese dal seno
delle loro famiglie, ed il loro numero maggiore non servirà che ad imbarazzare
i buoni veterani che son tra loro, ed a rendere più sensibile la mancanza in
cui siamo di buoni officiali, il numero de' quali non abbiam potuto raddoppiare
in un momento, come abbiam raddoppiato quello della truppa. Perché non si
aspetta che queste truppe si disciplinino? Perché non si aspetta che
l'imperatore si muova il primo? Tanta fretta si ha dunque di vincere, che non
si ha cura neanche di render sicura la vittoria? Tanto certo è della vittoria
Mack, che si avvia senza neanche pensare alla possibilità di un rovescio? Si
apre una guerra nelle frontiere, è necessario che uno de' due Stati
immediatamente sia invaso; ed intanto niuna cura egli si ha preso della difesa
dell'interno del Regno, che tutto è aperto, ed, al primo rovescio che noi
avremo, il nemico sarà nel cuore de' nostri Stati. A noi non sarà molto facile,
soli e senza il soccorso dell'imperatore, discacciar l'inimico dall'Italia, e,
finché ciò non si ottenga, nulla si potrà dir fatto. Molte vittorie bisognano a
noi: una sola basta all'inimico. Quanto più l'inimico si avanzerà, tanto più
facile troverà la strada alla vittoria; ma quando più ci avanzeremo noi, tanto
maggiori e più numerosi ostacoli incontraremo: la sorte dell'inimico si decide
in un momento; la nostra, sebbene prospera, avrà bisogno di molto tempo.
Intanto Mack, quasi potesse terminar la guerra in pochi giorni, si avvia verso
un paese desolato, ove è penuria di tutto, senza aver prima pensato a
provvedersi, ed in una stagione in cui difficili sono i trasporti ed i generi
non abbondanti. Egli si avvia a conquistare il territorio altrui e forse a
perdere il proprio. -
Quale fu
l'effetto di questo discorso? Mack ed Acton se ne offesero, Acton minacciò
Ariola, Ariola se ne dolse col re e, mentre il re gli dava ragione, Acton in
sua presenza gli tolse il portafoglio. Pochi giorni dipoi, l'esperimento
confermò la veracità de' suoi pronostici. Il re, fuggito da Roma, giunse a
Caserta: si ricorda di Ariola e lo invoca come l'unico suo liberatore. Ariola
parte pel campo onde concertare con Mack i mezzi di difendere il Regno da
un'invasione. Trova lo stato maggiore in Terracina, ma Mack non vi era, né
alcuno sapeva indicare ove mai si trovasse. Intanto vede ritornar l'esercito
tutto disperso. Crede necessario tornare in Caserta e non perder tempo. Poche
ore dopo la di lui partenza, Mack arriva. Scrive al re che il ministro della
guerra era un vile, il quale avea abbandonato il suo posto. Ed Ariola è
arrestato. Né è improbabile che a questa disgrazia di Ariola abbia prestata la
sua mano anche Acton, se è vero ciò che taluni dicono, che, accusato egli di
aver mal diretti alcuni preparativi militari, abbia voluto farne creder
colpevole Ariola ed abbia afferrata potentemente l'occasione di poter far
sequestrare le di lui carte, onde non si venisse mai in chiaro del vero autore.
Credeva egli con un delitto di cortigiano conservar la fama di generale?
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