Nella storia
dell'Italia, gli avvenimenti della fine del secolo decimottavo somiglian quelli
della fine del secolo decimoquinto. In ambedue le epoche gli stessi avvenimenti
furon prodotti dalle stesse cagioni e seguìti dai medesimi effetti. In amendue
le epoche il Regno fu perduto per opera di picciolissime forze inimiche: nel
decimoquinto secolo, i partiti che dividevano il Regno vi attirarono la guerra;
nel decimottavo, la guerra e la disfatta vi suscitarono i partiti: in quello,
il re avea tentato tutt'i mezzi per evitar la guerra; in questo, tutti li avea
messi in opera per suscitarla: lo scoraggiamento, dopo la disfatta, eguale e
nel re aragonese e nel borbonico; ma prima della guerra questi ha dimostrato
coraggio maggiore di quello. In ambedue le epoche però il Regno fu perduto
quando il fatto posteriore ha dimostrato che era facile il conservarlo, poiché
è impossibile credere che non si avesse potuto facilmente conservare quel
Regno, che, anche dopo la perdita fattane, si è potuto tanto facilmente
ricuperare. In ambedue le epoche ha preceduta la perdita del Regno una
vicendevole e funesta diffidenza tra il re ed i popoli, non irragionevole
nell'epoca degli Aragonesi, priva però di ogni ragione ne' tempi nostri.
Ferdinando di Aragona avea trattati crudelmente i baroni, i quali avean tramata
una congiura e guerreggiata una guerra civile; Vanni avea punita una congiura
che ancora non si era tramata ed il pensiero di una ribellione che non si
poteva eseguire. In amendue le epoche alla difesa del Regno è mancata l'energia
piuttosto ne' consigli del re che nelle azioni de' popoli. Finalmente in
ambedue le epoche il Regno è stato abbandonato dai vincitori, perché costretti
a ritirar le loro forze nell'Italia superiore.
Io vorrei che,
ogni qual volta succede un simile avvenimento, si rileggesse la seguente, non
saprei dir se dottrina o profezia di Macchiavelli: «Credevano - dice egli - i
nostri principi italiani, prima che essi assaggiassero i colpi delle
oltramontane guerre, che ai principi bastasse sapere negli scritti pensare una
cauta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne' detti e nelle parole
arguzia e prontezza, saper tessere una fraude, ornarsi di gemme e di oro,
dormire e mangiare con maggior splendore che gli altri, tenere assai lascivie
intorno, governarsi coi sudditi avaramente, superbamente, marcirsi nell'ozio,
dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse dimostrato
loro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fossero responsi di
oracoli; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad esser preda di
qualunque gli assaltava. Di qui nacquero nel 1494 i grandi spaventi, le subite
fughe e le miracolose perdite; e così tre potentissimi Stati, che erano in
Italia, sono stati più volte saccheggiati e guasti». Non è meraviglia che gli
stessi errori abbiano avuti nel 1798 gli stessi effetti e che un potentissimo
regno sia rovinato nel tempo stesso, in cui, con ordini più savi, tale era lo
stato politico di Europa, dovea ingrandirsi. «La meraviglia è - continua
Macchiavelli - che quelli che restano» anzi quegli stessi che han sofferto il
male, «stanno nello stesso errore, e vivono nello stesso disordine».
La
Città24 avea assunto il governo municipale di Napoli: erasi formata una
milizia nazionale per mantenere il buon ordine. Il popolo ne' primi giorni
riconosceva l'autorità della Città; tutto in apparenza era tranquillo: ma il
fuoco ardeva sotto le ceneri fallaci. Pignatelli avrebbe dovuto avvedersi che
il pericoloso onore, a cui era stato destinato, era forse l'ultimo tratto del
suo rivale Acton per perderlo. Egli avrebbe potuto vendicarsi del suo rivale,
render al suo re uno di quei servigi segnalati e straordinari, per i quali un
uomo acquista quasi il nome ed i diritti di fondator di una dinastia, renderne
un altro egualmente grande alla patria; avrebbe potuto o vincere la guerra o
finirla, risparmiando l'anarchia e tutti i mali dell'anarchia: le circostanze
nelle quali trovavasi erano straordinarie, ma egli non seppe concepire che
pensieri ordinari.
Si disse che la
regina, partendo, gli avesse lasciate istruzioni segrete di sollevare il
popolo, di consegnargli le armi, di produrre l'anarchia, di far incendiare
Napoli, di non farvi rimanere anima vivente «da notaro in sopra»... Sia che
queste voci fossero vere, sia che fossero state immaginate, quasi inevitabili
conseguenze dell'insurrezione che la regina, partendo, organizzava, è certo
però che queste voci furono da tutti ripetute, da tutti credute; e,
nell'osservare le vicende di una rivoluzione, meritano eguale attenzione le
voci vere e le false, perché, essendo, a differenza de' tempi tranquilli,
l'opinione del popolo grandissima cagione di tutti gli avvenimenti, diviene
egualmente importante e ciò che è vero e ciò che si crede tale.
Pochi giorni
dopo si videro i primi funesti effetti degli ordini della regina nell'incendio
de' vascelli e delle barche cannoniere, che non eransi potute, per la troppo
precipitevole fuga, trasportare in Sicilia. Poche ore bastarono a consumare ciò
che tanti anni e tanti tesori costavano alla nostra nazione. Il conte Thurn da
un legno portoghese dirigea e mirava tranquillamente l'incendio; ed allo
splendore ferale di quelle fiamme parve che il popolo napolitano vedesse al
tempo stesso e tutti gli errori del governo e tutte le miserie del suo destino.
Il popolo non
amava più il re, non volea neanche udirlo nominare; ma, ripiena la mente delle
impressioni di tanti anni, amava ancora la sua religione, amava la patria e
odiava i francesi. Da queste sue disposizioni si avrebbe potuto trarre un utile
partito. Insursero delle gare tra la Città ed il vicario generale. Questi volea
usurparsi dritti che non avea, quasi che allora non fosse stato più utile ed
anche più glorioso cedere tutti quelli che avea: quella si ricordava che tra'
suoi privilegi eravi anche quello di non dover mai esser governata dai viceré.
La Città allora spiegò molta energia. Perché dunque allora non surse la
repubblica? Il popolo avrebbe senza dubbio seguìto il partito della Città. Ma,
tra coloro che la reggevano, alcuni pendevano per una oligarchia, la quale non
avrebbe potuto sostenersi a fronte delle province, dove l'odio contro i baroni
era la caratteristica comune di tutte le popolazioni; e, nello stato in cui
trovavansi gli animi e le cose, volendo stabilirsi un'oligarchia, sarebbe stato
necessario rinunciare alla feudalità. Altri non osavano; e vi fu anche chi
propose di doversi offrire il Regno ad un figlio di Spagna, quasi che questo
progetto fosse allora, non dico lodevole, ma eseguibile. Ne' momenti di
grandissima trepidazione, quando discordi sono le idee e molti i partiti,
difficile è sempre ritrovar la via di mezzo e, più che altrove, era
difficilissimo in Napoli, dove il maggior numero credeva i francesi
indispensabili a fondare repubbliche.
Intanto Capua
si difendeva ed il popolo applaudiva alla sua difesa. Si era anche lusingato di
maggiori vantaggi, poiché facile è sempre il popolo a sperare e non mai manca
chi fomenti le sue speranze. Ai 12 però di gennaio lesse affisso per Napoli
l'armistizio conchiuso tra il generale francese ed il vicario Pignatelli, per
lo quale i francesi venivano ad acquistare tutto quel tratto del Regno che
giace a settentrione di una linea tirata da Gaeta per Capua fino
all'imboccatura dell'Ofanto; ed inoltre, per ottener due mesi di armistizio, il
vicario si obbligava pagar tra pochi giorni la somma di due milioni e mezzo di
franchi.
Non mai vicario
alcuno di un re conchiuse un simile armistizio. La gloria gli consigliava a
contrastare sulle mura di Capua il passo ai francesi ed a morirvi; la prudenza
gli consigliava a cedere tutto e salvar la sua patria da nuove inutili
sciagure. Che poteva sperarsi da un breve armistizio di due mesi? Non vi era
neanche ragione di poter sperare un trattato. Il funesto consiglio per cui il
re erasi messo in mano degl'inglesi, lo metteva nella dura necessità di perdere
o il Regno di Napoli o quello di Sicilia. Avea il re commesso lo stesso errore
pel quale erasi perduto l'ultimo dei re della dinastia aragonese, quello cioè di
mettersi in braccio di uno de' due che si disputavano il di lui Regno;
quell'errore dal quale il savio Guicciardini ripete l'ultima rovina di quella
famiglia, poiché per esso le fu impedito di profittar delle occasioni che ne'
tempi posteriori la fortuna le offrì a ricuperare il trono. Perché dunque il
vicario volle frappor del tempo tra la cessione ed il possesso, e lasciar
libero lo sfogo all'odio che il popolaccio avea contro i francesi, quando
questi erano abbastanza vicini per destarlo e non ancora tanto da poterlo
frenare? Volea la guerra civile, l'anarchia? Tali erano gli ordini della
regina?
Il popolo si
credette tradito dal vicario, dalla Città, dai generali, dai soldati, da tutti.
La venuta de' commissari francesi, spediti ad esigere le somme promesse,
accrebbe i suoi sospetti ed il suo furore. Il giorno seguente, corse ai
castelli a prender le armi; i castelli furono aperti, la truppa non si oppose,
perché non avea ordine di opporsi. Il vicario fuggì come era fuggito il re; il popolaccio
corse a Caivano25 per deporre Mack, il quale, sebbene alla testa delle
truppe, non seppe far altro che fuggire26. Ogni vincolo sociale fu
rotto. Orde forsennate di popolaccio armato scorrevano minaccianti tutte le
strade della città, gridando «Viva la santa fede!», «Viva il popolo
napolitano!». Si scelsero per loro capi Moliterni e Roccaromana, giovani
cavalieri che allora erano gl'idoli del popolo, perché avean mostrato del
valore a Capua ed a Caiazzo contro i francesi. Riuscirono costoro a frenar per
poco i trascorsi popolari, ma la calma non durò che due giorni. I francesi
erano già quasi alle porte di Napoli.
S'inviò al loro
quartier generale una deputazione composta da' principali demagoghi, perché
rinunciassero al pensiero di entrare in Napoli, offerendo loro e quello che era
stato promesso coi patti dell'armistizio e qualche somma di più. La risposta
de' francesi fu negativa, qual si dovea prevedere, ma non qual dovea essere:
qualche nostro emigrato, mentre moltissimi convenivano della ragionevolezza
della dimanda, aggiunse alla negativa le minacce e l'insulto; e ciò finì
d'inferocire il popolo.
Non mancavano
agenti della corte che lo spingevano a nuovi furori, non mancava quello spirito
di rapina che caratterizza tutt'i popoli della terra, non mancavano preti e
monaci fanatici, i quali, benedicendo le armi di un popolo superstizioso in
nome del Dio degli eserciti, accrescevano colla speranza l'audacia e
coll'audacia il furore. La Città, che sino a quel giorno avea tenute delle
sessioni, più non ne tenne. Il popolo si credette abbandonato da tutti, e fece
tutto da sé. La città intera non offrì che un vasto spettacolo di saccheggi,
d'incendi, di lutto, di orrori e di replicate immagini di morte. Tra le vittime
del furore popolare meritano di non essere obbliati il duca della Torre e
Clemente Filomarino, suo fratello, rispettabili per i loro talenti e le loro
virtù e vittime miserabili della perfidia di un domestico scellerato.
Alcuni
repubblicani, ed allora erano repubblicani in Napoli tutti coloro che avevan
beni e costume, impedirono mali maggiori, rimescolandosi col popolo e fingendo
gli stessi sentimenti per dirigerlo. Altri, colla cooperazione di Moliterni e
di Roccaromana, s'introdussero nel forte Sant'Elmo, sotto vari pretesti e finti
nomi, e riuscirono a discacciarne i lazzaroni che ne erano i padroni.
Championnet avea desiderato che, prima ch'ei si movesse verso Napoli, fosse
stato sicuro di questo castello, che domina tutta la città. Molti altri corsero
ad unirsi coi francesi e ritornarono combattendo colle loro colonne.
Tutt'i buoni
desideravano l'arrivo de' francesi. Essi erano già alle porte. Ma il popolo,
ostinato a difendersi, sebbene male armato e senza capo alcuno, mostrò tanto
coraggio, che si fece conoscer degno di una causa migliore. In una città aperta
trattenne per due giorni l'entrata del nemico vincitore, ne contrastò a palmo a
palmo il terreno: quando poi si accorse che Sant'Elmo non era più suo, quando
si avvide che da tutt'i punti di Napoli i repubblicani facevan fuoco alle sue
spalle, vinto anziché scoraggito, si ritirò, meno avvilito dai vincitori che
indispettito contro coloro ch'esso credeva traditori.
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